Ritratti: scrittori del nostro tempo Maurizio Piscopo incontra Diego Guadagnino

Lo scrittore e saggista di Racalmuto Enzo Sardo mi ha parlato a lungo dell’avvocato e scrittore Diego Guadagnino. Sono rimasto così affascinato che ho voluto incontralo ad Agrigento, per scoprire tante storie e curiosità sulla Sicilia, sugli scrittori e soprattutto di Canicattì che è una città ancora da scoprire, con una storia ricca e tradizioni affascinanti, che l’avvocato Guadagnino conosce minuziosamente. Canicattì deriva probabilmente da termini arabi che indicano una fortezza o un fortilizio di fango, testimoniando la sua origine durante la dominazione araba.
Il suo centro storico conserva tracce di diverse epoche, il nome “Canicattì” deriva probabilmente da espressioni arabe come “al-Quatah” o “Hadagattin”, che significano “roccia, fortezza, fortilizio di fango”. La città fu feudo dei Palmeri e poi dei De Crescenzi, per poi passare ai Bonanno, che contribuirono alla crescita demografica e alla costruzione di importanti edifici e fontane. La Torre dell’Orologio, costruita nel 1932, sorge nel luogo di una torre più antica e ha segnato per lungo tempo i momenti più importanti della vita cittadina. A Canicattì si tramandano numerose leggende e tradizioni popolari. Un episodio storico importante fu il duello tra Salvatore Palmieri, cugino del conte Ruggero d’Altavilla, e l’emiro Melciabile Mulè, che portò alla nomina di Palmieri come primo barone di Canicattì. Il dialetto è influenzato dalle province di Agrigento e Caltanissetta, presenta delle peculiarità proprie, come l’uso di “buenu” invece di “bonu”. Nella mia infanzia ho sentito parlare di Canicattì come la Milano del sud della provincia di Agrigento, con piccole fabbrichette e tante attività industriali. Su Youtube alla voce Trasmutazione di Diego Guadagnino si trova un video con 26 poesie recitate dagli attori Giorgio e Alessandro Sparacino, con musiche originali di Sergio Carrubba e le immagini di Salvatore Fratantonio. È arrivata l’ora di conoscere l’avvocato e scrittore Diego Guadagnino, così gli poniamo qualche domanda.

 

Quando nasce la tua passione per la scrittura?

 

La letteratura è un modo di essere, una maniera di stare al mondo e non una passione per qualcosa che è fuori di te. Ricordo che ancora prima di aver imparato a leggere i libri erano il mio giocattolo preferito, anche se in casa ce n’erano pochi. Il rapporto con la scrittura è stato una conseguenza. Ogni volta che vivevo un’esperienza che per me era interessante, la vedevo immediatamente proiettata nella scrittura: anche se non scrivevo, pensavo come cosa ovvia che in futuro l’avrei fatta diventare pagina scritta. Il riflesso di questo modo di vivere e di pensare è ne La via breve, il mio primo libro in prosa, in cui il protagonista è un bambino che si pone tante domande e si fa altrettante idee su quello che vede e sente dal mondo adulto. Scrivere quel libro mi è venuto abbastanza facile, è tutto un ricordo dei miei segreti ragionamenti infantili.

 

Nel tuo ultimo libro, L’Anonimo d Canicattì, racconti la storia della tua città. Sono tutte storie vere o c’è una parte della tua fantasia?

 

In realtà si tratta di una raccolta di saggi su personaggi, autori, poeti, scrittori canicattinesi, che nel complesso formano una specie di identità profonda della città. Di fantasia ce n’è ben poca, anzi niente, il saggio non richiede né consente spazi d’invenzione. Ci sono personaggi noti, come il vescovo Angelo Ficarra, al cui travagliato rapporto col Vaticano Leonardo Sciascia dedicò il libro Dalle parti degli infedeli; e meno noti, ma notevoli, come Domenico Messina, il contadino dirigente del Partito comunista, protagonista di primo piano della occupazione delle terre, nel secondo dopoguerra. Ci sono poeti d’indubbio spessore come Francesco Macaluso, Peppipaci, Domenico Turco, borghesi illuminati come il barone Lombardo, che nella seconda metà dell’Ottocento rivoluzionò le tecniche agricole e fu additato come esempio d’imprenditoria d’avanguardia in tutto il Meridione…e anche personaggi eccentrici ed esibizionisti come il barone Agostino La Lomia… Ma sempre visti in una luce diversa dal modo in cui se n’è parlato tradizionalmente.

