SALVATORE VAIANA, Pensiero e azione di un sindacalista soreliano

INDICE
Incipit
1. Le radici nel mondo contadino
2. Fondatore e dirigente del Gruppo sindacalista rivoluzionario
3. Alla conquista del mondo contadino
4. “Il Germe”, un giornale per la Resistenza
5. Il pensiero sindacal-rivoluzionario
6. Una cooperativa per vuotare lo Stato
7. Collaboratore dei giornali d’avanguardia
8. L’anticlericalismo dichiarato e la massoneria invisibile
9. Dall’antimilitarismo al Fascio interventista
10. Dal Fascio di combattimento all’antifascismo



«Lo dissero anarchico o comunista o qualcosa di simile;
lo accusarono di essere disgregatore di coscienze,
sabotatore di ogni disciplina, avvelenatore delle masse,
lui, Vito Mercadante, la cui vita fu tutta alto documento di probità e di bontà»
(in "Sicilia liberata")

Non fu anarchico, né tantomeno comunista Vito Mercadante, ma attivo sindacalista rivoluzionario di fede genuina nella Palermo dei Florio.
Non «creò» a Prizzi il movimento contadino, né poté lottare contro i «Don Virticchiu» spalleggiati dai campieri, ma rappresentò in versi d’amore e di dolore un microcosmo di contadini laboriosi che aspiravano alla terra e alla libertà.
Fondamentale fu invece il suo contributo alla penetrazione delle idee del Sindacalismo nel mondo contadino inviando gli intellettuali sindacalisti in roccaforti del socialismo rurale come Prizzi e Corleone.


 
1. Le radici nel mondo contadino

Da Villafrati «ho visto partire in gran fretta il battaglione Bassini», scrisse Cesare Abba in Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille. Per quale motivo, il 26 giugno 1860, il Consiglio di guerra garibaldino decise di inviare con urgenza un battaglione al comando del maggiore Bassini? Questa l’agghiacciante risposta: «A Prizzi, che deve essere un villaggio poco lontano, vi è gente che si è messa a far sangue e roba, come se non vi fosse più nessuno a comandare. [...] Chi laggiù ha le mani lorde badi ai fatti suoi». Circa due mesi dopo, a Bronte vi furono «divisione di beni, incendi, vendette, orge da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi». In un duro proclama di Nino Bixio, Bronte fu accusata «di lesa umanità» e perciò fu dichiarato lo «istato d’assedio». I rei furono giudicati dal Consiglio di guerra: sei furono fucilati, gli altri mandati in galera. «In galera?» balbettava stupito il carbonaio della novella verghiana Libertà «O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...».
Erano rei quei contadini di avere profanato per la prima volta la sacra terra dei padroni. Ma, dice a ragione il poeta, che pure esalta Bixio come «fasciu di nervi tuttu azzaru, / terribili comu è furia di mari, / vrazzu di mari ginirusu e amaru»: «La terra ‘un è di nuddu, ma è di tutti, / di tutti chiddi chi cu lu suduri / ni fannu maturari li gran frutti». E per questa evidente verità di «lu zzù Vitu», lo slogan dei contadini in lotta sarebbe stato “La terra a chi la lavora”, un obiettivo raggiunto con sangue e lacrime dopo innumerevoli battaglie.
«Dopo Bronte», racconta Abba, la stessa sorte toccò a Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi ed altri sfortunati villaggi che «sentirono la stretta della mano possente» di Bixio, al quale «gridarono dietro: Belva!». Per fortuna a Prizzi gli eventi avevano avuto un corso diverso. Al seguito del battaglione Bassini arrivò il leggendario fra’ Pantaleo a cavallo di «una vecchia giumenta, sicuro in sella, come uno che, sotto la tonaca, vestisse da soldato». Come Abba, anche Mercadante ne avrebbe esaltato il fascino e le doti oratorie nel suo poemetto Lu Sissanta. Il frate predicò «a lu populu fistanti» che avvertiva nella sua trascinante oratoria una vaga speranza di cambiamento sociale. I Garibaldini, ricevuti «come principi», festeggiati con «luminare, cene, balli» e congedati dalle grida festose delle «belle donne» prizzesi che esclamavano «Benedetti! Beddi!», non fecero l’errore che avrebbero commesso a Bronte e andarono via «mortificati» per l’abbaglio che li aveva spinti in così alta vetta. Da allora quella vaga speranza di artigiani e contadini del remoto «villaggio» si sarebbe trasformata gradualmente in solida coscienza di classe.
Il primo segno concreto del processo di emancipazione sociale fu la costituzione, nel 1874, di una Società di mutuo soccorso fra gli operai prizzesi, costituita «per promuovere il miglioramento progressivo in tutte le classi, mercé l’educazione, l’istruzione, il lavoro, il risparmio e tutto quanto ispira il dovere verso la famiglia e la patria».
La svolta storica si ebbe due decenni dopo, nel 1893, con le lotte del Fascio dei Lavoratori. A sostenerne la costituzione venne da Corleone colui che sarebbe diventato uno stimato compagno di Mercadante, Bernardino Verro. In essa si formò un’avanguardia contadina con un dirigente di straordinario spessore morale, coraggio e intelligenza, Nicola Alongi: «un’avanguardia del genere», sostiene lo storico prof. Giuseppe Carlo Marino, «sarebbe inimmaginabile nella realtà agricola di Prizzi [...] senza ritenere scontata [...] l’influenza esercitata sul contadino Alongi dal [...] ferroviere poeta Vito Mercadante».
Mercadante non poté assistere alla nascita e alle lotte del movimento contadino perché, dopo aver frequentato le scuole elementari a Prizzi, andò a vivere a Palermo, dove continuò gli studi. Restò però profondamente legato ai contadini e all’amico e compagno Alongi, con il quale intrattenne per un ventennio relazioni politiche e sindacali.
Prizzi contadina il nostro sindacalista-poeta la immortalò in Focu di Muncibeddu, il suo capolavoro poetico che canta in versi di luminosa speranza le fatiche immani del dignitoso contadino emarginato nei latifondi desolati e assolati: «Suda, fatica e sonna lu viddanu ... / ... si va a sarma, quant’havi arricampari; / fa lu cuntu, s’aiuta cu li manu; / tantu havi a dari e tantu po’ ristari // paga li detti, si rumpi li tagghi, / e resta francu di catini e magghi. // [...] // E lu viddanu, poviru minnuni, / cunta li mazzi chi tocca a li patruni, / pensa a lu cchiù chi tocca a lu patruni/ pensa a la sorti so ch’è nuda e cruda; // e tuttu sangu so, sudura e stenti, / e ad iddu ‘un ci nn’arresta quasi nenti». Ma la libertà da catene e magli il contadino non deve più conquistarla pagando i debiti ai padroni, bensì lottando contro questi, respingendo le lusinghe di politici corrotti e di mafiosi e votando con la Lega socialista: «Cumarca di latruna, jitivinni, / ca tutti li sapemu, li magagni; / va jitivinni a circari a cu’ si vinni; / iu votu cu la lega, su’ cumpagni ...». Nella Lega di Miglioramento i contadini, dei quali il presidente Nicola Alongi «canusci tuttu lu duluri, / l’amarizzi, li peni e li gran stenti, / tutta la verità, tuttu l’amuri», trovano l’unica speranza di riscatto dalla servitù.


2. Fondatore e dirigente del Gruppo sindacalista rivoluzionario

A Palermo Mercadante sostenne una vivace azione sindacale e politica rispettivamente nella Camera del Lavoro e nel Circolo socialista.
La Camera del Lavoro nacque nel 1901 per iniziativa di Rosario Garibaldi Bosco, storico leader dei Fasci siciliani. Ne fu per alcuni anni segretario Emanuele Raimondi, un riformista con un intermezzo «tra i sindacalisti rivoluzionari» (G. Miccichè).
Il «buon Nenè Raimondi» - leggiamo su Il Socialista di Nicola Barbato - divenne poi segretario della Borsa dei Lavoratori, associazione sindacale, riferisce Franco Grasso, «fondata» da Mercadante.
Dal 1896 in città era attivo un Circolo socialista riformista diretto da Alessandro Tasca e che aveva come organo ufficiale di stampa “La Battaglia”, fra i cui redattori troviamo Nicola Alongi.
Nel dicembre del 1903 Giuseppe Garibaldi Bosco costituì, in contrasto con la corrente riformista, la Federazione socialista palermitana di ispirazione rivoluzionaria.
Accanto alla corrente riformista di Filippo Turati e quella rivoluzionaria di Enrico Ferri, ne esisteva una terza, la sindacalista rivoluzionaria di Arturo Labriola, rappresentata a Palermo dal «Gruppo Sindacalista Rivoluzionario», il cui fondatore - racconta nei suoi Cortometraggi Vincenzo Purpura, prestigioso componente e memoria storica di quest’organizzazione – fu Mercadante.
E fu ancora lui, «singolare figura di poeta, di educatore e di patriarca», che, per il suo forte carisma, ne divenne «il capo indiscusso».
Vi facevano parte un gruppo di giovani «sprovveduti, squattrinati, inesperti e sognatori» ricorda Purpura; «un gruppu di fidati e veri amici» idealisti e lottatori pronti a «dari la caccia a morti a li birbanti / farla a cazzotti cu li priputenti»: è «gioia pri un’idea lu gran luttari». Questo scrive il poeta rivoluzionario in Lu miraculu. Erano quei giovani Vito Mercadante, Enrico Loncao, Vincenzo Purpura, Ferdinando Albeggiani, Gioacchino Drago, Pietro Drago, Bernardino Verro, Vincenzo Savoja, Manlio Lo Iacono, Archimede Caserta, Carmelo Li Vigni, Mario Fleres, l’avv. Roxas e altri «elementi sparsi» nel resto della Sicilia.
Vi aderivano anche – ciò va messo ben in rilievo, e se ne capirà nel prosieguo il perché - «alcuni» operai del cantiere navale di Palermo aderenti alla Fiom e «molti» contadini di Corleone e Piana degli Albanesi.
Nell’ambiente «sindacalista rivoluzionario», scrive lo storico Giuseppe Miccichè, si formò, assieme a Francesco Sanza e ad altri, un giovanissimo operaio tipografo, Giovanni Orcel, il quale «probabilmente appartenne o fu vicino al gruppo che, raccolto attorno a La Fiaccola e a Il Germe, aveva dato vita ad un piccolo Circolo giovanile, molto attivo nella propaganda antimilitarista, arroccato su posizioni rivoluzionarie».
Di rilievo l’impegno culturale e teorico di alcuni intellettuali sindacal-rivoluzionari, come si evince dalla ricca produzione giornalistica a livello nazionale, regionale e locale. Purpura diresse il settimanale La Fiaccola, pubblicata dal 1° maggio al 16 settembre del 1905, e collaborò a La Gioventù Socialista di Roma, il giornale della Federazione Giovanile Socialista diretto da Alceste De Ambris e da Paolo Orano. Sulla Propaganda di Napoli e sull’Avanguardia socialista di Milano, dirette da Arturo Labriola, pare che scrivesse Enrico Loncao. A Palermo furono pubblicati i periodici sindacalisti Il Germe, L’Avanguardia sindacale e L’Avanguardia proletaria. Sul piano nazionale il Gruppo faceva riferimento alla rivista Il Divenire Sociale, diretta da Enrico Leone e Paolo Mantica.
Mercadante esordisce in politica sostenendo un’opposizione inflessibile al «fronte popolare», una coalizione di socialisti riformisti e radicali nata a Palermo nel 1900 sotto gli auspici dei Florio. All’origine dell’opposizione «dei sindacalisti siciliani al “fronte popolare”» c’era - nota A. M. Cittadini Ciprì - «l’intransigente massimalismo anarco-sindacalista, che bloccava allora qualsiasi politica unitaria e di compromesso con la classe dirigente». Scriveva a tal proposito “La Battaglia”sul «rivoluzionario» e «intransigente» Enrico Loncao: «Questo loquacissimo burattino trovava [...] che noi del Circolo socialista palermitano non meritassimo la qualità di socialisti perché qualche volta avevamo commesso il sacrilegio di allearci con il partito radicale – ed il giovane scocciologo andava ricercando con il lanternino tutti gli episodi (e quando non li trovava li inventava) dai quali emergesse che avessimo errato nella tattica e ci fossimo allontanati dalla direttiva marxista. Sciagurato!»


