LUIGI FICARRA, "Note in merito al libro di Ferrero e Morandi su Marx"

Paolo Ferrero, Bruno Morandi
Marx oltre i luoghi comuni
editore Derive Approdi

Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”, dice Seneca in un passo delle ‘Lettere a Lucilio’ citato da Ferrero (p. 228). Passo che si può anche leggere così: ‘Non esiste vento favorevole per il marinaio che segua una rotta sbagliata’, la quale in tal caso tale rimane. Citazione su cui tornerò più avanti.



♦ Da leggere con cura la parte scritta da Morandi, di cui, per chi non ha approfondito la conoscenza della teoria dello Stato in Marx,(come ha fatto chi scrive, sia per motivi personali di studio, che, soprattutto, per impegno politico)consiglio una lettura approfondita, perché fa comprendere l’errore d’impostazione che sul tema commise Engels. Il quale nella sua opera “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, parla delle caratteristiche dello Stato in generale, affermando in modo astorico una teoria valida per tutti i tempi, e quindi non coglie la natura specifica dello Stato borghese che nasce dalla scissione fra società civile e società politica, determinata dal modo di produzione capitalistico. Scissione, separazione che, ripeto, è - come spiega Marx - la fondamentale caratteristica della società capitalistica e della sua specifica ‘funzionale’ democrazia. Infatti, lo Stato di diritto kantiano, che come diceva Della Volpe, in polemica col revisionismo dei Bernstein e Mondolfo, trova il suo fondamento nel ‘Contratto sociale’ di Rousseau, è reso necessario dai rapporti di produzione capitalistici, alla cui gestione esso è funzionale (v. Marx in ‘Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico’, in ‘La questione ebraica’, anche ne ‘Le lotte di classe in Franciadal 1848 al 1850, e nella ‘Critica del programma di Gotha’, ed. di Mosca, 1947, p. 37, in cui scrive che ‘la presente radice dello Stato è la società borghese’).
Lenin, per aver seguito la teoria engelsiana sullo Stato – (in ‘Stato e Rivoluzione’ cita per ben sei volte l’opera di Engels L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, e due volte l’altro suo libro ‘Antidhring’; mentre nessuna opera specifica di Marx cita sul tema dello Stato, forse perché allora non conosciute), tenta di risolvere il problema della gestione del processo di socializzazione per mezzo di una ‘presunta’ vivificazione, nella società socialista, della democrazia statuale-politica, della teorizzata ‘democrazia reale’ o semi-Stato (v. in Stato e rivoluzione, p. 50, ed. Samona e Savelli 1963)Mentre, invece, la soluzione del problema della gestione di massa del processo di socializzazione implicava, al contrario, come dirà Gramsci e poi Panzieri, di dover far vivere, vivificandoli e non burocratizzandoli in organi periferici del semi-Stato, e stimolandone comunque la creazione, gli istituti di gestione sociale omogenei ai nuovi rapporti sociali di produzione e tali, quindi, da vanificare la separazione tra società politica e società civile - (intesa questa nell’accezione usata da Marx nella ‘Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico’ e in ‘La questione ebraica’).
Occorre compiere un ripensamento critico della teoria affermata da Lenin, e fatta propria dalla III Internazionale, e quindi anche dal PCI, circa il rapporto di continuità tra democrazia politica(propria e funzionale allo stato borghese)e socialismo come ipotesi generale di trasformazione rivoluzionaria. Ed osserviamo comunque che il riferimento che faceva il vecchio PCI a Lenin circa il recupero della democrazia politica nella costruzione del socialismo, una volta negato da esso (VIII congresso ed anche da prima) il concetto di ‘rottura’ rivoluzionario dell’apparato statuale borghese, si è tradotto in  negazione della strategia leninista di conquista del potere. Negazione che anche dalla sinistra di classe italiana è stata compiuta. (Il PRC l’ha reso esplicita durante la segreteria di Bertinotti, confermando sino ad oggi tale posizione. L’ha fatto specie con le tesi contro la violenza in generale nel V congresso del 2002 ed in quelle sub n. 14 e n. 15 nello stesso congresso affermate sulla guerra e l’imperialismo, che sostanzialmente combaciano con quella di Kautsky dell’ultraimperialismo, di cui sia Lenin che Liebknecht dimostrarono la piena infondatezza).