 

Chi è l’Anonimo di Canicattì?

 

Uno sconosciuto, uno scrittore anonimo che per sessant’anni, dal 1792 al 1852, annota in un diario sui generis quello che accade in un paese di quindicimila anime, qual era allora Canicattì. Nessuno lo legge, ma si rivolge a lettori immaginari. Come in un romanzo a puntate, nel raccontare un delitto o un adulterio o qualche altro fatto notevole dice: quello che accadrà ve lo racconterò, se sarò ancora tra i vivi. Veramente una strana figura di scrittore, e ciò che lo rende intrinsecamente affascinante e questo suo fare della parola e della memoria valori assoluti, disancorati da qualsiasi finalismo. Ma proprio per questo sollecita la nostra curiosità nel chiederci chi era? perché scriveva? mentre scorriamo pagine in cui si succedono drammi collettivi, come epidemie, carestie, alluvioni, siccità, invasioni di cavallette, ma anche vicende individuali come omicidi, rapine, furti, esecuzioni capitali, amori contrastati, adulteri, vendette; e ancora: nascite, decessi, funerali, lavori manutentivi nelle chiese, processioni di feste ricorrenti, processioni improvvisate per invocare la pioggia…Insomma una specie di videocamera puntata sulla collettività ignara di essere osservata e decritta. Il testo originale, composto da 1386 pagine, di proprietà della famiglia Gangitano, è stato trascritto dal dott. Cesare Gangitano, venuto a mancare meno di due anni fa, col titolo Cronache di Canicattì – Dal settembre 1792 al luglio 1852, in due tomi e stampati in dieci esemplari, datati Napoli 11 giugno 2003.

 

Perché lo hai scelto per dare il titolo al tuo libro?

 

Innanzitutto perché il saggio più ampio è quello dedicato a lui e al suo manoscritto, e poi perché gli altri saggi idealmente si pongono come una specie di prosecuzione della sua opera di osservazione e di pazienza. Con una rilevante eccezione, però.

 

E cioè?

 

Per lo spazio che dedico ai poeti, mentre l’Anonimo non parla mai di poeti, non cita mai un verso, rivelandosi in questo un vero campione dello spirito pragmatico locale.

 

Che cos’è “lu scuru” per gli abitanti di Canicattì?

 

Lu scuru è soprattutto il tema su cui due poeti canicattinesi, Francesco Macaluso e Peppipaci, si cimentano in un contrasto che io ho voluto commentare nel prologo del libro, perché vi sono rappresentate due diverse visioni del mondo: cogitabonda, l’una e pragmatica, l’altra. Macaluso esprime la prima con la sua inquietudine di fronte al buio della sera, eletto a metafora di tutto ciò che è mistero intorno all’uomo, e conclude chiedendosi: Ma ‘nsumma stu scuru chi è?”. Peppipaci glielo spiega con una semplicità che sa d’ironia se non di presa in giro: Lu scuru ca veni ogni sira/ e sempri a chidd’ura s’aggira,/vol diri ca un juernu finì!/ Dumani matinu c’agghiorna/ lu suli di novu ritorna,/ e sempri sarà d’accussì!” Nel contrasto tra i due, chi è più vicino all’animo collettivo canicattinese è senz’altro Peppipaci, disincagliato da problemi esistenziali e quindi più industrioso e fattivo, – come, appunto, i canicattinesi che si sono sempre contraddistinti per tali qualità facendo la fortuna della città. E questo non da poco. Già nel 1836 l’architetto francese Viollet Le Duc nelle sue Lettere sulla Sicilia scriveva che le miserie della costa si abbandonano entrando a Canicattì dove gli abitanti hanno un aspetto vivace e non si vedono mendicanti per le strade.