3. Alla conquista del mondo contadino

In quanto dirigente della corrente sindacalista Mercadante fu un infaticabile organizzatore di diverse leghe operaie cittadine che facevano riferimento alla Camera del Lavoro (e poi alla Borsa dei Lavoratori) e un punto di riferimento cittadino del movimento contadino non solo di Prizzi ma anche di altri comuni dell’interno. Ciò non stupisce; infatti, rientrava negli obiettivi del Sindacalismo rivoluzionario il «blocco sociale» operai-contadini. Scrive a tal proposito Gramsci in Alcuni temi della quistione meridionale: «Il sindacalismo è l’espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco della borghesia e per il blocco coi contadini e in primo luogo coi contadini meridionali. Proprio così: anzi, in un certo senso, il sindacalismo è un debole tentativo dei contadini meridionali, rappresentati dai loro intellettuali più avanzati, di dirigere il proletariato». Nella dimensione siciliana fra questi intellettuali primeggiavano Mercadante, Purpura e Loncao.
Attraverso i suoi intellettuali-militanti il sindacalismo palermitano entrò diverse volte in contatto con il movimento contadino e i suoi dirigenti nel tentativo appunto di dar vita al blocco operai-contadini. In tal senso Loncao - autore di originali saggi sul socialismo, le classi rurali e la borghesia in Sicilia, pubblicati nel 1900 su alcuni numeri de “La Battaglia” - «riconosceva che il destino del socialismo in Sicilia fosse legato alla “conquista” dei contadini, [...] che la lotta contro il latifondo non riguardava soltanto i contadini, ma le forze urbane democratiche, dagli operai alla piccola e media borghesia», e «formulava un’ipotesi di riscatto del mondo rurale di cui avrebbero dovuto farsi carico borghesi “avanzati” di città» (A. Corselli).
Con queste convinzioni, il 24 aprile 1903 egli partecipò al congresso di Corleone tra le Leghe e le Cooperative agricole siciliane, nel corso del quale svolse una relazione sul credito agrario e condivise con i dirigenti contadini, fra cui Nicola Alongi, il bisogno di sviluppare una solida organizzazione del proletariato rurale.
Nel 1904 fu un tragico evento ad avvicinare per alcune settimane città e campagna: la strage di Castelluzzo del 13 settembre, causata dalle forze dell’ordine durante una manifestazione di lavoratori. In segno di protesta, per iniziativa della Camera del Lavoro di Milano e dei sindacalisti rivoluzionari fu proclamato il primo sciopero generale della storia d’Italia. I sindacalisti speravano che esso avviasse l’agognata rivoluzione sociale. A Palermo l’evento scosse la sinistra, riformista e sindacalista, che aderì allo sciopero. Su pressione di Arturo Labriola lo sciopero proseguì per alcuni giorni ma alla fine per i sindacalisti non ebbe l’esito sperato. Quella strage infiammò l’animo del nostro poeta rivoluzionario che scrisse a perenne memoria un poemetto, Castelluzzo appunto (con dedica a Mario Rapisardi e Nicola Barbato), da cui riportiamo un sonetto il cui titolo, “La lotta”, è uno dei concetti chiave del pensiero sindacalista:

All’insulto vigliacco e menzognero
risposero sereni i fieri detti;
svelaron puro il cuor, forte e sincero,
provocati così dai maledetti;
non armi ma la forza del pensiero
opposero; la forza di quei petti...
Si tinse in rosso il florido sentiero,
del sangue generoso degli eletti.

Ne la terribil lotta, alti, giganti
apparvero gl’inermi in mezzo al piano...
ma la forza brutal li vide affranti.
Vano in quell’ora fu l’essere padre;
l’ultimo fu ferito già lontano,
quando sperava riabbracciar la madre.

A Palermo il tragico evento acuì la polemica all’interno del Partito socialista, ne è testimonianza la seguente analisi delle tipologie di sciopero, pubblicata dai riformisti su La Battaglia, volta a evidenziare le inconciliabili posizioni di riformisti e sindacalisti rivoluzionari: «Tutti i socialisti del mondo, senza distinzione di scuola [...] convengono nell’idea che lo sciopero generale sia uno strumento prezioso di lotta, che occorra difendere le libertà politiche del proletariato. [...] Lo sciopero generale classico, inteso rivoluzionariamente, è un atto di ribellione aperta da consumare in un dato giorno, in un dato momento, a scadenza fissa, per scalzare dal potere la borghesia e per instaurare il regime dell’eguaglianza sociale. Tra lo sciopero generale così inteso e lo sciopero politico c’è insomma la stessa differenza che intende tra i due concetti “rivoluzione economica” e “rivoluzione politica”. In Francia una frazione del P[artito] Socialista – forte il prestigio della tradizione – è fautrice dello sciopero generale inteso come atto di liberazione dal secolare dominio di classe. In Italia soltanto il gruppo estremo capitanato dal Labriola condivide tale idea – mentre l’enorme maggioranza degli stessi rivoluzionari, Ferri compreso, s’oppone a tale concetto assolutamente antiscientifico».
Ancora nel 1904, a Palermo le contraddizioni in seno a Partito socialista emersero nel corso dello scontro politico-elettorale: i riformisti entrarono in collisione con i sindacalisti rivoluzionari attaccando aspramente Enrico Loncao, «il “rivoluzionario” Loncao, - si legge su La Battaglia del 13 novembre - quell’emerito rompiscatole che ha travasato da anni la sua bilietta innocua sulle varie Avanguardie e Propagande del regno, ha sostenuto in queste ultime elezioni con tutte le sue gracili forze intellettuali e oratorie la candidatura [...] di Garibaldi Bosco!» Di questo tenore erano dunque i rapporti fra le due correnti socialiste, rapporti conflittuali ai limiti della scissione (che, in effetti, si sarebbe consumata a livello nazionale nel 1908, durante il Congresso del Partito socialista).
Nel 1907, anno di svolta organizzativa per il Sindacalismo rivoluzionario, Mercadante inviò il giovane Purpura a Corleone, per sostenere le lotte dei contadini, il quale racconta quell’esperienza nei citati Cortometraggi.

«Frequentavo già da qualche anno la Camera del Lavoro, organizzando e dirigendo “leghe” e scioperi, quando, nel 1907, Vito Mercadante, il più autorevole e amato compagno del nostro “Gruppo Sindacalista Rivoluzionario”, mi propose di recarmi a Corleone ove quei contadini, educati alla scuola di Bernardino Verro, allora profugo in Tunisia, gli avevano richiesto un “compagno” che li guidasse nello sciopero da loro già proclamato ed attuato contro gabelloti e latifondisti.
D’impulso, opposi subito un netto rifiuto: non avevo alcuna esperienza di lotte contadine, né dell’ambiente agrario [...].
Alle mie obiezioni Vito Mercadante oppose il suo paterno e comprensivo sorriso, seguito da un chiaro quadro dei termini della lotta ingaggiata dagli scioperanti per ottenere migliori tariffe al bracciantato e l’affittanza alla loro fiorente cooperativa di un feudo sino allora esclusivo monopolio maffioso. Mi spiegò inoltre ciò che doveva essere tenuto fermo con assoluta intransigenza e ciò che poteva essere argomento di trattative, e si disse sicuro che, non potendo egli allontanarsi dal suo ufficio delle FF., nessuno, a suo meditato giudizio, poteva meglio di me sostituirlo e meglio rispondere alla fiduciosa attesa sua e dei compagni di Corleone.
Dopo lunga discussione dovetti finire col cedere e così i compagni del Gruppo, quasi al completo (non eravamo in molti), con Vito Mercadante alla testa, mi accompagnarono, nelle prime ore del mattino, alla stazione di S. Erasmo.»


 
4. “Il Germe”, un giornale per la Resistenza

Il 1907 fu un anno di svolta organizzativa, come si è accennato, perché il 3 novembre, nel corso di un convegno dei sindacalisti rivoluzionari sui loro rapporti con la CGdL (Confederazione Generale del Lavoro), nacque il “Comitato Nazionale della Resistenza”, con l’obiettivo politico di «indebolire ed eliminare la classe e lo Stato borghese». Vi aderirono i ferrovieri che avevano dato vita a un grandioso movimento di lotta e che erano in rotta con i dirigenti della CGdL. Del movimento dei ferrovieri Mercadante fu un dirigente di prestigio nazionale e del Comitato Siciliano della Resistenza un autorevole membro.
Fu nel clima di costruzione del «Comitato Nazionale della Resistenza» che a Palermo il Gruppo Sindacalista Rivoluzionario fondò Il Germe, «giornale quindicinale di propaganda socialista».
Il giornale era diretto da Purpura, coadiuvato da alcuni giovani tra i quali Felice Caserta e Girolamo Sirretta. Nel 1909 ne era direttore responsabile Romeo Di Giovanni.
Fra i collaboratori troviamo il contadino Alongi, ormai un riconosciuto rappresentante di quella Sicilia del latifondo nella quale i sindacalisti continuavano a portare avanti l’«opera di propaganda e d’organizzazione», come si deduce dal seguente passo di un articolo del giornale: «Il movimento proletario in quei centri della provincia di Girgenti e di Palermo che fanno parte della Federazione Socialista del Lavoro è degna di rilievo. Le società federate sono quelle di Prizzi, Palazzo, Chiusa, Burgio, Villafranca, Lucca, Calamonaci e Ribera».
Attraverso Mercadante e Il Germe, Alongi costituiva un ponte fra il Sindacalismo palermitano e il socialismo rurale prizzese. Fu Il Germe che pubblicò Il credo del Lavoratore, una originale composizione di Alongi di evidente sapore anticlericale, che sarebbe stata ripubblicata nel 1911 su L’Avanguardia sindacalista:

«Credo in dio lavoro onnipotente.
Creatore di tutte le ricchezze che sono sulla terra
e credo che chi non lavora vive di questo unico cibo suo e sudore nostro.
Il quale fu concepito per opera, virtù ed ignoranza del lavoratore.
Nacque dall’ingiustizia.
Patì e patisce ancora sotto tutti i governi
che sempre il lavoratore hanno scorticato e fatto morire dalla fame.
Qua ha da venire a giudicare che chi non lavora non mangia.
E credo alla santa organizzazione dei lavoratori, la lega di resistenza, lo sciopero ed il boicottaggio come base della lotta di classe,
la comunione dei beni, la buona vita in terra e così è la verità

Contro il clericalismo, e contro il militarismo, d’altra parte i sindacalisti rivoluzionari portavano avanti una lotta senza quartiere diffondendo materiali propagandistici: «Per ordinazione di opuscoli di propaganda elementare socialista, antimilitarista ed anticlericale – informava “Il Germe” - rivolgersi sempre alla nostra amministrazione».
Luogo di riunione del Gruppo Sindacalista era la Camera del Lavoro: «I compagni tutti – leggiamo sul giornale – restano avvisati, una volta per sempre, che le riunioni del gruppo hanno luogo ogni venerdì alle ore 20 precise, alla Camera del Lavoro». E la Camera del Lavoro era anche luogo di riunione del Circolo Giovanile Socialista, una realtà organizzativa così rara in Sicilia da preoccupare i nostri sindacalisti, come si evince dal seguente articolo del 1° febbraio 1909: «È dunque impossibile costituire in Sicilia dei Circoli Giovanili Socialisti? Io credo di no. Vero è che in Sicilia, a tutt’oggi, non esistono che due Circoli giovanili (l’uno a Palermo l’altro a Marsala). [...] È dunque necessario che i compagni nostri pensino a costituire delle organizzazioni giovanili specialmente là ove, come a Lucca, a Prizzi, a Palazzo Adriano, a Canicattì ecc. i giovani lavoratori sono in gran parte fra i migliori e più entusiasti compagni. Chiunque poi desideri, sul riguardo, schiarimenti od istruzioni, può rivolgersi al compagno Purpura presso il Germe». L’obiettivo di organizzare i giovani di questi centri è un’ulteriore testimonianza dell’interesse strategico del Sindacalismo per la realtà rurale.
Nella Camera del Lavoro Mercadante svolse un ruolo centrale in occasione dell’accoglienza dei profughi del terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, terremoto che distrusse una grande parte della città, cui egli era particolarmente legato. Ecco una testimonianza in merito: «Furono, alla Camera del Lavoro, ricoverati centinaia e centinaia di profughi che ebbero, da parte degli operai, le più amorevoli cure, [...] l’abbondanza e la buona qualità dei cibi». E pur avendo garantito «l’abbondanza e la buona qualità, il nostro Vito Mercadante poteva, a nome della Camera del Lavoro, consegnare al Comitato Cittadino più di L. 700». Su quell’evento sconvolgente il nostro poeta scrisse L’omu e la terra.
Nel 1909 si svolse il Congresso nazionale della Resistenza, cui il giornale del 1° giugno diede risalto sottolineandone l’ottima riuscita: «Il Congresso della Resistenza [...] consacrò in un ordine del giorno il concetto che il Germe tanto spesso ha spiegato e difeso. Ecco l’ordine del giorno: “Il Congresso dichiara che le organizzazioni seguenti la tattica dell’azione diretta, sostengono l’assoluta incompatibilità tra le funzioni dell’organizzazione di classe ed ogni intromissione di questa nella lotta elettorale politica ed amministrativa, nonché la necessità per le organizzazioni sindacali di mantenere la più stretta neutralità di fronte a tutti i partiti e gruppi politici, e di non permettere ad alcuno di questi d’intromettersi nella gestione interna delle organizzazioni stesse».
Nel contempo si svolse il Congresso dei ferrovieri. A conclusione dei lavori, i congressisti dichiararono «la loro ferma volontà di escludere dalla loro azione ogni inframmettenza di politicanti riconoscendo lo spirito dello sciopero generale». L’esito del Congresso fu ritenuto «un altro trionfo del sindacalismo».
E cosa fosse il Sindacalismo lo scrisse in un’efficace sintesi “Il Germe”: «Il sindacalismo non è che il socialismo operaio, il socialismo cioè inteso non come il prodotto dell’attività di un partito qualsiasi, ma come il naturale risultato della lotta ad oltranza fra la classe lavoratrice e la classe degli sfruttatori. Il sindacalismo è il socialismo ricondotto alle sue pure origini di fierezza e di combattività, e può riassumersi tutto nel motto di Marx “L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi”».
Per una migliore intelligenza del pensiero del Sindacalismo, e quindi del pensiero di Mercadante, è ora necessario puntualizzarne meglio alcuni aspetti fondamentali.


5. Il pensiero sindacal-rivoluzionario

Ne era ideologo riconosciuto l’ingegnere e filosofo Georges Sorel, una figura del socialismo europeo che Gramsci considera, nei Quaderni del carcere, «un sincero amico del proletariato», sebbene ne critichi «il curioso antigiacobinismo», che bolla come «settario, meschino, antistorico», e lo accusi di «feticismo sindacale o economicismo».
Sorel era ben noto ai sindacalisti palermitani, che ne tracciarono questo breve profilo: «Giorgio Sorel è un solitario: la sua biografia è molto semplice e breve: ingegnere des ponts et chaussèes dal 1870 al 1892, abbandonò poi volontariamente l’impiego per potersi dare agli studi sociologici. [...] È uno spirito critico assai fine e colto; è uno spirito filosofico; che procede con metodo e cautela [...] In Francia è il più competente del Marxismo».
Noti sono i riferimenti di Sorel alla filosofia di Henri-Louis Bergson e in particolare al principio di élan vital, lo “slancio vitale” insito nella natura umana. Nella versione sociale che ne fa il marxista revisionista, l’élan vital delle masse si esprime nell’azione diretta, cioè nello sciopero generale proletario, definito «il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo», il cui futuro «sta tutto nello sviluppo autonomo dei sindacati operai».
In Italia il pensiero politico del filosofo francese fu veicolato da Arturo Labriola, Enrico Leone e Paolo Orano. Le sue idee furono inoltre conosciute attraverso la traduzione delle sue opere pubblicate dalla Casa Editrice Sandron, che aveva sede a Palermo.
Tracce di dibattito su Sorel li troviamo in occasione della pubblicazione del suo scritto Saggi di critica del marxismo, pubblicato nel 1903. Il libro fu recensito sul giornale La Battaglia del 15 marzo 1903 da un soreliano palermitano che si firmò Eugenio: «Un libro ottimo, da raccomandarsi a tutti quanti socialisti e non socialisti, ma specialmente ai socialisti che si occupano con serietà delle basi teoriche del socialismo». Al recensore il giornale social-riformista rispose polemicamente con un giudizio negativo sul filosofo francese: «Il nostro egregio collaboratore si limita a un’esposizione – utilissima del resto in un paese di gente che legge poco – del contenuto del libro di Sorel. [...] L’indirizzo che esso traccia al partito socialista internazionale è un indirizzo confusionario e per nulla chiaro».
Non abbiamo documenti che attestino quando e come Mercadante fosse approdato a questa corrente revisionista del marxismo che è il sindacalismo soreliano, per cui si possono in merito fare solo supposizioni.
Il prof. Marino ha avanzato l’ipotesi che le radici del sorelismo di Mercadante e delle sue «idealità anarchico-libertarie» possano trovarsi nel filone di pensiero Garibaldi-Pisacane-Proudhon. D’altra parte, afferma lo storico del pensiero socialista G. D. H. Cole di Sorel, «era notevole la sua somiglianza con Proudhon; e infatti Sorel aveva per lui molta ammirazione e lo citava spesso».
È possibile che egli si fosse avvicinato al sorelismo nel corso della sua iniziativa in quel sindacato dei ferrovieri che, come si è detto, era schierato con il Comitato Nazionale di Resistenza.
«Nel 1902, Mercadante non era un soreliano convinto», riferisce il prof. Mercadante, serio studioso dell’omonimo zio; lo sarebbe diventato gradualmente, e definitivamente, attraverso un’attenta lettura «delle correnti di pensiero europeo» resa possibile dalla sua ampia formazione culturale. Nella sua biblioteca, fra le «migliaia di opere in suo possesso, acquistati con sacrifici e pazienza, nel corso di una intera esistenza», racconta Lorenzo Marinese, c’erano scritti di Karl Marx, Friedrich Engels, Paul Lafargue, Jean Jaures, Antonio Labriola, Vilfredo Pareto, Benedetto Croce (di cui criticò, nell’articolo giornalistico intitolato Protesta di un morto, le tesi espresse in Materialismo storico ed economia marxistica, opera pubblicata a Palermo nel 1900). E c’erano principalmente scritti di Sorel. Il nostro intellettuale, racconta ancora Marinese, «si era imbattuto in uno studioso francese estroso, più noto in Italia che in patria: Giorgio Sorel del quale aveva letto Saggi di critica del marxismo (1903) e, in edizione originale italiana, “Insegnamenti sociali dell’economia contemporanea”». Fra i testi di Sorel, Marinese ne richiama all’attenzione in particolare uno: «Negli scaffali dello Zio Vito facevano bella mostra “Reflexion sur la violence” della libreria Pages libres del 1908 e la traduzione, l’anno successivo, dello stesso libro, a opera di A. Sarno, con introduzione di B. Croce».
È opportuno ora tentare un inquadramento di alcuni aspetti del pensiero politico di Mercadante. A questo scopo, utilizzando alcuni concetti chiave del sindacalismo rivoluzionario (sindacalismo e Stato in primis, e poi parlamentarismo, legislazione sociale, lotta sociale, partito), opereremo un confronto fra i principi politici espressi in modo frammentario da Mercadante nei suoi scritti (articoli giornalistici, manoscritti, saggio Le ferrovie ai ferrovieri) e i relativi principi espressi in forma più elaborata da Labriola in Riforme e rivoluzione sociale (1904) e in Sindacalismo e Riformismo (1905), due testi fondamentali del sindacalismo italiano.
Nella prima opera Labriola chiarisce così il rapporto fra Sindacalismo e Stato: «Fra statizzazione e sindacalismo c’è contrasto. Tutto invece che attornii e riduca il potere dello Stato è nella direttiva del sindacalismo. [...] In questo, il carattere rivoluzionario del riformismo sindacalista: che esso è puramente negativo, è diretto ad evitare e a impedire l’intervento statale. [...] Un liberalismo di classe: ecco il sindacalismo». Mercadante espresse in maniera chiara la sua visione soreliana dello Stato e del sindacato nella relazione “Resistenza, cooperazione, mutualità”, eccone la sintesi giornalistica: «Vito Mercadante, relatore, esamina la ragione, l’attività, la finalità dell’organizzazione operaia in contrapposto all’organizzazione borghese. Organo per eccellenza della prima è il sindacato, della seconda lo Stato. La differenza fra le due organizzazioni sta soltanto nel fatto dinamico. Dimostra come il sindacato sia destinato a vuotare lo Stato d’ogni suo contenuto ed a divenire il centro d’una nuova società su base operaia» (corsivo ns.). In un suo manoscritto entra più esplicitamente nel merito della visione dello Stato come strumento di repressione della borghesia (nel suo saggio definito «prodotto e organo di sopraffazione politica»): «La borghesia ha creato per sé, difesa ed arma di repressione, sovrapposizione politica, l’esercito, la burocrazia, la scuola, le leggi (successioni, diritto, religione), il governo». È la teoria soreliana dello Stato formulata in L’avvenire socialista dei sindacati, in cui il passaggio all’autogoverno dei produttori è prospettato come passaggio di potere dallo Stato ai sindacati. Teoria ripresa in Italia da Labriola: «Lo Stato non si espugna come un castello: si vuota progressivamente, secondo la bella immagine del Sorel, del contenuto suo» (corsivo ns.). Questa teoria viene poi abbandonata per quella della distruzione violenta dello Stato esposta in Considerazioni sulla violenza: «La borghesia ha adoperato la forza, dal sorgere dei tempi moderni; laddove il proletariato reagisce ora, contro di essa e contro lo Stato, con la violenza».
A proposito dell’antistatalismo del Sindacalismo rivoluzionario - «definito argutamente come una “anarchia organizzata”» (B. Russel) - Labriola chiarisce assai bene che esso «è cosa ben diversa» da quello degli anarchici: «il primo tende a trasferire l’autorità dello Stato nel sindacato di mestiere; il secondo a disperderla affatto. Il primo è nella sua indole organizzatore e disciplinatore; il secondo è contrario ad ogni regola prestabilita di autorità, anche consensuale». Noi, precisa Labriola «distribuiamo l’autorità dello Stato nei Sindacati; gli anarchici la disperdono nell’individuo» e «scorgiamo nello sviluppo stesso del Sindacato, nelle leggi di crescenza di questo novello organo sociale, la necessità obbiettiva che fa del Sindacato un organo autoritario, che si sostituisce gradatamente allo Stato».
Dalla concezione antistatalista Mercadante deriva una visione fortemente negativa del parlamentarismo: «Lo Stato, così come è, nel succedersi inconcludente dei vari governi di fazione, con o senza programma, impone fatalmente, in tutte le manifestazioni della vita sociale con le quali ha rapporti, la sua legge di conservazione, misoneistica, che ormai è tutta nella espansione militare e burocratica; ed il parlamentarismo basso e alto, non è che la grande agenzia in cui gli affari dei capitalisti, dei latifondisti, della grande industria, vengono concordati con questi due grandi affari... collettivi».
Nel contesto dei giudizi espressi sullo Stato e sul parlamentarismo, egli «critica la tanto decantata legislazione sociale come assolutamente inutile, o dannosa» (una critica già avanzata da Labriola: «Noi diffidiamo di tutta quella legislazione sociale, che il riformismo promette quotidianamente alle plebi aspettanti. Ci è perfettamente noto che il legislatore non può esercitare una notevole influenza sul processo del lavoro»). Nel citato manoscritto espone con più precisione il suo pensiero: «La legislazione sociale [è l’]argine che il sistema capitalista oppone alla marcia del proletariato. [...] La legge non migliora le condizioni del lavoratore. [...] La legge conserva il proletariato... dobbiamo dunque escludere dalla coscienza proletaria la possibilità della trasformazione legislativa, servendosi delle finalità immediate come esercizio (lettera al Sorel)... e lasciando alla necessità del caso l’esplodere di tali lotte [sociali], lasciando l’iniziativa delle riforme sociali interamente alla borghesia, che è più interessata a farle che non lo sia il proletariato, e perché questo non vizi la concezione sociale che gli è propria».
Respinta la via parlamentare al cambiamento, egli opta per una radicale «lotta sociale» al potere borghese la quale, come sappiamo, consiste nell’azione diretta dei lavoratori, cioè nello sciopero generale proletario, che deve assumere un carattere inevitabilmente illegale (una posizione vicina al Sorel di Considerazioni sulla violenza): «La causa etico-dinamica della nuova lotta sociale è nel nuovo concetto di universalizzare l’esercizio del potere sociale. [...] Che cosa è il potere? La possibilità di disporre a proprio uso e consumo di tutte le forze di una società. Il carattere della lotta deve dunque necessariamente essere tutto fuori della legge e contro la legge; perché noi correremmo dunque ai seggi legislativi? Per far perdere alla coscienza proletaria il suo valore extra legge?» (corsivo ns.)
Su quest’ultimo aspetto della negatività della partecipazione «ai seggi legislativi» Mercadante assume posizioni estremiste all’interno dello stesso sindacalismo come si evince da un confronto con le posizioni di Labriola, il quale, criticando l’antiparlamentarismo degli anarchici, dichiara che «alla concezione organica e progressiva del sindacalismo ripugna ammettere che le organizzazioni operaie rinunzino a condurre la loro battaglia anche su quel terreno, nel quale, ormai, si contrattano tutti i supremi interessi della società borghese, sul terreno parlamentare». Per lui «non esistono né si intravedono le ragioni per le quali la classe lavoratrice dovrebbe astenersi dal partecipare alle assemblee elettive».
Dal rifiuto delle elezioni, del parlamentarismo e delle leggi discende una critica severa di Mercadante al Partito socialista (da cui si comprende il senso della critica - riferita da Riccardo Ravegnan – che il comunista Girolamo Li Causi, sostenitore della funzione storica del partito come guida dei lavoratori verso il socialismo, fa alle «figure caratteristiche di capi anarcoidi del movimento operaio, dei Vito Mercadante, dei Guarrata, dei Raimondi, che avevano, ad un certo momento, fatto deviare profondamente il movimento operaio palermitano»). Egli considera «l’opera del Partito socialista, deleteria oggi, utilissima quando essa servì di lievito alla formazione delle associazioni operaie, dando ai lavoratori la coscienza del loro posto nella società».
La critica al Partito socialista e all’«elezionismo» apre l’opuscolo di Mercadante Le ferrovie ai ferrovieri: «Il partito socialista prepara a sé, invecchiando, un onorato riposo a Corte, ed il neo partito sindacalista naviga tra il terrore o l’errore elezionista e la sola azione proletaria.»