Occorre quindi un ritorno a Marx ed una riconsiderazione teorica sulla natura dello Stato borghese, fondato sulla separazione tra società politica e società civile, e la cui democrazia è la forma specifica più idonea, con la mediazione che avviene in particolare in Parlamento, per la gestione dell’accumulazione capitalistica e quindi per il perseguimento dell’interesse generale capitalistico.
• Morandi, dopo aver detto (p. 149) che “la rivoluzione è la rottura delle forme che tengono unita la struttura del rapporto capitalistico di produzione …. per mezzo dell’azione cosciente dei produttori che assumono in proprio la regolazione e la direzione del processo produttivo”, 
afferma che “è un salto che senza dubbio Marx prevede violento”; e ne spiega bene la ragione.
• Sempre Morandi, nel ricordare che Marx nella “Critica al programma di Gotha” usa il termine di ‘dittatura  rivoluzionaria del proletariato’, come peraltro, aggiungo, aveva già fatto nel ‘Il Manifesto’, dice che essa, dopo la rivoluzione del ’17, si pose solo come dittatura del Partito  e poi come dittatura personale con Stalin(p. 152). Avrebbe fatto bene a ricordare le tesi a mio avviso giuste svolte sul punto dalla Luxemburg ne ‘La rivoluzione Russa’, libro che consiglio a tutti di leggere e meditare.
• Poi, a p. 155, precisa che, causa la distorta teoria dello Stato formulata da Engels, “si è da destra ritenuto che la democrazia rappresentativa possa realizzare l’emancipazione sociale dei lavoratori purché si eleggano abbastanza deputati della classe operaia”, ‘considerando in tal modo decisiva la salita al potere di un certo personale politico piuttosto che il mutamento alla radice della struttura della produzione e del potere”.- Quindi accenna a quella che è stata definita la svolta revisionista di Engels, cioè la sua affermazione sul valore centrale e preminente delle elezioni parlamentari. Svolta che Morandi, dando a mio parere un’errata interpretazione dello scritto di Engels, di cui parleremo più avanti, collega ad una critica che Egli (Engels) avrebbe mosso ad una insistente pregressa tesi, sua e di Marx, sulla ‘rivoluzione come fatto di minoranza’. Tesi che non si ritrova né nel Manifesto, né in altri scritti precedenti di Engels e di Marx, né in Lenin e nella Luxemburg. Avendo essi ben chiaro che la rivoluzione, introdotta sempre e necessariamente con l’insurrezione guidata da un’avanguardia ben preparata, come spiega Engels in ‘Rivoluzione e controrivoluzione in Germania’ e poi Lussu in ‘Teoria dell’insurrezione’, marcia e vince solo e soltanto avendo con sé la maggioranza del proletariato ed anche della piccola borghesia, come avvenne nella rivoluzione russa del ‘17.
Va detto che la scelta della via parlamentare al socialismo viene annunciata dal congresso di Erfurt del 1891 della socialdemocrazia tedesca, segretario Kautsky, ma, sul piano teorico, la svolta viene compiuta da Engels nell’introduzione alla prima ristampa, nel 1895, del libro di Marx “Lotte di classe in Francia”. Affermato che la concezione della rivoluzione legata all’insurrezione “era un’illusione” e che “il tempo delle rivoluzioni (introdotte dall’insurrezione)è irrevocabilmente passato”, Egli indica come valido solo il “lento lavoro di propaganda e l’attività parlamentare”. Bisogna seguire – dice – la via della ”intelligente utilizzazione” del suffragio universale. “Noi …. prosperiamo molto meglio con i mezzi legali che coi mezzi illegali e con la sommossa”. Bernstein fece propria e diede, nella sua opera principale del 1899 ‘I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia’ (l’ultima edizione è del 1920),  una sistemazione teorica a questa svolta radicale compiuta da Engels rispetto alla nota tesi di Marx sviluppata a commento della Comune di Parigi, in cui dice che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i propri fini” ed occorre invece “spezzarla”, come scritto a Kugelman il 12.4.1871.
Leninpur conoscendo, come risulta documentalmente dagli appunti preparatori di ‘Stato e Rivoluzione’, il succitato scritto di Engels del 1895, non lo nomina nella sua succitata opera e quindi non lo fa oggetto di critica.