 

Cosa rimane dei poeti popolari Francesco Macaluso e Peppi Paci?

 

A Canicattì c’è stato un gruppo di buontemponi che negli anni trenta del secolo scorso ha dato vita all’Accademia del Parnaso. Vi facevano parte tutti i locali corteggiatori delle muse, animati dal talento della burla, della facezia, dall’umorismo in genere. Per le sue sortite il Parnaso diventò popolare contribuendo a diffondere l’interesse o il piacere per un certo tipo di poesia tra i canicattinesi. Peppipaci, che ovviamente era un accademico parnasiano, ne trae vantaggio a tutt’oggi con le sue poesie tipicamente parnasiane, che ancora si ristampano. Non c’è canicattinese che non conosca il poeta Peppipaci. Mentre così non è stato per Francesco Macaluso, anche lui parnasiano, anche lui poeta di valore, autore di un’opera in versi sicuramente più copiosa ma più riflessiva su temi esistenziali e sociali, e perciò ritenuto meno attraente dal grosso pubblico.

 

Quanti poeti ci sono a Canicattì, l’Arciprete, Domenico Turco ed altri, continua ancora questa nobile tradizione?

 

È inevitabile che una società versata nell’attivismo produttivo o, per usare ancora il termine, pragmatica generi poeti sensibili alla trascendenza e/o al mistero, vedi Edgar Allan Poe nella società americana dell’Ottocento, per fare un esempio universalmente noto ed eloquente. Lo stesso avviene a Canicattì con poeti come Domenico Turco e l’Arciprete Vincenzo Restivo, alla cui poesia, che guarda oltre la materia, dedico lo spazio meritato. Anch’io ho pubblicato due libri di poesia, Trasmutazione e Apocrifi, riconducibili alla stessa area ideale. Mentre non mancano poeti dialettali come Lillo Curto e Salvatore Treppiedi ricollegabili allo spirito del Parnaso. Una recente sorpresa è stata la poesia di Lillo Curto: già noto per le sue sculture in legno, ha pubblicato una corposa raccolta in dialetto “caniattinisi”. La sorpresa di Curto, oltre ai contenuti strettamente legati alla cultura locale, è l’uso rigoroso della parlata “caniattinisa”, che lo collega a un’altra opera, sicuramente unica nel suo genere e a suo modo parnasiana, che è la Grammatica caniattinisa di Don Fausto Curto, un salesiano poliedrico e iperattivo, che ha messo al servizio della sua missione educatrice tra i giovani lo spiccato senso dell’umorismo avuto in dote da madre natura.

 

Molti siciliani non hanno letto Il Gattopardo, ma hanno visto la trasposizione cinematografica di Luchino Visconti, cosa pensi in proposito?

 

Leggere il romanzo e vedere il film sono esperienze assolutamente diverse e perciò non intercambiabili. Il Gattopardo non è un romanzo d’appendice che può essere trasposto in film senza patirne gran torto, per il fatto che ciò che conta in quei casi è la trama, l’intreccio… La cifra che fa la grandezza del romanzo di Giuseppe Tomasi, invece, risiede nel linguaggio. Chi giganteggia in quelle pagine non è il Principe Salina con le sue idee reazionarie ma la lingua italiana che si rivela fastosa e duttile, permettendo all’autore vette di grande poesia… cose che non possono essere portate sullo schermo. E ciò sia detto con tutto il rispetto per il film di Luchino Visconti, che ritengo una grande opera cinematografica. Oggi vanno di moda gli inglesismi, che oltre l’indispensabile umiliano e impoveriscono l’italiano, chi ne abusa evidentemente non ha letto Il Gattopardo o lo ha letto malamente.

 

Nel tuo libro citi spesso il Maestro di Regalpetra Leonardo Sciascia, che ricordo hai del maestro, l’hai incontrato?