6. Una cooperativa per vuotare lo Stato

Uno dei temi più dibattuti nell’Italia giolittiana era la cattiva gestione delle ferrovie, annosa questione di difficile soluzione che influì sia sulla nascita del Sindacalismo rivoluzionario sia sulle scelte politiche e sindacali di Vito Mercadante. Per inquadrare il problema bisogna risalire alla legge del 1865 che affidò la costruzione e l’esercizio delle strade ferrate a società private perlopiù francesi. Queste sentirono così forte gli effetti della crisi del periodo 1888-94 che a fine secolo non furono in grado di dare una risposta adeguata alle necessità della ripresa economica. Si aggiunga a ciò le frequenti lotte per i miglioramenti retributivi condotte dal personale ferroviario, organizzato nella sua punta più avanzata nel Riscatto ferroviario, sindacato vicino alle posizioni rivoluzionarie di Labriola. Sulla gestione delle ferrovie l’orientamento delle forze di sinistra era tutt’altro che unitario: i radicali e i socialisti riformisti erano favorevoli alla statalizzazione, i socialisti labriolani erano al contrario favorevoli alla privatizzazione, mentre i repubblicani erano orientati a un’autogestione su base cooperativistica. Mercadante, che alle lotte dei ferrovie dedicava un impegno notevole, avrebbe sostenuto – come vedremo - posizioni più vicine a quelle dei repubblicani che a quelle labriolane.
Le trattative con le compagnie per lungo tempo non arrivarono a nessuna conclusione, fino a quando nel 1905 fu approvato in Parlamento il progetto di esercizio statale delle ferrovie. «I sapienti proposero, sostennero ed imposero – scrisse Mercadante con non troppo velata amarezza – l’esercizio di Stato, con l’aiuto della organizzazione dei ferrovieri, i quali pur non accettando in maggioranza tal forma di amministrazione, la subivano col beneficio di inventario, e più la favorivano, sacrificando in quel momento il programma che è delle proprie convinzioni economiche sociali, perché la maggioranza allora vedeva in quel passo un progresso verso le proprie idee». Con la nuova legge le reti Sicula, Adriatica e Mediterranea passarono, dal 1° luglio 1905, alla gestione dello Stato. Così Mercadante ricordò, cinque anni dopo, le lotte condotte dai ferrovieri per raggiungere e consolidare l’obiettivo della statalizzazione: «Senza accennare alle lotte che sino al 1902 dovette sostenere il personale per ottenere regolamenti ed organici, ai quali pur aveva diritto sin dal 1885; ricordiamo quanta parte questi perseguitati ferrovieri ebbero nel riscatto delle ferrovie da quelle vecchie società contro le quali urlavano molti di coloro che oggi tacciono; ricordiamo la lotta eroica, dell’eroismo più bello, quello senza compenso e senza merito, sostenuta da questa classe di lavoratori nell’interesse di tutta la nazione, dal 1905 al 1906, quando, e sono abbastanza noti i fatti, poté solo l’energia e l’onestà dei ferrovieri ad affermare l’autonomia ferroviaria contro le arti nascoste delle società private». Per la gestione statale venne creata un’azienda autonoma la cui direzione fu affidata a Riccardo Bianchi, già dirigente della rete Sicula. Ma neanche questa gestione diede buoni esiti avendo creato inefficienza gestionale e malcontento fra i ferrovieri.
Ciò spinse Mercadante a farsi promotore di una impegnativa iniziativa di valore nazionale sia sul piano delle lotte rivendicative sia su quello dell’elaborazione di una soluzione alternativa alla gestione vigente delle ferrovie. Da ciò nasce Le ferrovie ai ferrovieri, pubblicato a Milano nel 1911. Mercadante vi sostiene che le Ferrovie dovrebbero essere affidate dallo Stato ai «ferrovieri costituiti in cooperativa» per «l’esercizio delle stesse». La motivazione immediata di questo passaggio è così espressa: «Lo Stato – a meno che non confessi di essere l’interesse di pochi ed è quel che noi sosteniamo – nell’interesse veramente collettivo, non può né deve amministrare le ferrovie; a sostenere con le ragioni suddette la nostra tesi sta anche il fatto del disastroso esperimento di ben cinque anni di esercizio statale». A ciò va aggiunta l’utilità dell’operazione: «Una cooperativa ferroviaria darebbe l’immediato vantaggio della cessazione dell’esercizio politico: intendiamo tutto ciò che d’inframmettenza politica oggi concorre a rovinare il bilancio ferroviario e cioè: piccoli favori personali, assunzioni in servizio, traslochi di protezione». (corsivo ns.)
Al fondo dell’idea di gestione cooperativistica delle ferrovie c’è forse anche una motivazione più profonda. C’è l’idea di «governo autonomo della produzione per opera della classe lavoratrice» (Labriola) applicata alla particolare realtà non di un’industria privata ma di un servizio dello Stato. Insomma: se Labriola sostiene che «l’atto rivoluzionario della presa di possesso dei mezzi di produzione di ciascuna industria per opera del sindacato degli operai di quella industria determina il passaggio dal capitalismo al socialismo», Mercadante, per analogia, sembra adombrare l’idea che l’atto rivoluzionario della gestione cooperativistica per opera dei ferrovieri possa contribuire a vuotare lo Stato di funzioni e determinare il «passaggio dal capitalismo al socialismo». Non sosteneva d’altra parte Mercadante (seguendo Sorel e Labriola) che il sindacato aveva il compito storico di «vuotare lo Stato d’ogni suo contenuto» per «divenire il centro d’una nuova società su base operaia»?
Le ferrovie ai ferrovieri è un saggio ispirato alle teorie del sindacalismo soreliano, anche se pubblicato quando Sorel si era già allontanato dal sindacalismo rivoluzionario e avvicinato (nel 1910) al movimento monarchico protofascista Action française. Ed è forse per questo che Sorel in una sua lettera all’autore declina con le seguenti garbate parole l’invito alla prefazione del saggio: «Io non posso, con gran dispiacere inviarvi la prefazione che voi avete la bontà di domandarmi; infatti, è appena un mese, il “Divenire Sociale” ha pubblicato un mio opuscolo (Le Confessioni) nel quale io annunzio che questo scritto sarà l’ultimo che io darò sul sindacalismo». La prefazione la scrisse Vilfredo Pareto e la lettera fu pubblicata nel saggio sotto il titolo “La parola pratica di Sorel”.
Nella prefazione l’economista e sociologo, che fu anche direttore generale delle Ferrovie italiane, quindi uno studioso ed esperto di alto profilo, non solo si mostra favorevole alla proposta, con la quale i ferrovieri «dimostrano di avere serietà di propositi, tenace volere e perfetta conoscenza dei bisogni dell’impresa», ma fornisce anche utili suggerimenti sul finanziamento alla cooperativa: «l’emissione di azioni e di obbligazioni».
Nella lettera l’ideologo francese, rivolgendosi al «caro compagno» Mercadante, dichiara la sua adesione al progetto della gestione cooperativistica delle ferrovie ritenendolo «attuabile per l’Italia». Egli concorda poi con Mercadante sul rischio dell’«inframmettenza parlamentare» e sulla necessità di «difendersi dal controllo dello Stato». Onde evitare di cadere nel circuito della corruzione politica, consiglia che Cooperativa e Stato redigano un contratto che divida «esattamente le attribuzioni dello Stato da quelle della Cooperativa»: «lo Stato stabilirebbe le tariffe e riceverebbe i prodotti incassati dagli esercenti (sotto il controllo dei suoi ispettori finanziari); la cooperativa assumerebbe l’esercizio per un compenso determinato». Un aspetto cui prestare attenzione, suggerisce Sorel, è la redazione del contratto: «La grave difficoltà sarebbe di redigere il contratto in tal maniera che non permettesse la ricomparsa degli abusi che provocano oggi l’intervento dei deputati. Le società capitaliste che intraprendono l’esercizio delle ferrovie accettano spesso dei contratti che sarebbero rovinosi per esse, se non vi fossero delle clausole vaghe che permettono loro di crearsi dei profitti illeciti, grazie ai favori dei politicanti. Occorrerebbe che la cooperativa non fosse obbligata a sollecitare favori».
Sorel, infine, resta «sorpreso» nell’apprendere che due grandi economisti italiani, Maffeo Pantaleoni e Luigi Einaudi «sono ostili al progetto». La motivazione addotta da Einaudi è che «il sistema delle cooperative di produzione ha dato quasi sempre cattivi risultati». Questa la risposta di Mercadante ai due economisti: «E sarà vero, ma quante imprese capitaliste non falliscono? E poi quasi sempre non è sempre, il che conferma la possibilità di cooperative che danno buoni risultati; e questo deve necessariamente essere il caso della cooperativa ferroviaria; libera dal burocratismo politico, non avrà altro scopo che il perfetto andamento tecnico-amministrativo della impresa, come abbiamo a sufficienza dimostrato; e poi perché è una cooperativa che non subisce una vera e propria concorrenza, e perché il controllo degli interessati e del governo sarebbero diretti e quotidiani, ed infine perché, e qui sta la differenza fondamentale, e non trascurabile, illustre sig. Prof. Pantaleoni, tra le società private ed una cooperativa ferroviaria, non si tratterebbe di una delle solite cooperative in cui gli azionisti si accontentano di saper assicurato il tanto per cento ai capitali investiti, ma di interessati diretti, uomini dai quali dipende il buon andamento dell’azienda alla quale avrebbero legata tutta la loro esistenza e della loro prole».
Mercadante conclude con ottimismo il suo saggio affermando che l’«idea nuova» della cooperativa dei ferrovieri sarà certamente ostacolata da interessi contrastanti, ma alla fine «penetrar deve perché è dalla vita stessa generata; è azione: e l’azione è; né ci sono sofismi che possono farla rientrare nel nulla». E per i sindacalisti rivoluzionari l’azione è, scrive nell’incipit del saggio, «azione proletaria». L’azione (generata dalla vita: l’élan vital bergsoniano-soreliano!) apre e chiude circolarmente, e non a caso, il saggio di Mercadante rendendolo un testo non solo di mera proposta sindacale.