Rosa Luxemburg, invece, attaccò a fondo la succitata svolta revisionista di Engels nel ‘Discorso sul programma’ del 1919, pronunciato in occasione del congresso di fondazione del Partito Comunista della Germania. Disse che ‘è tempo di fare i conti con questa concezione …. che è corresponsabile del fatto che noi abbiamo vissuto il 4 agosto 1914’ (voto della Socialdemocrazia a favore dei crediti di guerra);concezione, precisò, che “considera la lotta parlamentare come un contrapposto dell’azione rivoluzionaria diretta dal proletariato e addirittura come il solo strumento della lotta di classe ”. Ed è significativo che su questo scritto della Luxemburg  i riformisti hanno sempre elevato uno spessa coltre di silenzio.
Gramsci, nel pieno della sua maturità politica (aveva 37 anni), scrive nell’agosto 1926, poco prima di essere arrestato, il ‘saggio sulla questione meridionale’, in cui sviluppa la teoria della rottura rivoluzionaria dello Stato borghese. Occorre - scrive - ‘spezzare l’apparato oppressivo dello Stato capitalistico’ … “instaurando la dittatura del proletariato”. E nel periodo dei ‘Consigli’ e dell’Ordine Nuovo’, avendo molto chiara la teoria di Marx sullo Stato rappresentativo borghese e quindi della separazione fra società politica e società civile, che non può superarsi, risolversi senza spezzare i rapporti di produzione capitalistici che, come Marx, torno a dire, scrive anche nella ‘Critica del programma di Gotha’, sono il reale fondamento della suddetta separazione, dirà, come ricorda Liguori in un suo scritto del settembre 2017, che occorre superare, ‘ricomporre la scissione tra società civile e società politica, propria dello Stato borghese, ponendo gli organi di potere creati nel processo rivoluzionario come strutture  - cellule di base - dello Stato proletario e socialista
La svolta revisionista di Engels del 1895, supponendo che egli già da prima la conoscesse, ebbe a condizionarlo in piena dittatura fascista, dopo il fallimento dell’azione rivoluzionaria in Italia ed in Europa e durante la dura e penosa restrizione carceraria. Nel 1930, infatti, scrive nel ‘quaderno 7’ la famosa nota intitolata ‘guerra di movimento e guerra di posizione’ su cui tanto hanno chiosato i togliattiani senza tener conto del contesto in cui venne concepita. E senza riflettere che Marx, Luxemburg e Lenin si posero seriamente ed a fondo il problema della conquista del consenso e quindi dell’egemonia ed i primi due nell’ambito di società borghesi progredite come l’Italia del 1930 ed anche più. - Guido Liguori scrive correttamente nel Dizionario Gramsciano (p. 280) che la succitata svolta riformista di Engels ‘è lo sfondo, in parte la fonte di ispirazione, alla riflessione gramsciana - avvenuta nel suddetto triste e negativo periodo -sul cambio di strategia … per ridefinire il concetto di rivoluzione all’altezza della ‘nuova’ realtà sociale e politica..”Ebbene, quest’ultima asserzione di Liguori,di una «nuova realtàsociale e politica», posta alla base del cambio di strategia in Gramsci, se consideriamo, come prima precisato,che le tesi di Marx e Luxemburg sulla necessità della rottura rivoluzionaria furono svolte con riferimento a società borghesi più avanzate di quella italiana del 1930, appare erroneae, per giunta, si pone solo come ‘petizione di principio’, cioè senza alcuna dimostrazione, da farsi, come sopra detto, con gli opportuni e necessari raffronti.
Questa svolta di Gramsci del 1930 è stata comunque utilizzata per la costruzione della riformista strategia togliattiana della via parlamentare al socialismo che venne sancita nelle tesi dell’VIII congresso del PCI. Tesi fondate nel presupposto che sulla base di una certa assunzione da parte dello Stato di funzioni dirette ed indirette nella gestione dell’economia -(come avvenne, ad esempio, con la costituzione dell’IMI nel 1931 e dell’IRI nel 1933, per iniziativa di Beneduce, per dare un impulso dopo la crisi del ’29 alla ripresa dell’accumulazione nell’interesse generale capitalistico) -, sia giusto sostenere la strategia della‘evoluzione al socialismo nella democrazia senza soluzione di continuità’. Scelta illusoria, come chiaramente spiegò la Luxemburg ed il Gramsci del periodo dei ‘Consigli’ e del 1926.