 

Sciascia ha ripensato tutto della Sicilia e lo ha fatto, sulla via aperta da Brancati, anche in maniera diretta, nel senso che non affida la propria visione soltanto ai personaggi romanzeschi, come avviene con Pirandello, Verga…Ne consegue che dopo di lui è impossibile parlare della Sicilia senza inciampare a ogni passo nel suo discorso, ormai entrato nel DNA letterario siciliano. Personalmente l’ho incontrato a Canicattì quando venne a presentare il suo libro sul vescovo Ficarra, in quella occasione feci da moderatore e assistetti a uno scambio di battute tra lui e l’Arciprete Restivo, un incontro-scontro entrato ormai nell’aneddotica sciasciana e che io racconto nel mio libro.

 

Il rapporto tra Leonardo Sciascia e Tommaso Riccardo Castiglione, professore di letteratura italiana all’università di Ginevra…

 

Sciascia aveva un debole per gli eretici e Castiglione lo era, in senso letterale, essendo di religione valdese, nativo di Grotte, a cinque chilometri da Racalmuto e sede di una cospicua comunità valdese. Era emigrato in Svizzera nel 1929 per sfuggire al fascismo senza rientrare più in Italia. A Ginevra, probabilmente indirizzato dal suo maestro Benedetto Croce, che già per conto suo si era occupato di intellettuali meridionali protestanti rifugiatisi a Ginevra dopo il Concilio di Trento, cominciò a scrivere saggi storici sui rappresentanti del protestantesimo nostrano, soprattutto siciliani e calabresi, fuggiti a Ginevra. Nel 1955, pubblicò a Lugano una monografia su un illuminista catanese, nato nel 1761, poco conosciuto dai siciliani, Giovanni Gambini. Un intellettuale seguace di Rousseau (infatti emigrò a Ginevra perché patria del filosofo) che Sciascia definisce “interessantissima figura” accostandolo a Francesco Paolo di Blasi. Come vedi tra Sciascia e Castiglione le affinità erano tante, troppe per non incontrarsi. Nella corrispondenza tra i due, fornitami da Angelo Buscaglia, nipote di Castiglione, la prima lettera di Sciascia riguarda Morte dell’Inquisitore…I due, però, come mi dice la figlia di Castiglione, che risiede a Ginevra, non s’incontrarono mai personalmente.

 

Puoi commentare la frase tratta da un tuo libro; “La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia”?

 

La frase, che è del filosofo Manlio Sgalambro, se contestualizzata nel saggio in cui è citata, che è quello sul barone Lombardo, si spiega da sola. Il barone Lombardo è stato un imprenditore agricolo di spettacolare intelligenza operativa e i suoi feudi, le sue massarie, le sue ville erano quanto di più innovativo, efficiente, magnifico, ci fosse mai stato nelle campagne di Canicattì, ma, morto lui, tutto si avviò verso un lento e inesorabile declino, fino ai nostri giorni in cui le sue terre sono un’isola di squallore tra le colture intensive che hanno trasformato le campagne di Canicattì, un destino che non ha risparmiato neanche Villa Firriato, un vero gioiello liberty, allora costruita su progetto di Ernesto Basile, amico personale del barone: per decenni è stata incustodita e vandalizzata…Ora in quello che resta mi pare ci sia una pizzeria. Chiaramente la vicenda umana e imprenditoriale del barone Lombardo sembra la rappresentazione paradigmatica di un destino oscillante tra la luce e l’ombra, tra eros e thanatos, tra caos e cosmos, tipico di una Sicilia impastata di avverse compresenze.

 

Un ricordo di Padre Gioacchino La Lomia, la sua carità e i suoi miracoli di cui volevi scrivere un poema per celebrarlo….