7. Collaboratore dei giornali d’avanguardia

La richiesta di gestione delle ferrovie avanzata da Mercadante fu accompagnata da dure azioni sindacali, la cui cronaca veniva pubblicata sul giornale dei sindacalisti rivoluzionari siciliani, L’Avanguardia sindacalista, che iniziò le pubblicazioni l’11 dicembre 1910. L’articolo “I ferrovieri polemizzano e agiscono” è una delle tante testimonianze giornalistiche dell’iniziativa del sindacalismo ferroviario: «da più mesi» – vi si legge - «i ferrovieri, dignitosamente e fieramente, sostengono un’agitazione mirabile per disciplina, concordia e saviezza. [...] O migliorate equamente le nostre condizioni o affidate la gestione delle ferrovie»; «i forti ferrovieri» sono «all’avanguardia del grande esercito proletario» e «forse appunto per ciò sono stati boicottati dalla stampa borghese».
Fra i collaboratori del quindicinale sindacal-rivoluzionario aveva un ruolo importante Mercadante sia come dirigente del Sindacato ferrovieri sia come membro del Comitato regionale della Resistenza, di cui il giornale era espressione. Parecchi i suoi articoli ivi pubblicati: oltre che sui ferrovieri, su personalità prestigiose come Napoleone Colajanni e Mario Rapisardi e su diverse problematiche politiche.
Fra i corrispondenti locali del giornale troviamo anche un antico compagno di Mercadante, Nicola Alongi, il quale, pur combattendo costantemente «sotto la bandiera immacolata e pura del Partito Socialista Italiano», continuava ad essere aperto al confronto con i sindacalisti del “Comitato della Resistenza”. Ad avvicinare il socialista intransigente Alongi al sindacalista rivoluzionario Mercadante era in particolare la critica radicale al socialismo riformistico.
Nei mesi di aprile e maggio del 1911 L’Avanguardia sindacalista diede un’ampia informazione sul Congresso regionale del Comitato Siciliano della Resistenza che si sarebbe tenuto a Caltanissetta, nei giorni 14-15-16 maggio. Fra i suoi promotori c’era Mercadante. Al Congresso parteciparono parecchi dirigenti della provincia contadina, fra cui Barbato, Verro e Alongi. Interessante, per avere un’idea dei rapporti fraterni ma autonomi dei socialisti intransigenti col Sindacalismo, la lettera di adesione di Verro: «Carissimi amici, mi associo di tutto cuore all’idea lanciata dal Corradetti per la convocazione di un congresso siciliano, qualora si tratti davvero di organizzare le associazioni proletarie, cooperative, leghe, circoli che vedono e pensano che la lotta di classe, con tutte le sue conseguenze di propulsione e di elevazione. Sarò con voi. Saluti e auguri. Bernardino Verro». Nella sua lettera di adesione Barbato puntualizza ancor di più la sua diversità rispetto ai Sindacalisti: «Cara Avanguardia, Sindacalista non sono; ma da socialista alla vecchia maniera, fossilizzato, aderisco al congresso di Caltanissetta. [...] Non le teorie del Sindacalismo, ma i sindacati con anima proletaria sono necessari per mettere un freno alle degenerazioni del socialismo e del partito socialista».
Ad aprire la giornata congressuale nel ricordo di Lorenzo Panepinto, ucciso la sera del 16 maggio, fu il Nostro: «Vito Mercadante porta il saluto dei lavoratori di Palermo, saluto che vuole essere non convenzionale rettorica, ma invito all’azione. Lorenzo Panepinto ha, anche con la sua morte, dato un insegnamento altissimo al proletariato». Impegnato a relazionare su una impegnativa tematica, egli sarebbe ritornato sulla morte del maestro e dirigente proletario con un toccante articolo sull’imponente manifestazione proletaria tenuta nel paese di Panepinto: «La piccola Santostefano di Quisquina, - scrisse - desolata pur tra le sue ridenti campagne, perché muta nell’immenso dolore, fu per un giorno il cuore della Sicilia proletaria». Durante la manifestazione parlarono diversi oratori: Mercadante fu colpito dalla «terribile e poetica requisitoria di Nicola Alongi». Alcuni mesi dopo un «attentato vilissimo» a Bernardino Verro ne avrebbe preannunciato il tragico destino: il 3 novembre 1915, infatti, il sindaco socialista sarebbe caduto sotto i colpi della «maffia di Corleone [...] dei vecchi gabelloti» che egli conosceva bene come ebbe a dire Loncao.
Al Congresso Mercadante si soffermò su un tema a lui caro, la cooperazione, della quale riportiamo di seguito il resoconto giornalistico:

Mercadante: «Quanto alla cooperazione è innegabile che essa spesso riesce a creare delle sinecure per i pezzi grossi; ma è anche innegabile che, per mezzo di essa, i lavoratori possono notevolmente migliorare le loro condizioni. Il pericolo delle cooperative sta essenzialmente nel fatto che, divenendo ambienti chiusi ad ogni spirito di lotta di classe ed animati da un gretto utilitarismo, finiscono col fare opere di imborghesimento ed anche, se aiutati da enti pubblici, di addomesticamento.
La cooperazione per la cooperazione non ha nulla di sovversivo ed essa può difatti esser voluta anche da preti, da monarchici, da conservatori. Ma poiché la cooperazione si presenta, specie nelle forme di affittanze collettive come una vera necessità per le organizzazioni dei nostri paesi, noi non possiamo né dobbiamo respingerle, ma accettarle come collaterali alle organizzazioni di resistenza, come mezzo per rafforzare le leghe e tenere i socii stretti e legati ad esse. D’altra parte la cooperazione può giovare allo sviluppo nei lavoratori di quelle capacità tecniche-amministrative indispensabili per l’avvento di una società nella quale sarà affidata ai produttori stessi la gestione degli strumenti di produzione.
Quanto poi alle cooperative di consumo ed alle Società di mutuo soccorso, giovano in quanto servono alla soddisfazione di quegli interessi immediati che sono causa non ultima delle iscrizioni dei lavoratori nelle rispettive organizzazioni di resistenza. Anche il mutuo soccorso può dunque servire come mezzo di propaganda, quando sia collaterale alla resistenza».