♦ Importante, per ciò che dice, la parte del libro curata da Ferrero, parte che ha rilevanza direttamente politica, essendo stato egli a lungo segretario del Prc ed essendo oggi vice presidente della SE.
Escludo che si sia scelto di parlare di Marx solo per il bicentenario della sua nascita, al pari di quanto fece il Pci nel 1970 per il centenario della nascita di Lenin. [Nella cui occasione, come noto, affidò il compito di svolgere la relazione commemorativa, nella seduta pubblica del CC del 22 aprile’70 all’Eliseo, a Napolitano, uno degli uomini di punta della destra ‘liberal’ del Partito comunista di allora. Quel Napolitano che nella famosa intervista del 24 dicembre 2011 al Corriere della Sera, curata da Marzio Breda, alla domanda di questi «su quali studi aveva formato le proprie idee», rispose che «era ripartito (non da Marx, Lenin o Gramsci, bensì) dai libri di Giustino Fortunatosul meridionalismo, dalle diverse storie di Benedetto Croce, dagli scritti di Silvio Spaventae dalla "Vita di Cavour" di Rosario Romeo». Dei primi due, Fortunato e Croce, ricordo che Gramsci, nel saggio su ‘Il Mezzogiorno e la rivoluzione socialista’, scrive che «furono gli esponenti principali del blocco intellettuale degli agrari nel Mezzogiorno, e possono essere giudicati come i reazionari più operosi della penisola». Spaventa era notoriamente un idealista liberale e Rosario Romeo è stato lo storico ufficiale della destra italiana].
Lo si è fatto a mio avviso, non per svolgere un rito, ma al fine politico, come fece il Pci con Lenin, di rappresentare la linea politica del Prc come continuazione delle idee di Marx.
• Ferrero svolge una critica (p. 181- 191), che condivido, della torsione ‘ideologica’ compiuta da Engels del pensiero di Marx.  – Riporto al riguardo, concernendo proprio l’oggetto della suddetta critica di Ferrero,  quanto scritto nelle mie note su ‘Stalinismo, leninismo e altro’, inviate ai compagni in occasione della discussione apertasi nell’ultimo congresso. (Note che ho steso, utilizzando per intero appunti e documenti risalenti agli anni ’60, e connessi alla frequenza del Centro ‘K. Marx’ di Roma, documenti provenienti dal compagno Carlo Cicerchia, che dirigeva il citato Centro)
Scrivevo nelle note sopra richiamate  che la II Internazionale si era mossa entro una concezione che postulava la necessità del capitalismo come fase ‘storico-tecnica’ della storia universale, sostenendo che il suo corso storico si sarebbe concluso con la riduzione del tessuto produttivo a totalità capitalisticav + pv. Concezione, dicevo, che va fatta risalire alla revisione condotta da Engels nel tentativo di dare risposta ad alcuni problemi teorici lasciati aperti da Marx. Revisione che comportò una parziale messa da parte della critica operata da Marx delle scienze borghesi ed in particolare della filosofia hegeliana, con un certo qual conseguente abbandono delle categorie logico-storiche marxiane, e che si realizzò con la riduzione della ‘concezione materialistica della storia’ di Marx, da teoria delle leggi specifichedi movimento della società capitalistica a teoria generaledell’evoluzione per fasi della storia dell’umanità.Cosa che avvenne con la pretesa scoperta, da parte di Engels, di leggi immanenti di sviluppo della natura, della società, della storia. La succitata tesi che il corso storico del capitalismo si sarebbe concluso con la riduzione del tessuto produttivo a totalità capitalistica:ev + pv, nasceva dalla non comprensione della funzionalità capitalistica delle unità e degli strati produttivi che non creano plusvalore, pur partecipando alla redistribuzione sociale di esso. Causa detta non comprensione si parlò - (posizione che si ritrova anche in Lenin e poi nelle tesi del vecchio PCI) - di compresenza di modi di produzione eterogenei, specifici di fasi storiche diverse; di residui precapitalistici destinati ad essere erosi e superati dalla ‘necessaria’ vittoriosa generalizzazione del modo di produzione capitalistico. E si disse che la socializzazione oggettiva della produzione rimaneva compito storico del capitalismo, mentre al proletariato sarebbe rimasto il compito – a socializzazione della produzione avvenuta – di risolvere la ormai dispiegata contraddizione tra grado di socializzazione raggiunto e persistenti forme di appropriazione privata e organi statali a difesa di siffatte forme di appropriazione.
