DIEGO GUADAGNINO, Poesia della memoria

Libertà poetica è quella che praticano gli scrittori di poesie quando seviziano la grammatica per rispettare la metrica. Eppure il binomio, spogliato dal suo significato usuale, assume quello della libertà che diventa poesia, formula che ci viene di applicare alla corposa silloge di Lillo Curto, già noto per le immaginose sculture ricavate con arte da vecchie radiche d’ulivo. Sono poesie nate nell’età pensionabile, età per alcuni tristezza e noia, per altri ricongiungimento al senso ludico e creativo impersonato dal pascoliano fanciullino. 

Lasciatesi dietro le ubbie lavorative, il nostro poeta ha potuto realizzare il sogno della libertà concedendosi alla magica trance della sua musa; il frutto di questa generosa messe ispirativa viene dato alle stampe nel 2020 col titolo Nun sunnu poesii, nun sugnu poeta..., alla pubblicazione fa da padrino, con un’attenta introduzione, il dott. Giuseppe Brancato; nel 2021 esce la seconda edizione, accompagnata da una colta e puntuale postfazione dello storico Salvatore Vaiana.

Nun sunnu poesii, nun sugnu poeta…. La duplice negazione del titolo, formalmente in sintonia con la tradizione dei poeti dialettali, suggerisce una infinità di ipotesi, noi ne scegliamo una: quella della modestia dell’autore che mettendo le mani avanti dice: giudicate voi se sono poeta e se queste sono poesie. E noi rispondiamo affermativamente a entrambi le domande. Inaspettatamente (visto che si tratta di un’opera prima) ci troviamo davanti alla più consistente e vivida rappresentazione dei personaggi, delle usanze, dei modi di dire, della miseria, delle gioie e delle pene del popolo canicattinese prima del boom economico e, dopo questo, della rivoluzione elettronica. Una ricerca del tempo perduto scandita in versi liberi, con preponderante presenza dell’endecasillabo, dovizia di rime perfette e imperfette, ma nel complesso di ammaliante musicalità popolaresca. La scelta linguistica del vernacolo canicattinese, col rispetto delle “peculiari inflessioni spagnoleggianti” (Vaiana) - tipo cuemu per comu, col recupero della “r” intercalata nella sillaba formata da una vocale preceduta da due “d”, tipo dduecuddruecuiddu, iddru - diventa suggello ambientale e definitivo al marcato realismo del racconto. 

Equipaggiato da una memoria attenta e minuziosa come quella di un fanciullo e assistito da una vena inarrestabile, il poeta ci conduce per Canicattì nella rivisitazione di un mondo che è recupero memoriale per chi ha la sua stessa età e acquisizione di un patrimonio identitario da mantenere per le generazioni più giovani. 

Cartografo e poeta, non manca di tracciare la mappa in cui assieme a lui o senza si muovono i protagonisti animati e inanimati del suo poema: 

 

Lu centru a Caniattì era la chiazza

di tutti li quartera circondata:

di lu Llorgiu a lu furnu d’Arrustutu,

di la pompa Pinnacchia a Santu Decu;

poi di la Santa Cruci s’acchianava

finu a lu bellu largu di Don Cola;

lu Redenturi già fora paisi

cuemu la Cuba e pur anchi li chiusi.

A San Franciscu c’era lu Spitali,

mentri lu Lazzarettu era cchiù sutta

cu Larterizzi e ponti di Marruni.

Pi jiri a Brualinu s’acchianava

passannu la Caserma e la Centrali,

Santu Ruardu fin’a lu Cummentu

e doppu San Calò cu San Milasi:

e nni ssi lati un c’eranu cchiù casi.

Di la Madonna Rocca a la Batia,

Santa Lucia e poi cu l’Acquanova…

 

La trascrizione dei superiori versi, parte della poesia Caniattì geograficu di l’anni ’50, è quasi d’obbligo, perché la raccolta non concede spazio a componimenti (tranne i nove in lingua italiana in una sezione a parte, che ci auguriamo venga eliminata in una prossima edizione) che non abbiano a teatro Canicattì, niente sussulti lirici, niente sentimentalismi intimistici, Curto è poeta realista e corale: anche quando trae ispirazione da ricordi personali, le immagini che vengono alla luce sono schegge di memoria collettiva e l’evento testuale con immediatezza assurge a campione di un’epoca e di un clima che è sempre popolare e comunitario. 

Nella poesia La testacu li corna leggiamo “ma nannu niscì fora pi la spisa / circannu di truvari qualchi cosa. / Intra s’arricuglì cu na gran testa / ancora cu li corna ‘mpiccicati, / ca trasiri un putia ni li pignati.” Alcuni colpi di accetta e la testa senza più le corna finisce in una pentola con sedano cipolla e pomodoro. Dopo circa un’ora di cottura il profumo del brodo attrae i vicini che vengono a dare una mano, e quando è pronto la nonna ne dà a tutti, e come in una favola di cuccagna, quel brodo non finisce mai, perché la buona donna “propriru quannnu pi finiri stava / jungiva acqua e poi l’arriminava.” E come se non bastasse, “La carni di la testa fu spruppata / e parsi ‘na gran festa di paisi.” Un mondo dove la solidarietà, lo stare in compagnia sono ovvi, scontati e accadono con la spontanea semplicità di un fatto naturale. E poi in un'altra poesia, Li tiempi cangianu, seguendo l’evoluzione dei modi di cucinare dalla legna all’odierno metano, il poeta coglie l’occasione per domandarsi:

 

Nenti ni manca cchiù? Aviemmu tuttu? 

Unn’è lu vicinatu? Unn’è l’amuri? 

