SALVATORE SULLI, Il prigioniero di Sotto il Monte

Michele Sulli nel 1943

Sotto il Monte in provincia di Bergamo evoca ai più il paese natale di Giovanni XXIII, il Papa buono. Ma per Michele Sulli, classe 1922, soldato del regio esercito durante l’ultima guerra ha significato qualcosa di più: il ricordo sempre vivo di quella comunità, di tutta quella brava gente che -a rischio dei propri beni e della propria vita-, dopo il fatidico 8 settembre del 1943, lo ha nascosto e protetto dai rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti. E di questo egli amava parlare: della guerra cui aveva partecipato in Francia prima e della deportazione in Germania in un campo di lavoro poi non ne parlava quasi mai e quando lo faceva era molto elusivo.

La sua storia riporta alla memoria anni molto difficili, spesso poco conosciuti dalle nuove generazioni; anni che hanno visto migliaia di giovani di allora costretti -loro malgrado- a vivere sulla propria pelle esperienze drammatiche che, quando non vi hanno trovato la morte, hanno segnato in maniera indelebile il resto della loro vita. 

Michele Sulli nasce a Prizzi nell’ottobre del 1922 da una famiglia piccolo borghese: il padre è un artigiano e poi impiegato del comune. Persa la madre in tenera età, morta giovanissima a Palermo nel 1926 per una grave malattia, con il fratellino di due anni più piccolo trascorrono, senza il suo insostituibile affetto, l’infanzia e l’adolescenza con una matrigna, anzi due per la verità, essendosi il padre -morta pure la seconda moglie- risposato per la terza volta. Dopo un periodo di apprendistato presso un fabbro trova lavoro come operaio specializzato in una grossa impresa che eseguiva i lavori per la costruzione di una diga a Prizzi. 

In piena guerra nel settembre del 1942 poco più che ventenne viene chiamato alle armi. E ha dovuto -col senno di poi- ritenersi pure fortunato perché la sua classe, quella del 1922, fu destinata alla campagna di Russia, da dove -com’è noto- pochi ritornarono vivi. Lui soldato di leva di quella classe invece fu giudicato rivedibile e perciò dovette rispondere alla chiamata alle armi dei militari arruolati con la leva dei nati nel 1923. 

Saluta familiari e amici e lascia la casa paterna di via S. Antonio a Prizzi il 10 settembre del 1942 non immaginando che vi avrebbe fatto ritorno dopo quasi tre lunghissimi anni e tante disavventure. 

Presentatosi al distretto militare di Palermo viene assegnato al 77^ Reggimento Fanteria “Lupi di Toscana” a Brescia dove giunge dopo due giorni di viaggio in treno. Con lui ci sono anche tre prizzesi tali Vallone Luciano Vallone Gaspare e Orlando Pietro che però perde di vista a Messina. Costoro poi arriveranno al reparto con un giorno di ritardo. A Brescia fatto l’addestramento nei primi di novembre di quel 1942 va in Liguria dove la (7^) Divisione “Lupi di Toscana”, che comprendeva il 77^ e il 78^ Reggimento di fanteria e il 30^ Reggimento di artiglieria, era impegnata già dal mese di agosto del 1942 in difesa delle coste: prima a Loano in provincia di Savona poi a Vallecrosia in provincia di Imperia dove rimane parte dell’inverno. Intorno al 10 di febbraio del 1943 transita al 78^ Reggimento e parte alla volta della Francia meridionale a Tolone e a Bandol nella Provenza, dichiarata zona di operazioni di guerra. Qui rimane fino al 17 marzo. Rientrato in Italia va prima al distaccamento del 78^ a Telgate nella bassa bergamasca e poi i primi di luglio a Bergamo. Ma non ha nemmeno il tempo di arrivare e riparte per Albavilla nella provincia di Como dove viene aggregato alla seconda Legione Universitaria. 

Questo primo periodo trascorso sotto le armi, se si esclude il soggiorno in zona di guerra nella Francia meridionale dove assistente a vari bombardamenti degli inglesi, non fu particolarmente duro, come traspare dalle lettere ai familiari e agli amici, anche se tali lettere possono essere state un po’ -come dire- edulcorate per non incorrere nella censura. In una di queste che porta la data del 10 maggio 1943 scritta da Telgate dice al fratello -che doveva pure lui essere chiamato sotto le armi- di “non avere paura perché sotto le armi si sta bene per tutte cose”. Nella stessa lettera spera (ingenuamente) che presto venga la vittoria finale cosi -scrive- almeno potrò venire con qualche 15 giorni di licenza. Non immaginava che il peggio doveva ancora arrivare.

Comunque finito il periodo di aggregazione durato poco più di un mese presso la seconda Legione Universitaria intorno al 10 agosto 1943 ritorna a Bergamo nella storica sede del suo Reggimento la caserma Montelungo allora Umberto I. Ed è proprio in quel di Bergamo che lo coglie l’armistizio l’8 settembre.

Per dirla con Renzo De Felice così come si era giunti all’armistizio la dissoluzione dell’esercito era quasi inevitabile. Stanca frustrata sfiduciata da tre anni di guerra, profondamente partecipe dello stato d’animo predominante nel paese, la massa dei soldati di stanza in Italia in particolare quelli dell’Esercito, vide nell’armistizio la realizzazione di ciò che si era atteso subito dal 25 luglio la fine della guerra e in ogni caso dei propri doveri e ancor più della propria condizione militare e pensò solo a evitare il rischio di dovere ancora combattere o di essere fatta prigioniera dai tedeschi. E così gettate le armi l’unico pensiero fu quello di procurarsi un abito civile per potere passare inosservati e raggiungere con qualsiasi mezzo i propri paesi d’origine, le proprie case. Pertanto nel giro di pochi giorni la gran maggioranza dell’esercito si trasformò in una massa di sbandati desiderosi solo di tornare a casa o -quelli originari del Sud- di trovare un rifugio e di attendere che l’arrivo degli anglo-americani permettesse anche a loro di ricongiungersi con i propri familiari. 