Gli rispose, avanzando rilievi critici, Nicola Alongi in un puntuale intervento, così sintetizzato dal giornalista:

«[Alongi] consente che la cooperazione può, se creata come scopo a se stessa, far degenerare il movimento; ma difende le affittanze collettive, non per se stesse, ma come mezzi di propaganda. Cita l’esempio della Cooperativa di Prizzi da lui diretta, che conta ormai 18 anni di vita e che non ha fatto degenerare il movimento, anzi l’aiuta perché è stato sempre collaterale alla Lega.
Facendo soltanto delle leghe, i socii, passati i periodi di agitazione, di scioperi, ecc. non avrebbero più nulla che li tenesse legati all’organizzazione, mentre per mezzo della cooperativa essi restano vincolati, specialmente quando per essere soci della cooperativa, bisogna essere anche soci della lega. La Lega, egli dice con la sua arguzia sorridente e bonaria, dev’essere come la mamma della cooperativa; deve invigilarla, nutrirla, tenerla sempre sottomessa a sé».

Il tema specifico assegnatogli non era però la cooperazione, bensì un altro assai più impegnativo, fatto che dimostra l’alta considerazione in cui era tenuto Lu Viddanu nell’ambiente sindacal-rivoluzionario di Mercadante: «Il Comitato promotore del Congresso», scrisse in una lettera inviata il 25 aprile da Prizzi, «ha voluto affidare a me ed al compagno carissimo F. Albeggiani, la relazione sul comma Sindacati e movimento confessionale, perché trattasse quest’ultimo il lato teorico del tema ed io il lato pratico. Accetto, come un dovere, l’incarico affidatomi, purché si tenga conto che io non sono un intellettuale, e che i miei concetti sono solamente il frutto dell’esperienza di diciotto anni di lotta a pro’ del proletariato e del socialismo».
Il 15 luglio 1911 L’Avanguardia sindacalista pubblicava il suo ultimo numero. Il 6 agosto usciva il primo numero de L’Avanguardia proletaria, nel quale leggiamo che il nuovo quindicinale «non sarà che la continuazione dell’Avanguardia sindacalista».

«“L’Avanguardia proletaria”, organo del Comitato Siciliano della Resistenza, è l’unico giornale proletario della Sicilia. [...]
Vi collaborano le migliori penne ed i più forti organizzatori d’Italia, da Labriola a P. Orano, da A. De Ambris a T. Masotti.
Danno poi al giornale il loro valido ausilio i compagni di Sicilia più provati da Nicola Barbato a Vito Mercadante, da Gino Corradetti a Domenico Viotto. Direttore: Avv. Vincenzo Purpura. Redattori: Albeggiani prof. Ferdinando – Drago Gioacchino, Lojacono Manlio – Sanza Francesco – Savoja Vincenzo. Collaboratori fissi: Guido Angelotti da Roma e Giulio Fabio Redi da Firenze».

La redazione e l’amministrazione del giornale avevano sede presso la Borsa dei Lavoratori di Palermo. Quest’associazione nacque in contrasto con la Camera del Lavoro di Palermo, alla quale il nuovo giornale non mancava di lanciare simili sferzanti satire: «La Camera dei... 500 – Ancora altri 8 e... potrebbero sembrare la Camera dei Deputati. Si tratta invece di qualcosa molto più modesto, quantunque non più pulito: la Camera del Lavoro (??) di Palermo».
Mercadante partecipava alle numerose iniziative e battaglie della Borsa dei Lavoratori. Testimonianza di questa partecipazione è la riunione del 31 agosto, tenuta nel «Salone dei gonfaloni affollato dei rappresentanti di leghe aderenti alla Borsa» e presieduta da Francesco Sanza, presidente di turno della Commissione Esecutiva, per discutere sul “Sussidio municipale alle organizzazioni operaie”. Questo il resoconto dell’intervento di Mercadante: «Pare che si sia tutti d’accordo in questo concetto: il sussidio rappresenta un pericolo per la indipendenza del proletariato e per lo sviluppo della sua coscienza; ma, respingerlo, dopo che esso è stato votato dal Consiglio Comunale, vorrebbe dire fare il giuoco dei nostri avversari. Non conviene perciò, rifiutare il sussidio; ma intanto dobbiamo metterci in grado di poterlo rifiutare domani. Per giungere a questo è necessario incominciare ad abituare i nostri operai a qualche sacrificio pecuniario.»
Nello stesso numero del giornale leggiamo un articolo ancora sul «sussidio» che testimonia l’impegno forte e riconosciuto e il conseguente rischio cui costantemente il nostro sindacalista andava incontro, quasi un presagio di ciò che gli sarebbe realmente accaduto: «Vito Mercadante è stato degradato e tutti i ferrovieri di Palermo sono stati sospesi per un giorno in seguito alla ultima agitazione per il sussidio colerico. La denuncia di Giuseppe Bianco ha dunque ottenuto il suo effetto. Congratulazioni. Noi avremmo però desiderato che Vito Mercadante fosse stato destituito. Ciò forse sarebbe stato per lui una fortuna poiché l’avrebbe costretto a non sciupare oltre il suo ingegno a servizio di una amministrazione balorda, per impiegarlo invece in opere più degne di lui. Ma speriamo bene. La destituzione potrà avvenire quanto prima. Non mancheranno le occasioni per altre agitazioni ed... altre denunzie.»
Fra gli ultimi articoli pubblicati sul giornale prima della definitiva chiusura, il 20 settembre 1912, ci furono quelli sulla festa del Primo Maggio in Sicilia: «Sono giunti al CSdR [Comitato Siciliano della Resistenza]» - informava il giornale del 28 aprile – richieste d’ogni parte dell’Isola per avere oratori in occasione del 1° Maggio. [...] Imponentissima fra queste adunate sarà specialmente quella di Filaca ove converranno le organizzazioni di Prizzi, Palazzo Adriano, Castronovo, S. Stefano, Bivona e varie altre. [...] Inviati dal CSdR parleranno: [...] a Filaca: Vincenzo Purpura e Vincenzo Savoja».
Era una tradizione che a Filaga, ogni anno, si ritrovassero i lavoratori, contadini e operai delle zolfare, provenienti dai paesi del circondario: Prizzi, Palazzo Adriano, Chiusa, Castronovo, Lercara, Santo Stefano, Bivona. «Ci trovammo tutti insieme» – scrive “La Battaglia” del 10 maggio 1903 - «nella borgata Filaga, la nostra fanfara e la musica di S. Stefano facevano sentire le loro melodie intonando l’Inno dei Lavoratori. [...] Parlarono Morca, l’avv. Bernardino Panepinto, l’operaio Brandelli ed il professore Lorenzo Panepinto. Si mandarono dei saluti ai carissimi compagni Nicolò Alongi e Bernardino Verro. [...] La nostra bandiera venne portata dalle care compagne Nicolina Castelli e Maria D’Angelo; fu una bella giornata di propaganda e tutto terminò fra l’entusiasmo generale».
Mercadante immortalò quelle feste nei versi di Primu di Maju, nei quali si possono cogliere alcuni elementi in esse ricorrenti: «Perchì, nicuzza mia, di cu’ ti scanti? / ‘Nca semu tutti li lavuratura; / la fanfarra chi sona pri davanti: / “’Nterra li latri! Ebbiva cu’ lavura!” // Talè, talè ca vennu di Lercara, / di lu Palazzu, Castronovu e Chiusa, / li zappatura cu li surfarara; / pirchì, nicuzza mia, cussì scantusa? // Talè comu s’abbrazzanu li nichi! / Talè chi facci di boni pinseri, ca si scurdaru tutti li fatichi ... / talè ca chianci lu carrubineri! / Tintu ddu cori chi si po’ scurdari, / Filaca, sti jurnatari tutti amuri, / chi grapinu lu cori a lu spirari, / e chi fannu carmari lu duluri! // [...] // Lu chianu chinu; li banneri ‘ntunnu, / supra la scala di mastru Gugghiermu; / parra lu presidenti e chiddu ‘nfunnu, unu chi vinni apposta di Palermu».
In quel primo maggio del 1912 il maltempo costrinse gli organizzatori a tenere la manifestazione a Prizzi, dove confluirono, dalle molte previste, solo le leghe di Palazzo Adriano e di Castronovo e alcuni compagni di Palermo.

«[...] Dai balconi della Lega dei contadini, mentre giù nella via nereggiava una vera folla di lavoratori dai maschi volti abbronzati, Nicola Alongi apre il comizio dando il benvenuto ai compagni di Palermo; rivolge quindi il pensiero ai militari caduti sulle sabbie della Libia per interessi che non conoscono, per una patria che non hanno. Chiude con un incitamento alla organizzazione e alla lotta di classe. [...] Appena terminato il comizio di Prizzi i compagni di Palermo, invitati dalla rappresentanza intervenuta da Palazzo Adriano vi si recano in carrozza. Erano anche a Palazzo i compagni anarchici Schicchi e d’Angiò. [...] Dopo Alongi parla Purpura il quale esordisce col dire che mai come ora egli è convinto delle quasi inutilità dei così detti intellettuali quando tra i proletari stessi sorgono uomini come Scramuzza ed Alongi capaci colla semplice propaganda delle loro anime entusiaste di educare i loro compagni più e meglio di qualsiasi altro. [...] Schicchi Paolo, il noto compagno anarchico, affascina fin dalle prime parole il pubblico che lo segue con attenzione sempre crescente nel suo inno, caldo di poesia, denso di idee, vibrante di fede [...]».

La festa, oltre ad essere stata permeata da un antico spirito antimilitarista, ebbe anche spiacevoli espressioni di acceso anticlericalismo. In un articolo del 2 giugno intitolato “Scimmiottagini Cattoliche” Alongi scrisse: «Questa Lega cattolica che si regge sui trampolini della Cassa Rurale, piena di bile per la nostra entusiastica manifestazione del 1° Maggio, ha voluto il giorno 12 dello stesso mese, commemorare, nientemeno, che una enciclica non so bene di quale papa, e di cui nemmeno gli oratori seppero dare una spiegazione». All’iniziativa dei cattolici guidati dall’arciprete Pietro Campagna risposero Alongi e i soci della Lega di Miglioramento con «un grandioso comizio anticlericale, riuscitissimo», che si tenne a Prizzi il 26 maggio.
Sulle due battaglie storiche, anticlericale e antimilitarista, dei sindacalisti rivoluzionari ci soffermeremo ulteriormente nei due capitoli seguenti.


8. L’anticlericalismo dichiarato e la massoneria invisibile

Dichiarato e noto è l’anticlericalismo del Sindacalismo rivoluzionario, mentre più controverso risulta il rapporto fra questo e la massoneria.
Documentata è l’appartenenza alla Libera Muratoria di alcuni leader nazionali del Sindacalismo come Arturo Labriola, Paolo Orano e Alceste De Ambris. Massone era Vincenzo Purpura, anche se sul giornale da lui diretto, L’Avanguardia proletaria, leggiamo il seguente articolo antimassonico:

«Proprio ieri la stampa borghese riportava scandalizzata il resoconto d’un comizio tenutosi a Parigi dai Sindacalisti contro la massoneria con relativo ordine del giorno a firma di Pataud, il noto agitatore. Non mancano naturalmente le maligne insinuazioni di convivenza coi preti, le alte meraviglie “per questa opera di scissione del fascio anticlericale democratico in lotta contro la terribile idra clericale” ed altre simili bubbole. Ora, dico io, a parte ogni considerazione sul minore o maggiore grado di anticlericalismo delle organizzazioni sindacali (che fra parentesi non credono di fare distinzioni fra lotta antiborghese e lotta anticlericale) come ammettere la colossale buonafede di tutti costoro che hanno appreso proprio ora che sindacalismo e massoneria sono due termini antitetici?! O forse non è bastato per queste sordissime orecchie tutto il rumore che questa questione sollevò in Italia per opera di pochi illusi del defunto partito socialista italiano?! Oh babbio internazionale!»