Mancu ci stammu cchiù cu li persuni,

ognunu si nni sta pi li so fatti 

e manna a ddru paisi quasi a tutti.

 

Oltre al venir meno dell’habitat affettivo, è cambiato anche il paesaggio umano, la parte visibile del sociale si è diluita in una sorta di apparente omologazione dove non solo la povertà ma anche la malattia e la sventura diventano vergogna e il dramma del vivere di ognuno strema e muore nell’ombra del privato. È l’effetto della società dello spettacolo, come l’ha definita Guy Debord, una società dove ciò che non appare non esiste e quindi nulla disturba la fasulla utopia di un’altrettanto fasulla felicità da spot televisivo. Li ‘nvisibili, difatti, è il titolo della poesia dedicata ai poveri di ieri e di oggi. Ieri i poveri erano visibilissimi, venivano a bussare alla porta per una fetta di pane o una piccola moneta; il giorno dei morti si disponevano in fila ai lati della strada bianca di polvere che spesso si trasformava in fango per la pioggia:

 

la strata ca si và a lu Campusantu

era ‘na passarella di tristizza 

e facili viniva lu cunfruentu

tra vera puvirtà e la ricchizza.

A destra e manca ‘na fila ‘nquatrata

di genti a la dritta cu la stampella,

e genti ‘ingnucchiata misa ‘interra:

li scarpi rutti, li vesti strazzati,

vistita luerdi e anchi arripizzati,

genti morta di fami e senza tettu,

genti c’avìa bisuegnu di cunfuertu.

 

Certo non era una vista gratificante e ancor meno edificante, era il segno tuttavia di una società che non aveva ancora scoperto il paradossale pudore del malessere, al contrario di quella attuale che ha distrutto ogni forma di pudore mentre ha ingigantito questo sentimento fino alla vergogna relativamente alla povertà, alla malattia, al decadimento fisico e financo alla morte. E chi sono, allora, gli invisibili del titolo? Lo stesso testo dà la risposta:

 

la genti soffri, fallisci e s’abbrigogna

cuemu si ‘ntetsa ci avissi la tigna.

Ju m’addumannu e sulu m’arrispunnu: 

‘Ni chistu munnu chinu d’automobili 

di ricchi farsi e ricchi arriticati

li poviri ci su’? Tu l’ha ‘incuntrati?

Li poviri ci su e sunnu tanti, 

sunnu ammucciati ‘n-miezzu a l’antri genti.

Ti pari fussi cosa possibili?

Li poviri ci su’, sunnu… ’nvisibili.

 

Visibili erano ancora quei soggetti di devianza innocua e tollerata che ogni comunità regolarmente produceva, come Micheli lubabbu (A Micheli ca fu cruci e fu delizia / di Caniattì paisi curiusu, [...] / dedicu lu ricordu miritatu / pirchì accussì nun fussi mai scurdatu) o tipi semplicemente caratteristici di una umanità che faceva scena più degli altri, come Don Pippinu “Dalla che dalla”Peppi la FaraTuriddru Pirripizzuni, nel dipingere i quali viene fuori la vena di un umorismo mai sbeffeggiante o corrosivo ma sempre contenuto nei i limiti  dell’umana simpatia. 

Curto non si ferma alla rievocazione di personaggi coloriti che facilmente si prestano a vivacizzare il microcosmo paesano, ma fa nome e cognome di persone meritevoli, per eccellenti doti o qualità personali, di sopravvivere nella memoria collettiva canicattinese, e in questi casi riesce a sfuggire all’insidia della retorica mediante il sorriso amichevole e qualche volta anche affettuoso, come quando ricorda l’ingegnere Giuseppe Jannicelli attraverso l’aneddoto dei duecento grammi di parmigiano. Omaggio a Iannicelli è una poesia che sarebbe piaciuta al destinatario, possiamo dire sia stata scritta su misura come i sarti e i calzolai di una volta solevano fare nell’eseguire le commissioni dei clienti, proprio per l’intelligenza, il fine umorismo, la discrezione, l’onestà che lo distinguevano e che ora rilucono nei versi dell’amico poeta.

Dicevamo che il perimetro “caniattinisi” di Curto è popolato anche di protagonisti inanimati: sono gli oggetti che c’erano un tempo e ora non ci sono più perché superati dalla tecnologia; una vecchia agenda rinvenuta mai usata in un cassetto riporta indietro nel tempo, al ricordo di quanti appunti di lavoro e di famiglia vi si annotavano, e “ora nun serbi cchiù, nun c’è chi diri, / tuttu si fa c’un sulu cellulari.” Quello che è scomparso per il semplice fatto di poter essere visto solo con gli occhi dell’immaginazione brilla di una sua intrinseca e oggettiva poeticità, come l’antenato povero dei fornelli elettrici o a metano, detto Lu cufilaru, forma anagrammata di fucularu, focolore. Era l’angolo cucina della casa contadina, realizzato con pochi elementi e facente unico corpo con il forno, di cui costitutiva la parte anteriore:  

 

Du’ belli petri a un parmu di distanza

e du’ morsa di fierru misi ‘ncapu,

pi fari appoggiu a ‘na grossa pignata

ch’era di ramu russu e d’intra stagnata.

‘Na manata di paglia misa sutta

cu quattru ligniceddra ed eccu la vampata. 

 

Siamo certi che l’attuale raccolta si arricchirà di altri testi poetici, di altri frammenti del nostro passato diversamente destinati a essere inghiottiti dall’oblio. È l’augurio con cui licenziamo queste brevi note, salutando nel poeta Lillo Curto il nuovo genuino e appassionato cantore della nostra Canicattì.

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