 

Il mio rapporto con Padre Gioacchino La Lomia, cappuccino canicattinese morto agli inizi del secolo scorso, nasce dagli insegnamenti di mia nonna materna. Mia madre gestiva una bottega di generi alimentari, contigua all’abitazione, “casa e putìa” si diceva allora per questo tipo di esercizi, per cui tra accudire la casa e badare ai clienti, le restava poco tempo da dedicare a me bambino, che così trascorrevo intere giornate con mia nonna, religiosissima, la ricordo con un rosario sempre tra le mani. Mi portava spesso alla Madonna della Rocca, la chiesa del convento dei cappuccini, a pregare sulla tomba di Padre Gioacchino, e a vedere le reliquie esposte nelle vetrine. A Canicattì c’era, e c’è ancora, una devozione grandissima per questo cappuccino. Per me diventò una figura rassicurante e un esempio da imitare, nella carità, nella povertà, nella penitenza… M’impressionava molto il fatto che da ricco si era fatto povero vestendo il saio. E poi le sue avventure nelle foreste del Brasile da missionario accendevano la mia fantasia. Quando morì mia nonna, avevo sette anni e lo stesso giorno della sua morte sviluppai una improvvisa ossessiva paura di morire. Piangevo, gridavo, mi portarono dal medico di famiglia. Ma quello, poverino, non ci capiva niente. Nessuno ci capiva in quello che mi succedeva. C’erano momenti in cui pensavo, ero convinto, sentivo che stavo per morire. I miei decisero che tutto derivava dal fatto che mi ero spaventato nel vedere il cadavere di mia nonna disteso sul letto. Ma quando mai, io sapevo che non era questo. Non andai più a scuola, erano gli ultimi tre mesi, mi portarono in campagna da una famiglia di contadini, per stare lontano, dicevano, dai luoghi che mi ricordavano la nonna…La figura di Padre Gioacchino col tempo mi aiutò più del medico di famiglia a superare quelle crisi, o almeno a non piangere, a non gridare più, a conviverci, a sperimentare una solitudine dove solo lui, Padre Gioacchino, i santi, Gesù, la Madonna potevano essermi vicini. Quell’esperienza segnò pesantemente la mia infanzia. Facevo “viaggi” a Padre Gioacchino, cioè pellegrinaggi alla sua tomba, come facevano le donne per le grazie ricevute. Pellegrinaggi che erano una passeggiata a piedi da casa mia alla Madonna della Rocca. Mi inventavo pretesti per farli. Per es. ero promosso a scuola? allora dovevo fare il “viaggio” perché Padre Gioacchino mi aveva aiutato. In realtà era un modo per sentirmi a contatto con lui, quasi in segreta e privilegiata confidenza. Da quella esperienza di morte immaginaria mi era sorta l’idea di scrivere un poema sulla sua vita, ma anche tanti interessi successivi nascono da quell’esperienza, interessi come la storia delle religioni, insorto, alla fine del liceo e durato per tutto il periodo universitario. Leggevo con vera passione tanti autori, Mircea Eliade, Pettazzoni…Ma il colpo di fulmine, la folgorazione, l’illuminazione straordinaria avvenne quando scoprii Ernesto de Martino e in particolare Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, dove il grande, l’immenso etnologo enuncia la sua teoria sulla “crisi della presenza”. La crisi che aveva oscurato la mia infanzia mi fece subito capire quella teoria nonostante il linguaggio elevatissimo, quasi ermetico usato da De Martino. Era un incontro straordinario tra la mia crisi infantile e il testo demartiniano, due entità, due fasci di luce che s’incrociavano creando un’unica chiarezza, dove tutto finalmente aveva un senso e una funzione. C’era da fare un “viaggio” a padre Gioacchino, solo che non ci credevo più da molto tempo, ma non lo liquidavo come superstizione, Padre Gioacchino era il simbolo culturale comunitariamente condiviso che di fronte alla crisi della presenza mi aveva permesso di ritualizzare il dolore della perdita aiutandomi a reintegrare la mia presenza nel vivo fluire del reale. Oggi posso dire senza esitazione che tutto il mio mondo poetico esce da quella precoce cognizione della morte come evento reale e presente.

 

Cos’è un comizio d’amore?

 

Comizi d’amore è il titolo di un film inchiesta di Pier Paolo Pasolini nell’Italia del boom economico, incentrato sul sesso nell’immaginario degli italiani. La parola “amore” in questo caso significa sesso, e il titolo, discussioni pubbliche sul sesso. L’espressione io la prendo in prestito, ma la uso con significato diverso, meno letterale, quasi metaforico: comizio d’amore è quello che Domenico Messina tiene ai compagni, e in questo caso significa comizio d’amore come poesia d’amore, parole dettate dall’amore per i contadini.

