Salvatore Vaiana, COME OGGI, C’ERA ‘NA VOTA… A REGALPETRA



Recensione del romanzo 
Il passaggio del testimone di Silvano Messina













Il passaggio del testimone (2023) è l’ultima pubblicazione editoriale di Silvano Messina, prolifico autore di romanzi, racconti e saggi. «Romanzo storico» è il sottotitolo del libro, che ne indica il genere letterario ma riflette anche la cifra letteraria dell’autore avendo scritto, fin dal suo esordio, romanzi storici: L’ultima Matriarca (2012), «uno scorcio di vissuto e di costume nella Sicilia del Novecento», e Accadde all’alba. Nella Sicilia feudale del Seicento primi cenni di modernità (2017), su vicende che hanno come epicentro i Del Carretto, signori di Racalmuto. Questi tre romanzi, assieme ad Antichi mestieri (2020), una raccolta di racconti che valorizza le tradizioni popolari, sono da considerarsi un meritevole contributo locale a un auspicabile movimento culturale alternativo finalizzato a valorizzazione e diffondere le memorie e le identità comunitarie, le quali, lungi dall’essere muri alla fratellanza umana, costituiscono un argine ad una contemporaneità sempre più smemorata e smemorante, tendente a negare valore al passato per affermare un presente e prospettare un futuro guidati da una élite tecnocratica che ha la necessità di fondarsi, per un suo totale dominio, su un’omologante cultura globale di segno occidentale. 

La critica alla nostra contemporaneità traspare in tre diverse opere di Messina: Cronache della Deriva (2015), un saggio breve seguito da sette racconti in cui si evidenziano da un lato la crisi economica, con i suoi devastanti effetti sui ceti medi e popolari, e la caduta dei valori morali, e dall’altro la necessità di una «ricerca dello spirito» come via di uscita individuale dall’imperante decadenza; L’ultimo canto del cigno (2017), un lungo saggio sulla crisi e «il destino della civiltà e della cultura occidentale»; e Affinità negate (2020), un romanzo su tematiche attuali come la crisi d’identità  di genere, l’emancipazione della donna, la crisi della famiglia.

Ne Il passaggio del testimone si racconta che in un tempo lontano dall’attuale ma per certi vizi umani assai vicino, in un paese della Sicilia, la Regalpetra di Leonardo Sciascia, vivevano due famiglie antagoniste di ricchi proprietari: i baroni Tulumello (Giuseppe Saverio, monarchico borbonico; il nipote Giuseppe e il sindaco Luigi, entrambi liberal-conservatori nell’Italia dei Savoia), e i borghesi Matrona (il dottore Pietro, sindaco borbonico, e il figlio avvocato Gaspare, sindaco liberal-progressista e massone, benemerito per la realizzazione di alcune opere pubbliche nella Regalpetra post unitaria). 

Esse, a capo di due belligeranti partiti municipali, si contesero per un secolo il potere politico-amministrativo e quello economico del paese, incuranti della condizione di variegata miseria della maggior parte dei loro concittadini, sui quali esercitavano una quotidiana violenza fisica e psicologica nei luoghi di lavoro e nei rapporti sociali:

 

«[1807] - Dal suo palazzo [Pietro Matrona] scese alla adiacente piazza principale del paese […]. Sul sagrato di questa [Chiesa Madre] stavano distesi parecchi mendicanti mal messi nel fisico e nel vestiario. Alla vista del giovane, chi aveva ancora le forze, gli si avvicinò chiedendo l’elemosina in tono lamentoso o aggrappandosi alla redingote. […] Per liberarsi completamente dalla ressa, estrasse dalla scarsella alcune monete e le lanciò nel gruppo […]. Ricomposti gli abiti, il giovane riprese la marcia lungo il corso tra ali di folla che l’omaggiavano scappellandosi e inchinando il capo al suo passaggio. […] Giunto a uno slargo che chiamavano la piazzetta trovò un’altra resistenza da parte di miserabili che chiedevano lavoro. Il pomeriggio era il momento in cui la piazzetta […] si riempiva di braccianti e minatori nella speranza che un campiere, un mezzadro o un picconiere li ingaggiasse anche per qualche giorno onde avere la possibilità di sfamare i propri familiari. […] “Via! Via! Lasciate passare voscenza lu dutturi” sollecitavano le guardie della contea e i campieri dello stesso Matrona.» 