Per quanto riguarda Mercadante, sappiamo del suo anticlericalismo («Contro l’opera diabolica dei preti» scrive in un suo manoscritto). E anche del suo ateismo: «Il sentimento religioso» - scrive il prof. padre Paolo Collura - «non esiste nel Mercadante poeta»; le poesie “La Missa” e “Lu viaggiu a Tagliavia” sono «poesie di amore» e non «liriche religiose»; «Mercadante ... purificò, presso al tramonto di sua vita, ogni incomposta passione accettando e praticando con fede cosciente e semplicità francescana la religione dei padri, rigettata e negata nel bollore della gioventù».
Non provata da documenti ma sembra certa, come di seguito afferma Lorenzo Marinese, la vicinanza del Nostro alla Massoneria: «Altra volta si parlò di massoneria e il padrone di casa [Mercadante] ne espose gli aspetti positivi indugiando con qualche compiacimento (ne condivideva parte del programma e si richiamava soprattutto a quello delle origini e del Risorgimento); ancora una volta la sollevazione giovanile fu unanime e Zio Vito rimase isolato, ma senza rancori. Accennò a sostegno della propria tesi al dissidio già manifestatosi fra il fascismo e Domizio Torrigiani, gran maestro e, in seguito, confinato».
Verso la massoneria Mercadante nutriva qualcosa di più della sola condivisione del programma (che comunque non sarebbe un aspetto da trascurare). Forse era iniziato alla Libera Muratoria. E un segno di ciò potrebbero essere le sue frequentazioni: a Palermo con i fratelli Vincenzo Purpura e Manlio Lojacono; a Prizzi, forse sotto la volta stellata della loggia Giordano Bruno, con il libero pensatore Alongi. Questi diede a una delle sue figlie il nome di Libero pensiero, in evidente riferimento all’Associazione Internazionale del Libero Pensiero, della quale a Palermo c’era una sezione. Come il contadino Alongi si fosse avvicinato alla cultura anticlericale, del libero pensiero e massonica resta ancora oggi un’incognita: l’ipotesi del prof. Marino è che su di lui abbia esercitato un’«influenza» culturale Mercadante. «Entrambi – scrive il professore - vivevano il rapporto con il messaggio ideale del socialismo nei termini di un integralismo laicista che li induceva ad un comune, assai intenso, anticlericalismo. Probabilmente li legava anche il filo di una comune iniziazione massonica». Ed aggiunge: «È significativo, tra l’altro, rilevare – come un importante dato indiziario per risalire alle probabili influenze culturali esercitate dall’ambiente anche su Alongi – la presenza a Prizzi di una loggia massonica intitolata a Giordano Bruno». (La presenza di Giordano Bruno e dell’acceso anticlericalismo prizzese la si può riscontrare anche in diversi articoli pubblicati su “La Battaglia” dai compagni prizzesi di Alongi). Un’ampia testimonianza della quasi venerazione di Alongi per Giordano Bruno la troviamo nei seguenti passi tratti da articoli da lui pubblicati su L’Avanguardia sindacalista e L’Avanguardia proletaria:

«Il 17 febbraio [1911] noi commemoreremo Giordano Bruno, con una passeggiata con gonfaloni e fanfarra e con un comizio pubblico ove si parlerà anche di altri Martiri del libero pensiero.»
«Il comizio tenuto dalla nostra lega dei contadini per la commemorazione di Giordano Bruno riuscì imponentissima. Nicola Alongi, il simpatico presidente della lega, parlò con un buon senso, una logica, un colore straordinario, convincendo entusiasmando. I preti, che erano stati invitati a contraddittorio, si guardano bene dall’intervenire. Essi sono buoni soltanto a lanciare volgari ingiurie ed asinerie dal pulpito, quando sanno che nessuno può contraddirli; ma quando si tratta di discutere fuggono con la coda fra le gambe. Sempre così reverendi.»
«[Il] papato, spogliato della sua maschera, fu e sarà sempre il mortale nemico della libertà italiana, senza pensare che la storia del papato è storia nera e piena di nefandezze, le quali vennero messe in luce dalle fiamme del rogo di Giordano Bruno a perenne vergogna della chiesa romana e dei suoi seguaci.»


9. Dall’antimilitarismo al Fascio interventista

Fra «tutta la serie delle attività sindacali», disse Mercadante al Congresso di Caltanissetta, «degna di nota [è] la propaganda antimilitarista». Nel 1911 essa fu alimentata dalla impresa coloniale in Libia avviata dalla “Grande proletaria”, sulla quale il Comitato Siciliano della Resistenza prese ufficialmente la seguente posizione, pubblicata sull’ Avanguardia Sindacale del 1911: «Il Comitato Siciliano della Resistenza in merito all’impresa Tripolina. Mentre protesta contro questa avventura guerresca che costerà la vita a migliaia di figli del popolo, portando nuova miseria alla classe lavoratrice, Osserva che per l’opera addormentatrice fatta da tempo dai falsi pastori del popolo non è possibile arrestare le brame espansionistiche dei guerrafondai del nazionalismo, ed invita le organizzazioni aderenti ad approfittare del presente periodo per intensificare la propaganda antimilitarista».
Sullo scottante tema intervenne anche Mercadante esprimendo posizioni in linea con il deliberato del Comitato esecutivo del Sindacato Ferrovieri Italiani, secondo cui «i ferrovieri non debbano allo stato dei fatti partecipare ad un movimento [di protesta anticolonialista] inefficace allo intento senza scopo e fine, per riservare le forze ad un’azione che valga ad assicurare migliori destini al proletariato in genere». Su questo deliberato si pronunciò Vincenzo Purpura con affermazioni che sembrano preludere a quelle interventiste della Grande guerra: «Io non sono affatto un soreliano, ma credo che in questo momento molti buoni e bravi compagni, invece che riempire cartelle su cartelle con la vecchia fraseologia del sentimentalismo pacifista, farebbe bene... a rileggere Sorel!». Anche Mercadante espresse una posizione antimilitarista poco convincente, come si può constatare dalla lettura del seguente passo, preoccupato soprattutto per la sorti della lotta di classe a Piombino e nel resto d’Italia: «Tripoli se non sarà il paradiso terrestre, dai quattro raccolti annui (??) pei nostri emigranti (che non possiamo fare sparire né con gli ordini del giorno né con gli eccidi, perché prolificano come i conigli) non sarà certamente un luogo di deportazione [...]. Credo sia preferibile che i fucili del regio esercito italiano vadano a far le parate sulle coste africane con la giustificazione d’una espansione di civiltà, sia pur borghese, invece che esercitazioni di tiro rapido a mitraglia per rimetter l’ordine tra le folle dei nostri scioperanti. [...] Lasciamo che i generali italiani, nuovi Napoleoni, entrino a loro talento ed a piedi scalzi nelle moschee arabe e... pensiamo a Piombino!».
Andavano intanto maturando i tempi per la costruzione di un sindacato nazionale. I sindacalisti rivoluzionari convocarono per i giorni 6-7-8 settembre 1912, a Cerignola, un «Congresso Meridionale» «per affiatarsi, intendersi, stringersi attorno a un unico organismo». Fra i relatori congressuali di prestigio c’era Mercadante, che relazionò sul tema «Atteggiamento delle organizzazioni nei rapporti del suffragio universale».
Due mesi e mezzo dopo, a Modena il Congresso Nazionale dell’Azione Diretta deliberava di dar vita a un nuovo organismo, l’Usi (Unione Sindacale Italiana), al quale Mercadante aderì. L’Usi nasceva su tre principi fondamentali: «l’aconfessionalismo», «l’apoliticismo di partito» e «l’autonomismo sindacale». Il Congresso accettava un importante ordine del giorno sul paventato pericolo guerra che richiamava «il proletariato al dovere di opporsi ad ogni costo e con tutti i mezzi al fratricida macello cui lo si vorrebbe mandare in omaggio ad interessi che riguarda[va]no soltanto la classe nemica» e invitava «i sindacati aderenti a promuovere manifestazioni pubbliche». Un anno dopo, nei giorni 4-5-6-7 dicembre 1913, a Milano l’Usi teneva il suo secondo Congresso. La risoluzione presentata dall’anarchico Armando Borghi si soffermava fra l’altro sull’antimilitarismo, così riassunto: «Le organizzazioni aderenti sono permeate di un rigido spirito antimilitarista ed antipatriottico, e che anche in questo campo è necessario esercitare energicamente la missione antistatale del proletariato» (U. Fedeli).
Quando esplose il primo conflitto mondiale, nonostante i saldi principi antimilitaristi dichiarati nei congressi di Modena e di Milano, l’Usi si spaccò in due: da una parte la maggioranza guidata da Borghi, secondo cui «dalla guerra avrebbero tratto tutti i vantaggi non già i lavoratori, ma i padroni, la monarchia», dall’altra la minoranza guidata dai fratelli Alceste e Amilcare De Ambris, Tullio Masotti, Filippo Corridoni ed Edmondo Rossoni. Mercadante si schierò con questi ultimi animando a Palermo il Fascio interventista promosso dai sindacalisti rivoluzionari, dalla Borsa dei Lavoratori e dal Circolo socialriformista. Aderirono successivamente al Fascio anche la Camera del Lavoro, che fece sentire la sua voce «contro la barbarie imperialista che provocò la conflagrazione», e la maggioranza dei giovani del Circolo socialista. Sul fronte pacifista rimasero il PSI e gli operai metallurgici: Barbato, Loncao, Alongi e la Fiom denunciarono con forza la barbarie della guerra sulle colonne del nuovo giornale La riscossa socialista, che iniziò le sue pubblicazioni il 1° maggio 1915.