Al di là delle critiche che  possono muoversi a Lenin va detto – cosa che non fa Ferrero - che Egli con la teoria della rottura rivoluzionaria per la conquista del potere e del controllo e gestione del processo di socializzazione, pone una discriminante generale con la Seconda Internazionale:lo fa col rifiuto di relegare la lotta politica del proletariato a contrattazione delle ‘condizioni democratiche’ entro cui perpetuare la ‘gestione democratica’ della forza-lavoro - (come farà il PCI in forma aperta a partire dall’VIII congresso, dicendo che l’azione del partito doveva svolgersi nel quadro democratico -parlamentare, dentro gli ambiti previsti dalla Costituzione repubblicana),  e con l’affermazione, al contrario, del diritto della classe operaia a gestire gli strumenti di produzione, in quanto soggetto e non oggetto alienato, gestito dalla borghesia e dal parlamento. Compito strategico, questo, che, nei limiti e con le contraddizioni conosciute, si specifica nella tematica del dualismo di potere e della dittatura del proletariato, che si materializza nelle varie fasi della rivoluzione bolscevica, e che comporta l’eliminazione della proprietà capitalistica. - Il rifiuto complessivo della lezione storica del leninismo ha comportato e comporta il ritorno, come dirò più avanti, alla tematica della II Internazionale, e specie al pensiero di Kausky e di Bernstein.            
• Ferrero, svolta la critica della ‘torsione’ compiuta da Engels del pensiero di Marx, dice giustamente che Kautsky facendo leva sulle idee del primo fonda la sua teoria delle ‘magnifiche sorti e progressive’ dal capitalismo al socialismo(p. 189), affidando allo “sviluppo delle forze produttive la modifica (ed il superamento)dei rapporti di produzione capitalistici”.
• Più avanti dopo aver accennato ad una presunta contraddizione in Marx circa la teoria del soggetto della trasformazione (p. 195-196), contraddizione a mio avviso inesistente, afferma di non essere d’accordo con la teoria di Lenin del Partito che porta dall’esterno al proletariato la coscienza storica. Non si accorge Ferrero di aver apportato argomenti a favore della suddetta tesi di Lenin dicendo a p. 198, dopo aver citato il famoso passo tratto da ‘L’ideologia tedesca ’ che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti», che “.. solo una grande battaglia culturale può squarciare il velo dell’ideologia dominante”. Compito che, appunto come diceva Lenin, deve essere svolto da un partito rivoluzionario, da un Partito comunista, il quale ne rende in tal modo cosciente il proletariato, anche ‘col dispiegato conflitto sociale’. Altro argomento a favore della tesi di Lenin apporta incosapevolemte Ferrero a p. 199, ove dopo aver ben spiegato come ‘il capitalismo modifica radicalmente e continuamente le forme fenomeniche in cui si presenta’, muovendosi ‘su un terreno di guerra di movimento e operando continuamente per dissolvere le soggettività antagoniste’; e dopo aver chiarito  (p. 200 ) che ‘la costruzione della soggettività proletaria non è in alcun modo garantita dallo sviluppo del capitale (come ritenevano gli idealisti Tronti, Asor Rosa, Cacciari e Negri), perché esso (il capitale) ne produce i presupposti ma contemporaneamente opera per distruggerli’, non trae la logica necessaria conseguenza che solo un partito rivoluzionario, un Partito comunista, attraverso una continua battaglia a livello culturale e politico può e deve rendere cosciente di tutto ciò il proletariato, elevando sempre di più il livello dello scontro anticapitalistico.