 

Nella contesa le due consorterie si avvalsero di tutti i mezzi a loro disposizione, legali e illegali, compreso il brigantaggio (utilizzato o combattuto a seconda delle convenienze) e la mafia; contesa che si svolse precipuamente nell’agone locale, sebbene abbia avuto espansioni anche nell’hinterland (la Canicattì di Salvatore Gangitano, parlamentare della destra storica e referente politico dei Tulumello, la Favara della bassa mafia, la Grotte dell’ascesa del socialismo), e fu emblematica della Sicilia Ottocentesca: 

 

«[1907] - La gestione [del patrimonio di famiglia] di Arcangelo Tulumello fu del tutto simile a quella del fratello con la differenza che Luigi sfruttava l’azione del malandrinaggio, mentre Arcangelo ne era vittima.

Il protagonismo della consorteria malavitosa progrediva nella sua affermazione nel territorio e in tutta l’isola. Abbiamo sottolineato come quella cricca costituisse il braccio militare delle rivoluzioni in Sicilia [1820, 1848, 1860] e come avesse contribuito alla caduta della destra storica [1876]. Mentre inizialmente il braccio armato era rivolto contro lo stato borbonico e sabaudo, successivamente veniva utilizzato per soffocare le rivendicazioni degli strati sociali umili e sofferenti. L’esempio più lampante fu l’utilizzo delle Compagnie D’armi, formati da gabelloti e campieri, contro le rivolte dei Fasci [dei Lavoratori (1892-94), a Racalmuto guidati dal socialista avv. Vincenzo Vella], messi in campo da Francesco Crispi. Quello fu il preludio per l’utilizzo stragistico della mafia fino ai nostri tempi.» 

 

Lo scontro si concluse con la sconfitta di entrambe le famiglie e con il passaggio del potere economico e politico-amministrativo a oscuri soggetti noti al barone Luigi Tulumello, i quali, vittoriosi e arroganti, ne calpestarono la (macchiata) dignità:

 

«[1910] - Don Alfonso [Conte, già «picciotto fidato» del barone Luigi] […] aprì un varco tra la folla che lo osannava per fare procedere verso di lui un personaggio – del quale si era accorto – che si era staccato dalla corte dei “Don” per raggiungerlo. Era il commendatore Bartolotta [un tempo abigeatario, poi passato al servizio dei Tulumello], che neanche lui portava il cilindro, ma la bombetta. L’ex pupillo del barone si faceva spazio anch’egli tra la folla per raggiungere don Alfonso. […] Il barone, attratto dal rumore della folla, si fermò e si girò verso Alfonso Conte, giusto per vedere lo scambio del saluto con il Bartolotta. Alfonso Conte, allontanandosi da questi che si ri-confuse tra i “Don”, per reimmergersi nel bagno di omaggi della folla, salì su uno dei contrafforti e se ne stava ritto, come un antico signore feudale.» 

 

L’autore racconta le intricate vicende adottando una tecnica narrativa che miscela sapientemente il vero storico (il luogo e il tempo narrativi, il contesto e i grandi eventi storici, i protagonisti principali della vicenda) con la verosimiglianza (cui appartengono i dialoghi e alcuni particolari episodi come due di quelli sopra riportati). Una tecnica che ci sembra avere uno scopo ben preciso: il coinvolgimento del lettore nella lettura, come analogamente avveniva un tempo nei cunti della nostra tradizione orale, quando l’ascoltatore tendeva l’orecchio interessato e la sua anima vibrava al suono della parola affabulante del contastorie. Un’affabulazione, quella attraverso la parola scritta del Messina, non fine a se stessa, ma con uno scopo ben preciso: suscitare nel lettore l’amore per la storia e farlo riflettere sui suoi insegnamenti. Il romanzo non a caso si chiude con l’espressione Sic transit gloria mundi con la quale l’autore vuol suggerire al lettore l’esemplarità della vicenda narrata: l’inutile affanno degli uomini di ogni tempo e condizione alla ricerca di effimera gloria e di potere di «passaggio».

In questo tempo in cui il potere delle élite mondialiste, occidentali e orientali (fra loro in conflitto), genera nuove e più subdole forme di schiavitù e la complementare tendenza al dominio del mondo di alcuni Stati genera guerre, ricordare l’esito vano della gloria e del potere significa indicare all’uomo i valori veri e universali: la fratellanza, la pace, i diritti umani e quelli della Natura che all’umanità dà la vita. Essi devono illuminare la ricerca spirituale per il cambiamento individuale e l’azione collettiva per la liberazione da ogni forma di servaggio, che sono il solo binario su cui può camminare l’evoluzione di un’umanità che, tutta e da sempre, deve lottare in questo universo terribile e misterioso. 

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