10. Dal Fascio di combattimento all’antifascismo

Terminata la guerra, l’Usi riprese la sua attività con rinnovato entusiasmo: «si forma[vano] Sezioni ed Unioni dappertutto, i suoi militanti prend[evano] parte – e non poche volte ne [erano] gli animatori – a tutte le grandi agitazioni del momento». Fra queste ultime associazioni c’era l’Unione operai di Palermo guidata da Mercadante, il quale, come vedremo, sarebbe stato l’animatore di una grande (e ultima) agitazione dei ferrovieri.
A Palermo il vecchio gruppo sindacal-rivoluzionario si sfaldò a causa delle diverse scelte politiche maturate dai suoi componenti: Vincenzo Purpura fu tra i fautori del Fascio di combattimento, mentre Loncao era approdato alla corrente massimalista di Giacinto Menotti Serrati, cui aderivano Nicola Alongi, Giovanni Orcel e Nicola Barbato (Loncao, Alongi e Barbato li troviamo candidati nella lista del Partito Socialista Italiano per le elezioni del 1919). Orcel era alla guida degli operai della Fiom, che - precisa il prof. Marino - erano «una piccola e compatta avanguardia operaia di “massimalisti” serratiani» o più correttamente «un’avanguardia di comunisti ante litteram» che era in rapporto «spesso assai polemico con l’Usi» di Mercadante.
In quanto «segretario della sezione» palermitana dell’USI, Mercadante seguì lo svolgimento dei lavori del terzo congresso nazionale, che si svolse a Parma nei giorni 20-23 dicembre 1919. Tra i più importanti temi in discussione c’era quello sulla rivoluzione russa, così precisato in una dichiarazione: «Il Congresso [...] considera la concezione Sovietistica della ricostruzione sociale antitetica dello Stato e dichiara che ogni sovrapposizione alla autonomia e libera funzione dei Soviet di tutta la classe produttrice, va considerata dal proletariato come un attentato allo sviluppo della rivoluzione ed alla attuazione dell’eguaglianza nella libertà.»
Anche Sorel rimase affascinato dalla rivoluzione d’Ottobre tanto da aggiungere un elogio a Lenin in appendice a Considerazioni sulla violenza. Ma bisogna ricordare anche che egli era considerato da Mussolini uno degli ispiratori della ideologia fascista. Insomma, il suo era un pensiero che portava acqua, per dirla con Cole, sia al mulino di destra sia al mulino di sinistra. Mercadante non seguì l’ideologo francese nelle sue simpatie bolsceviche, né in quelle fasciste. Ecco come Lorenzo Marinese ricorda il sorelismo di Mercadante: «Zio Vito era tollerante, non manicheo e così dissentiva dagli ambigui apprezzamenti di Sorel nei confronti dell’URSS e di Lenin agli oscuri ondeggiamenti che una prima volta lo avevano indotto ad accostarsi a Maurras e all’Action francaise e poi a Croce e a Mussolini. Queste le divergenze più significative a cui seguiva l’adesione controllata, si potrebbe dire, ai cardini del sorelismo espressi nelle due opere “L’avvenire socialista dei sindacati” e “Considerazioni sulla violenza”».
Mercadante si immerse, con uno slancio vitale degno di un autentico sindacalista rivoluzionario, nel clima politico frenetico del dopoguerra palermitano, caratterizzato dall’attivismo movimentistico di contadini, operai, combattenti, ferrovieri.
Nel 1919, in Sicilia si sperimentò quell’originale blocco sociale operai-contadini che, ribadiamo, per circa un decennio Mercadante e il suo gruppo avevano cercato di attuare, ma senza alcun risultato, se non quello di avere contribuito a formare nell’idea dell’unità di classe un dirigente contadino come Alongi e un dirigente operaio come Orcel. Ad attuarlo, anche se per breve tempo, furono proprio Alongi e Orcel. Scrisse in tal senso Alongi su “La Riscossa socialista” del 23 febbraio 1919: «Finché gli operai della città non fanno causa comune con i lavoratori dei campi verso la diritta via del socialismo, i politicanti di mestiere saranno sempre i difensori della borghesia a danno del proletariato, che gli è servito di sgabello incoscientemente». Quell’alleanza – lo si è già accennato - fu auspicata da Gramsci in Alcuni temi della quistione meridionale:

«Il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stata la “formula magica” della divisione del latifondo, ma quello della alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato. [...] Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine».

Partiti da una comune origine socialista, pacifista, anticlericale e forse massonica, ma approdati a posizioni politiche differenti, Mercadante e Alongi pagarono un prezzo alto al loro impegno sociale e alla loro coerenza ideale: l’uno, come vedremo, riducendosi in orgogliosa miseria, l’altro vittima di un delitto, consumato il 29 febbraio 1920, che lo scrittore Vincenzo Consolo ha qualificato come «infame». Il 14 ottobre 1920 fu assassinato anche Orcel. Con i due omicidi la mafia agraria metteva fine al pericoloso progetto rivoluzionario del blocco sociale operai-contadini.
Mentre nel 1919 si portava avanti quest’esperienza, Mercadante aderì al movimento combattentistico che faceva riferimento all’Opera Nazionale Combattenti. E quando durante l’impresa d’annunziana di Fiume fu emanata la Carta costituzionale, prodotto di «una fusione di idee sindacaliste e di nazionalismo intransigente» (Cole), egli «difese quella Carta del Qarnaro ispirata da Alceste De Ambris, compagno di lotte e di iniziative» (Marinese). Partecipò, inoltre, alle iniziative per la fondazione del Fascio di combattimento di Palermo, cui cercò di dare un orientamento di sinistra. Nella riunione costitutiva del 20 aprile 1920, intervenne a nome del Consiglio direttivo dell’Unione operai per vagliare la «possibilità di fare azione comune con il Fascio di combattimento», ma limitatamente a due punti del programma esposto da Vittorio Ambrosini: la «elezione della Costituente, da fare con scrutinio di lista e rappresentanza proporzionale per la riforma della Costituzione, del Parlamento e specialmente del Senato»; la «espropriazione dei latifondi per distribuirli ai contadini e prima di tutto ai combattenti» (G. C. Marino).
L’attenzione maggiore di Mercadante era però rivolta alle rivendicazioni sindacali e alle iniziative concrete per i suoi ferrovieri. Il 20 gennaio 1920, guidò un nuovo ciclo di lotte dei ferrovieri palermitani. Questi, riuniti nei locali della Borsa dei Lavoratori, aderirono alla piattaforma rivendicativa dell’Associazione nazionale dei ferrovieri, i cui obiettivi erano la rivendicazione delle otto ore lavorative e l’autogestione. Essi ebbero la solidarietà degli operai della Fiom di Orcel, il cui giornale, “La Dittatura proletaria”, scrisse che «la invincibile fermezza degli scioperanti sconcerta[va] le classi dominanti».
Nel contempo per iniziativa di Mercadante si costituiva, con sede a Palermo, «una Società anonima cooperativa a capitale illimitato fra impiegati di ufficio delle Ferrovie di stato residenti in Palermo con denominazione “Panormus”». «Scopo della Società» – recita l’art. 2° dello Statuto - «è la costruzione e l’acquisto di case popolari o economiche ai sensi di legge da assegnarsi o cedersi in proprietà o in affitto ai soci». La “Panormus” costruì centinaia di appartamenti in stile liberty in varie località di Palermo. Furono queste le ultime iniziative di Mercadante.
Il fascismo chiariva intanto la sua natura eversiva e dittatoriale e Mercadante non esitò a prenderne le distanze, mentre tanti ex compagni sindacal-rivoluzionari seguirono Mussolini, fra i quali Edmondo Rossone, suo compagno di lotte nel periodo aureo del Sindacalismo siciliano. Fu impossibile corromperlo racconta il prof. Mercadante: «Vito Mercadante, come sindacalista, era maestro di Rossone, ministro dell’Agricoltura. Mussolini cercò di recuperare questi sindacalisti per dare una tinta democratica al suo movimento che nella sostanza era reazionario. Vito Mercadante non abboccò all’amo ... non si fece nominare sottosegretario [ai Trasporti]. Anzi presentò il Rossone, che era venuto a trovarlo appositamente a Palermo, nel suo salotto addobbato di garofani rossi e affollato di ferrovieri già licenziati, quelli che avevano fatto l’ultimo sciopero contro il fascismo a Palermo. Dopo di che il ministro Rossone capì l’antifona e se ne andò. Dopo un mese Mercadante veniva licenziato dalle ferrovie.»
Fu licenziato nel 1923, con una motivazione palesemente pretestuosa: «scarso rendimento». Ventuno anni dopo, il 16 maggio 1944, quando il fascismo in Sicilia era ormai sepolto, un suo compagno scrisse su “Sicilia liberata” un articolo, “I silenziosi della poesia”, che inizia così: «Non fu il solo, ma fu certamente il primo che lasciò, qui tra noi, il suo ufficio di funzionario dello Stato, quando il regime fascista iniziava quella campagna di persecuzione che doveva durare poi – fenomeno inverosimile – fino alla sua caduta».
Racconta Franco Grasso, uno dei primi organizzatori della rete antifascista siciliana, che Mercadante fu «ridotto al bisogno e per protesta al modesto mestiere del ciabattino»; una condizione questa che «accettava con fierezza e allegria: picchiava sulla suola e intanto declamava i suoi versi». Declamava versi e leggeva libri, quelli che i suoi ferrovieri gli donarono il 12 giugno 1923, con questa motivazione: «A Vito Mercadante questo tenue omaggio perché gli parli all’intelletto l’adusato linguaggio dell’Arte e della Scienza al cuore gentile l’affetto dei Colleghi».
Da allora divenne «il “sorvegliato speciale” più controllato dalla squadra politica di Palermo». Ciò non gli impedì di trasformare il suo studio in un luogo di ritrovo di amici, intellettuali e antifascisti costretti, dopo le retate del 1926 e del 1929, allo jus murmurandi. Non era privo di rischi frequentarlo; infatti, con lui «era pericoloso persino scambiare un saluto». Per questo divenne un mito per la nuova generazione antifascista palermitana.
Racconta ancora Grasso: «Ci si ritrovava talora a piazza Bologni, nell’atrio profumato di Fifiddu Reina, un anarchico che vendeva fiori e recitava poesie di Mercadante. Fu proprio qui il secondo incontro, rapidissimo, con il nostro poeta, forse informato delle idee che nutrivamo. Mi riconobbe e mi sorrise. Ebbe in dono un garofano rosso e disse soltanto, in tono abbastanza significativo: “Bene bene, ragazzi!”»
La malattia intanto comprometteva sempre di più il fisico del vecchio combattente e gli impediva un’attiva partecipazione a quella sotterranea organizzazione antifascista che si tentava di costruire a Palermo e nel resto della Sicilia. Grasso lo incontrò per l’ultima volta nell’inverno del 1933 per domandargli un articolo da pubblicare sul foglio antifascista del Fronte Unico Antifascista Italiano: «“So di voi – disse il caro maestro visibilmente commosso – continuate e perseverate con coraggio e speranza ma anche con cautela. Io e i vecchi compagni non possiamo esservi vicini, vi saremmo di intralcio e accresceremmo i rischi che già pesano su di voi”. Prese le medicine e andò via». Quel foglio, stampato quell’inverno a Santa Croce Camerina, conteneva un appello agli antifascisti per bloccare la politica imperialista di Mussolini, preludio a una nuova guerra mondiale.
Mercadante si spense due anni dopo, il 28 novembre 1936. Ricorda Grasso che «aveva voluto per il trasporto funebre la carrozza dei poveri, e che nessuno degli amici lo seguisse». Non voleva evidentemente che il suo funerale potesse mettere a repentaglio la libertà e l’incolumità dei suoi compagni.
Incorruttibile e fedele agli ideali fino alla fine il sindacalista e poeta prizzese Vito Mercadante: «Lu zzù Vitu, nun si vinni / ca è tuttu un pezzu ed un culuri, russu».

Salvatore Vaiana

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