• Ferrero erra a mio avviso a giudicare affetta da idealismo la sopra citata teoria di Lenin del Partito che porta dall’esterno al proletariato la coscienza storica ed a dire che Egli ‘non si limita a rovesciare l’impianto di Kautsky, ma produce (sul punto) una vera innovazione nei confronti di Marx’ (p. 201). Il quale ultimo, invero, - è lo stesso Ferrero a ricordarlo a p. 195 – scrive assieme ad Engels nel ‘Manifesto’, che “i comunisti,organizzati in Partito, …. esprimono sempre l’interesse complessivo del movimento nelle diverse fasi in cui si sviluppa la lotta fra proletariato e borghesia. Sono pertanto nella pratica la parte più avanzata dei partiti operai di ogni paese, e dal punto di vista teorico essi sono anticipatamenteconsapevoli delle condizioni, del corso e dei risultati complessivi del movimento proletario”. Consapevolezza che, ovviamente, il Partito comunista deve portare dall’esterno alle masse proletarie, non certo tenersela per sé. Come appunto diceva Lenin.
- Va qui ricordato a tutti noi ed a Ferrero in particolare che nel ‘Manifesto’ si dice che “se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e , come tale, distrugge violentementei vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, e quindi il suo proprio dominio di classe”. La dittatura del proletariato di cui si parla nel Manifesto è funzionale a rendere possibile la soppressione di ogni potere politico separato e quindi di ogni forma di Stato; soppressione che consegue alla distruzione dei rapporti di produzione capitalistici che stanno alla base della scissione fra società civile società politica. Ma per poter realizzare questo programma la classe operaia non può limitarsi – (come Marx dice chiaramente anche dopo l’esperienza rivoluzionaria de ‘La Comune’) – ad impossessarsi dell’apparato statale esistente ed adottarlo ai propri fini, ma deve spezzarlo violentemente e distruggerlo come struttura separata e sovrapposta alla società civile, e creare un tipo di potere del tutto nuovo, espressione diretta della comunità dei produttori associati.
E’ su questo punto, su cui Ferrero omette di parlare, che verteva e verte la differenza fra la tesi di Marx e quella dei riformisti antichi e moderni. Secondo i quali lo Stato non va abbattuto nelle sue istituzioni e nei suoi apparati, ma bisogna operare al suo interno, partecipando al gioco elettorale, per operare nel Parlamento le riforme possibili. Linea che venne espressa con chiarezza da Bernstein, il quale infatti così scriveva nella sua succitata opera nel 1899“Tutta l’attività della socialdemocrazia è rivolta alla creazione di situazioni e presupposti che rendano possibile e garantiscano un trapasso senza rotture violente dal moderno ordine sociale ad un ordine superiore”. Egli quindi concepisce uno Stato neutrale rispetto ai conflitti di classe. L’uguaglianza politica non viene più criticata, come in Marx, per il suo aspetto formale di copertura delle reali diseguaglianze, ma viene assunta come effettiva garanzia di ogni libertà per tutti, anche per l’illusoria eliminazione per via parlamentare e pacifica delle citate diseguaglianze.
Ferrero ben conoscendone il pensiero, non ha ricordato la posizione espressa sul punto dalla Luxemburg, la quale condusse una dura polemica contro Bernstein. Spiegando in particolare che la riforma legale, giuridica, non può trasformare, intaccare, i meccanismi del sistema capitalistico, perché la società borghese si contraddistingue dalle precedenti società classiste per il semplice fatto che il dominio di classe non si fonda in essa su “diritti acquisiti o ineguali”, come avveniva in passato, bensì su rapporti economici di fatto, mediati dal ‘diritto uguale’. -- “Non è la forma di costrizione di nessuna legge- scrive -ad aggiogare il proletariato al capitale, ma lo stato di necessità, la mancanza di mezzi di produzione”. ….. “Nessuna legge al mondo può nel quadro della società borghese decretargli (al proletariato) l’assegnazione di questi mezzi, posto che ne fu spogliato non da leggi, ma da un processo economico”. …. «Lo sfruttamento all’interno del rapporto salariale è parimente indipendente dal sistema giuridico, perché il livello dei salari non è determinato in sede legislativa, ma da fattori economici. Ed il fatto stesso dello sfruttamento non poggia su un provvedimento legislativo……. – In una parola, tutti i rapporti fondamentalidel dominio di classe capitalistico non possono essere modificati da riforme di legge su base borghese, perché non sono frutto di leggi borghesi né ne hanno ritenuto la forma”. ….. “Come dunque superare gradualmente ‘per via legale’ la schiavitù del salario, se questa non è neppure espressa dalla legislazione?». E così conclude sul puntochi si schiera “in favore della via delle riforme legaliinvece ed in contrapposizionealla conquista del potere politico e al sovvertimento della societàsceglie in effetti non una strada più tranquilla, sicura, lenta verso un identicoobiettivoma piuttosto un’altrametainvece dell’avvento di un nuovo ordine sociale solo inessenziali modifiche del vecchio”. ... il revisionismo(di Bernstein e compagni) …. mira non già alla realizzazione dell’ordinamento socialista, ma solo alla riforma di quello capitalista, non al superamento del sistema salariale, ma ad una dose maggiore o minore di sfruttamento”. (Luxemburg, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Milano, 1963, p. 209-211)Ricordo qui la illusoria e riformista teoria sull’equo profitto affermata dal PCI nel 1964:noi- dichiarò Longo in una nota intervista fattagli da Scalfari - non proponiamo la liquidazione del profitto, ma la liquidazione delle posizioni di rendita e di sovraprofitto. Ogni imprenditore che si muoverà nell’ambito delle grandi scelte del piano dovrà avere la garanzia di unequo profitto” (!!).