 

Pirandello e gli avvocati che ne sanno una più del diavolo…

 

Pirandello sapeva che non è così. Se qualche volta nelle sue pagine ce n’è qualcuno che ne sa una più del diavolo è per farne una macchietta e, quindi, conformarsi a quel detto secondo cui l’avvocato è il mestiere dei ricchi stupidi e dei poveri furbi. Io ho scritto tanto sugli avvocati. Il fabbro e le formiche è un saggio biografico su Domenico Cigna, un grande penalista, morto nel 1946, un principe del foro, un giurista di fama, autore di libri straordinari come I reati di sesso nel matrimonio…Ebbene attraverso i suoi scritti personali, intimi ne viene fuori un uomo combattuto da angosce, dubbi, incertezze, rimorsi, indecisioni. Ho dovuto trascrivere un brano tratto dalla novella La carriola di Pirandello, il cui protagonista è un avvocato, per metterlo a confronto con una pagina di diario di Domenico Cigna, dove dice di sentirsi spesso assalito da un dubbio raccapricciante e cioè che la sua vita, tutta la sua vita non sia altro che una fantasmagoria macchinata a suo danno col fine dello scherno e del tormento. Metto in evidenza l’impressionante somiglianza, l’incredibile quasi sovrapponibilità dei due testi. Altro che venditore di sicurezza, quale appariva ai clienti! Ma l’avvocato, nello stesso tempo, deve presentarsi sicuro di sé, altrimenti smette di avere clienti. Nel mio ultimo mio romanzo Tindaro La Grua, tutto incentrato sulla vita avvocatesca, ho affondato, come si dice, il coltello nella piaga, e sinceramente mi aspettavo critiche da parte dei colleghi risentiti per aver messo in evidenza la vita reale dell’avvocato, al di là di ogni edulcorazione retorica, invece è stato un successo, proprio tra gli avvocati, che l’hanno letto come rito liberatorio da tutti i falsi luoghi comuni sulla figura dell’avvocato che ci portiamo addosso… Ho ricevuto messaggi gratificanti del tipo ‘grazie per averlo scritto’ ‘hai avuto il coraggio di scrivere quello che nessuno ha mai osato’ ‘ hai fatto bene a descrivere la vita di emme che facciamo’, un collega addirittura mi disse che dopo averlo letto è entrato in crisi e voleva smettere di fare l’avvocato.

 

Cosa fai nel tempo libero?

 

Leggo, scrivo…e quando mi è possibile faccio il contadino, curo l’orto, i pomodori, le cipolle, le zucchine…Ho una campagna munita di orto e biblioteca, due luoghi dove è possibile passare dall’uno all’altro senza soluzione di continuità.

 

In che senso?

 

Nel senso che posso uscire dalla biblioteca ed entrare nell’orto senza interrompere la riflessione su quello che ho letto, anzi curare l’orto aiuta a pensare, che significa ti prepara a entrare nella biblioteca… E poi il contatto con la terra è salutare, lo star bene è uno dei buoni frutti che ci dà la terra se le stiamo vicini con amore.

 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

 

Un romanzo storico sulla strage di Canicattì, avvenuta il 21 dicembre 1947, durante uno sciopero, e nella quale rimasero uccisi sulla piazza tre braccianti e un carabiniere. Il mio amico, lo storico Salvatore Vaiana le ha dedicato un saggio, pubblicato nel volume a più mani La Sicilia delle Strage curato da Giuseppe Carlo Marino. Con lui ne parlo spesso, perché a tutt’oggi rimane un evento pieno di zone d’ombra, e poiché, parafrasando Umberto Eco, di tutto ciò che non si può dire bisogna narrare, il romanzo mi pare la forma più idonea per rievocare l’evento nel modo più esauriente possibile.

 

Pubblicato su: http://ripost.it/2025/08/10/ritratti-scrittori-del-nostro-tempo-maurizio-piscopo-incontra-diego-guadagnino/

 

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