LUIGI FICARRA, Canicattì 1820 - Bronte 1860

Canicattì 1820
La fredda mattina del 25 febbraio 1821, cessato lo stato d’assedio iniziato a Canicattì il 23 dicembre 1820, furono trascinati via in catene, a seguito dei 1200 soldati comandati dal generale Roth, tredici contadini poveri, incatenati assieme ad alcuni artigiani, capi della rivolta del novembre 1820, di cui fra poco diremo.
Definiti “briganti”, come poi i loro fratelli del periodo postunitario, essi furono vittime sia dei duri e disumani rapporti di classe dell’epoca che li ponevano, sfruttati all’ultimo sangue, alla totale mercé degli agrari e latifondisti del paese; sia anche della codardia e viltà di questa pseudo classe dirigente dell’epoca, in realtà formata solo da redditieri parassitari, nella quale commisero pure il fatale errore, come diremo, di porre fiducia.. E’ molto probabile infatti che alcuni se non tutti i tredici arrestati di Canicattì fossero stati fra quelli arruolati, da don Luigi Brutto, don Salvatore Gangitano, don Gaetano Adamo, don Gaspare Cascio, ed altri degni “signorotti” locali, nella truppa di 150 uomini a piedi più 50 a cavallo, per partecipare - loro guidati da don Nicolò Adamo e da don Giovanni Testasecca – alla spedizione contro Caltanissetta, colpevole di non aver prontamente aderito alla causa dell’indipendenza proclamata dai carbonari. Questo il paravento ideologico della spedizione organizzata e diretta dal principe di San Cataldo, Salvatore Galletti, postosi a capo di milizie formate in prevalenza da contadini. Il moto nacque indubbiamente sulla spinta dei carbonari, tanto da svolgersi sotto il motto “Indipendenza o morte – fuori i cappelli”, ma si tramutò sul posto, il 13 agosto 1820, prevalendo sugli ideali gli spiriti belluini dei “signorotti, nel massacro di decine e decine di nisseni e nel saccheggio dell’intera città di Caltanissetta. - Accadde che i «don ed i signorotti» di Canicattì che avevano partecipato al macabro “festino”, usando e macchiando gravemente il nome della Carboneria, se la fecero tutti franca trattando, da «galantuomini» quali erano, con il generale Costa dell’esercito borbonico, venuto a ristabilire nel settembre del 1820 l’ordine: gli dissero, invero, da codardi, (come poi faranno anche nel 1848), che erano stati spinti a partecipare «per timore». I contadini del paese, essendo stati conniventi passivi ai loro ordini, come truppa d’assalto, nell’eccidio e nelle razzie di Caltanissetta, commetteranno - ripeto - il tragico errore di riporre una fiducia di benevola comprensione in questa bassa e codina classe dirigente. (Uno solo, invero, di quelli di Canicattì che avevano organizzato quella che poi si tramutò in una vera e propria «spedizione punitiva» contro Caltanissetta, Luigi Brutto, avendo avuto la dignità di uomo di resistere assieme ad altri all’armata “realista” del Costa, finì, per alcuni giorni, nel carcere di «Castello a mare» a Palermo).