- E circa la pacifica via parlamentare al socialismo va ricordato che è solo illusorio scalzare il potere del capitale industriale e finanziario solo col voto, con cui si può al massimo disturbarne l’operatività, e sapendo che, se vengono toccati i suoi gangli vitali, ci sarà la sua certadura e pesante reazione anche violenta. Che si può vincere solo se una sinistra rivoluzionaria ha preordinato un’adeguata ed efficace controreazione più dura e più pesante. La sinistra riformista in Cile, nel 1973, fu infatti sconfitta per sua colpa, perché omise di predisporre una adeguata controreazione armata alla inevitabilereazione condotta dalla classe dominante con l’esercito ed il sostegno della destra internazionale (Usa), avverso le riforme di struttura da essa realizzate. Non c’è mai stata invero nella storia una classe dominante che si sia fatta scalzare pacificamente dal potere, avendo essa sempre reagito in forma violenta. Come ha ben ricordato anche Panzieri nelle sette tesi sul Controllo operaio.
• Ferrero ovviamente non lo dice, ma la linea portata avanti dal Prc coincide con quella sostenuta da Bernstein. Infatti Ferrero, a p. 213 scrive esplicitamente che l’obbiettivo oggi perseguito da Prc è la creazione di un “soggettività politica unitaria che ponga il problema della rappresentanza nelle istituzioni (dello  Stato borghese),che lavori come obiettivo di fase per la difesa e l’applicazione della Costituzione, e ponga (come successivo obiettivo di fase)il tema dell’alternativa  sul piano – non esaustivo(ma Ferrero non ne dà alcuna specificazione sul punto) - della rappresentanza politica”, ovviamente, lavorando nelle istituzioni, nel Parlamento. 
Mentre Panzieri, che Ferrero ben conosce,  nelle tesi sul Controllo operaio (1958), esattamente nella tesi 2, chiaramente dice che è ‘una falsa deduzione’ dire che la via democratica coincida tout court con la via parlamentare al socialismo, né la si può ridurre ad un via necessariamente pacifica, dovendo – egli dice come già sopra accennato – essere pronti, cioè già preparati, a rispondere ad una molto probabile, per non dire certa , razione armata della borghesia, con la violenza proletaria. 
- In conclusione, Ferrero, il quale ovviamente esclude dal suo discorso il tema della rottura rivoluzionaria violenta, che è invece centrale in Marx, Lenin e Luxemburg, propone di continuare a seguire la linea della democrazia progressiva, del passaggio al socialismo attraverso l’attuazione della Costituzione, cioè la togliattiana via parlamentare al socialismo.
Non a caso, mentre critica la teoria del Partito di Lenin, nessuna critica di fondo muove nei confronti di Togliatti, di cui ha sempre parlato in forma elogiativa, come nella sua nota del 21 agosto 2014. E va ricordato che nel convegno organizzato dal  Prc su Gramsci nel gennaio 2018 si è parlato molto positivamente, da parte del relatore Mordenti, di Togliatti ed in particolare della sua linea politica.
Per cui, richiamando il passo di Seneca citato da Ferrero con la parziale modifica da me inizialmente proposta, possiamo dire che, stante l’impostazione teorica che segue il Prc, alcun vento favorevole, potrà farci andare avanti per una via avanzata e rivoluzionaria.

Luigi Ficarra 

Nessun commento:

Posta un commento