- Nel mese di novembre del 1820, (periodo, questo, sempre piovoso e di miseria crescente per i contadini poveri e le loro disgraziate e numerose famiglie), fu introdotta dal governo borbonico una nuova ed onerosa tassa sul macinato. Giudice del circondario era allora don Antonio Gangitano, il quale aveva rioccupato la carica, “manu militari”, nell’ottobre precedente; collettore delle imposte era don Giuseppe Rizzo, mentre percettore delle stesse, detto anche “prosegreto”, era don Pietro Palumbo, succeduto nell’incarico a don Raimondo Gangitano. Immediata fu la protesta popolare contro la nuova esosa tassa, che affamava ancor di più i poveri contadini; i quali, come già detto prima, commisero l’errore di riporre fiducia nell’intervento «benevolo» dei “signorotti” del paese, e si recarono a tal fine, il 12 novembre, dal giudice Gangitano, ma furono, di sorpresa, aggrediti sulla strada, alle “Botteghelle”, da mafiosi armati (“otto campieri”), che si erano mossi pure in combutta col “prosegreto” Palumbo. Ne seguì una strage con un morto sul colpo e moltissimi feriti, con conseguenze poi rivelatesi letali.
Da qui la legittima reazione di difesa-attacco da parte della popolazione povera, una guerra civile in vitro, che trovò subito dei capi che la organizzarono, due artigiani: Luigi Napoli e Domenico Di Puma. Furono inseguiti quei fra i maggiorenti che erano fuggiti verso Giacchetto, come Palumbo, Rizzo ed altri; vennero di ragione bastonati quelli che caddero nelle loro mani; per giusta punizione venne appiccato il fuoco alla casa di Palumbo, il percettore che aveva ordito il tradimento. Indi l’attacco venne esteso alla casa di don Filippo Caramazza a Borgalino, uno degli agrari più ricchi del paese, la cui casa fu devastata ed incendiata, non senza aver prima portato via quanto occorreva alla sopravvivenza: orzo, fave e denaro. Tutti i benestanti del paese furono indotti con le buone a versare discrete somme di denaro, come un “soccorso rosso” ante litteram, a favore dei contadini e della popolazione povera: don Antonio Gangitano, donna Caterina Adamo, don Nicolò Lombardo, don Antonio Cassaro ed altri. Detti versamenti vanno a mio giudizio letti anche come un parziale, irrisorio, simbolico risarcimento di secoli di stupri, sfruttamenti ed angherie subiti nell’umiliazione e nel silenzio della vergogna e del bisogno. Seguirono, poi, come accade quasi sempre in questi moti nati da una legittima e giusta reazione, incendi e devastazione di alcune altre abitazioni signorili e-o di “cappelli”.
- Il generale Roth, lo stesso che nel 1822, a Potenza, farà processare e fucilare i patrioti lucani, di ben altro stampo, livello e cultura della parassitaria aristocrazia agraria canicattinese, quel generale austriaco che dopo i fatti di cui abbiamo parlato pose d’assedio Canicattì per circa tre mesi, facendo ricercare ed arrestare, in numero di tredici, per consegnarli alle patrie galere borboniche, i contadini e gli artigiani che avevano partecipato alle azioni di legittima protesta di cui si è detto, stranamente “dimentica” di tener conto che il 12 novembre c’era pure stata una strage con morti e tanti feriti, diretta ed organizzata proditoriamente, col concorso attivo della mafia, da parte dei “signorotti” del paese, ed in particolare dai Gangitano, Palumbo, Morello, Sena, nomi che risaltano a chiare lettere nel famoso succitato «manoscritto anonimo». E non vado di certo errato nel dire che fu aiutato a dimenticarlo per essere stato, durante l’assedio, riverito ospite dei Gangitano sotto la direzione amorevole di donna Maria Anna Bordonaro, come si legge nel succitato manoscritto. E lo fu pure a spese del Comune, Sindaco essendo don Giuseppe Gangitano, ovviamente, allora, di nomina governativa.
A quei tempi la giustizia era talmente di classe che lor signori non venivano neppure processati.
_________________________________________________________________

Bronte 1860
Questa storia mi ha fatto pensare, per certe analogie, ai fatti di Bronte del 1860, alla sceneggiatura curata da Sciascia nel film omonimo e, quindi, alla novella del Verga, “Libertà” ; ed ho pertanto deciso di inviarne, come dono, una copia in allegato, preceduta da una interessante nota di Sciascia del 1981. In relazione alla quale mi permetto di osservare che non vi si avanza l’ipotesi, a mio avviso da ritenere invece quasi certa, che Michele Tenerelli Contessa concordò la sua intelligente e giusta arringa con Nicolò Lombardo.
Svolgo infine delle riflessioni comunicatemi da un mio caro amico, finissimo critico letterario e profondo conoscitore ed estimatore del Verga, Salvatore Sarrubbi. Giusta, egli dice, la mistificazione di cui parla nella sua nota Sciascia; ma c’è, mi ha spiegato, una chiave di lettura linguistica che consente di cogliere una profonda differenza fra la prima e la seconda parte della novella. Nella prima, in cui Verga parla dell’esplosione di violenza incontrollata del popolo contro i suoi vessatori, c’è, quasi per un’inconscia paura di classe, un rigido, costruito distacco nella descrizione degli avvenimenti, pure con una certa partecipazione per le vittime borghesi, dato, questo che si coglie nella rappresentazione di particolari raccapriccianti, quale quello del giovane figlio della baronessa che «calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati”. Nella seconda parte, quella in cui viene operata la repressione, Verga, profondamente partecipandovi, come in tutti i suoi scritti, (sempre, però, come nota il Russo, con l’apparente distacco del “verista”), è dalla parte degli oppressi, dei vinti, dei condannati e reclusi.
E’ dalla parte degli oppressi – nota ancora Sarrubbi – finché rimangono tali e accettano fatalisticamente la loro condizione. Verga rappresenta la punta più avanzata della difesa ideologica del vecchio ordine di cose e ritiene, come appare chiaro ed esplicito nella novella citata, che i rapporti di classe, così come sono stati fissati nella storia degli uomini, siano immutabili. Da una parte gli oppressi, dall’altra gli oppressori. Così è stabilito, per sempre, dal cieco destino. La rivolta degli oppressi, come è drammaticamente rappresentato nel racconto verghiano, serve solo a sconvolgere momentaneamente, ma non a mutare, l’ordine sociale costituito. Infatti, una volta eliminati tutti i cappelli, i contadini di Bronte non sanno più cosa fare. “Cominciarono a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno.” Il giorno dopo, una mattina di domenica, “quando furono in molti si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! “ Sentono la mancanza del prete che avevano massacrato la sera prima! Ma, quel che è peggio, avvertono il vuoto lasciato dalla classe degli oppressori che avevano eliminato: “non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana”. Ben presto i rivoltosi si rendono conto di aver compiuto un inutile massacro, perché al loro interno comincia a riprodursi la stessa gerarchia sociale esistente fino al giorno prima. Quando però ha inizio la repressione, dura, feroce, indiscriminata, si avverte, nel racconto verghiano, un mutamento stilistico radicale e repentino. Rientrati nel loro ruolo di oppressi, debitamente puniti per aver violato l’ordine costituito, i contadini sono ora oggetto della pietà del Verga. Chiusi in prigione e in attesa del giudizio, quei “poveretti divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole.” E così, ineluttabilmente, ogni cosa torna come prima.: ”Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini.” Va da sé – aggiungiamo – che le relazioni fra gli uomini sono determinate dai rapporti di classe e di produzione in cui sono iscritte, e non possono certo essere rovesciate da una jacquerie.
A conclusione della novella, quella libertà che compare nel titolo, acquista il suo vero significato amaro e illusorio, perché si tratta di qualcosa che per il proletariato agricolo di allora non esiste e, nell’ideologia della borghesia agraria dell’ottocento, non sarebbe mai esistita.
Viene ancora da pensare alla grande discepola, amica ed ammiratrice del Verga, Maria Messina, ed alle note scritte su entrambi dal più grande critico del ‘900, Giuseppe Borghese, come sempre amava ripetere Sciascia le volte che lo citava.
- Un pensiero mi è infine ritornato più volte in mente, riscrivendo l’episodio di storia di Canicattì del 1820: i lavoratori, i proletari che si rivoltano sono chiamati «briganti» ieri, sovversivi oggi; lo stesso destino toccò ai partecipanti alle grandi guerre servili siciliane (149 / 132 e 104 / 99) ed alle lotte di liberazione degli schiavi dirette da Spartaco (73 -71). Basti pensare che uno storico come Mommsen ebbe a scrivere che i seimila schiavi scampati alla morte in battaglia di circa 110 mila loro compagni, fatti prigionieri e crocifissi lungo la via da Capua a Roma, costituirono «la prova del nuovo ordine e della nuova vittoria del diritto riconosciuto sulla proprietà vivente che si era ribellata». Non così le classi dominanti che, calpestando e violando spesso le leggi interne ed internazionali, esercitano impunemente azioni di vera e propria sovversione, e le rappresentano ideologicamente come giuste. (Vedi Prodi, D’Alema, Napolitano su base di Vicenza ed art. 11 Costituzione; vedi Unione Europea che, disattendendo ben due Risoluzioni ONU non ha inviato una missione per gestire la nascita dello Stato di Palestina, e, invece, calpestando il diritto internazionale, gli accordi di pace di Kumanovo e la conseguente risoluzione 1244 dell’ONU, che riconoscevano essere il Kosovo parte integrante dello stato Serbo, vi invia una sua spedizione – chiamata missione civile – per dare un’apparenza di legalità alla sua illegittima indipendenza etnica).
Una risposta a tutto ciò può logicamente essere data solo nell’ambito di una lettura di classe dei rapporti fra gli uomini e fra gli Stati e delle lotte che occorre in tale ottica saper organizzare e condurre. La storia, per fortuna, ha dimostrato che le rivoluzioni esistono e hanno cambiato il corso della storia, come è accaduto con l’89 e La Comune in Francia e con l’Ottobre del 1917 in Russia, e come accadrà ancora per il futuro, pena il precipitare nella barbarie.

luigi ficarra

Nessun commento:

Posta un commento