Anche Michele Sulli diventa uno sbandato. Il 9 settembre è ancora in caserma di guardia alla porta; il 10 però scappa. Vorrebbe tornare a casa a Prizzi ma è quasi impossibile bisogna mimetizzarsi attraversare il fronte e così pensa di nascondersi in attesa degli eventi.

E’ un momento di svolta nella sua esistenza, come in quella di tanti altri giovani soldati che hanno vissuto l’8 settembre come emerge dalla memorialistica. (Si veda Gabriella Gribaudi: Combattenti, sbandati prigionieri, Donzelli Editore 2016). Avviene un passaggio drammatico da soldato inquadrato nella disciplina militare nel breve volgere di pochi giorni diventa un giovanissimo ragazzo lontano dalla famiglia e dal suo habitat con non molta esperienza di vita sulle spalle che deve lottare per la sopravvivenza. Ma a differenza dei soldati settentrionali è più vulnerabile: non può contare su appoggi e sostegni in zona, non conosce il territorio ed il dialetto locale e perciò diventa molto più difficile vivere da sbandato.

Gli viene detto che a Bergamo abita una baronessa siciliana che potrebbe essergli di aiuto e così si reca a trovarla nella sua villa: la nobildonna gli offre dei soldi ma gli dice anche che non lo può ospitare, probabilmente per non compromettersi con i fascisti. Per sua fortuna all’uscita da quella residenza avviene un incontro che cambia radicalmente il corso degli eventi: un brav’uomo, Ettore Carissimi, si offre di aiutarlo e lo invita perciò a lasciare Bergamo e a proseguire con lui per Sotto il Monte. Ed è così che a piedi Michele Sulli giunge per la prima volta nel paese che doveva segnare in maniera profonda e durevole tutta la sua vita. 

Trascorsa una settimana presso la famiglia Carissimi trova poi ospitalità e lavoro presso la famiglia di Fortunato Galbusera. Qui dà un aiuto nei campi ricevendone vitto e alloggio e qualche soldo.

Ma la situazione nel febbraio del 1944 comincia a farsi difficile. L’R.S.I. dava la caccia a tutti i renitenti alla leva del nuovo esercito che si voleva formare, ai disertori ed alle migliaia di sbandati. I bandi del maresciallo Graziano comminavano la pena di morte ai trasgressori. Con dei manifesti si minacciavano poi dure ritorsioni, quali l’arresto e l’incendio della casa, nei confronti di coloro che favorivano la “latitanza” di tutti questi soldati “fuori legge”. Ciò nonostante Michele Sulli non vuole aderire alla Repubblica sociale e quando sono chiamate le classi dal 18 al 25 non si presenta. 

In questo clima la famiglia Galbusera era naturale che fosse molto preoccupata e per evitare di sottoporre i suoi componenti  a dei rischi il 12 marzo 1944 dopo circa sei mesi di permanenza decide di andare via. 

Di lì a poco camminando per le campagne si imbatte nella cascina della famiglia Locatelli in località Carvico per Sotto il Monte dove fortunatamente riesce a trovare rifugio. Quivi con Giacomo Locatelli, capofamiglia, convivevano le figlie Eva e Vittoria e le nuore, mogli dei due figli che erano in guerrain Russia. Anche qui comincia a dare una mano nel lavoro dei campi unico sostentamento di quella famiglia. Viene accolto come fosse un componente della famiglia forse perché quasi inconsciamente rivedevano in lui, povero soldato senza niente e lontano dai suoi cari, il fratello il figlio che poteva darsi non avrebbero mai più rivisto e riabbracciato. In cuor loro si auguravano che un eguale trattamento sarebbe stato riservato ai loro congiunti.

Con quella famiglia dove rimase per nove mesi si instaurò un fortissimo legame. In una lettera del 1948 la sig.ra Eva Locatelli  scrive “Michele parliamo ancora tante volte di te del rispetto e della bontà che hai usato con noi ….e di come eri un bravo lavoratore”. Queste brevi parole descrivono più di qualsiasi altra cosa il sentimento di affetto e di stima che si instaurò in quei mesi e che non cessò se non con la morte dei protagonisti.

Durante tutto questo periodo di permanenza a Sotto il Monte le comunicazioni con la famiglia a Prizzi non erano  facili c’era il rischio che la corrispondenza venisse intercettata dai servizi di censura della R.S.I. e si venisse scoperti. Grazie al parroco di Sotto il Monte che, facendo giungere -attraverso il Vaticano- all’arciprete di Prizzi le lettere,  Michele poteva dare- almeno fino ad un certo periodo- sue notizie al padre. Vi è una lettera da Sotto il Monte che porta la data del 19/12/1943 scritta di suo pugno ma firmata Giuseppina come se a scrivere fosse una fantomatica cugina del padre. 

Certamente per una delazione i fascisti vengono a sapere che Michele Sulli si nascondeva presso la famiglia Locatelli e cosi la guardia repubblicana la mattina del 28 dicembre 1944 circonda la cascina. Lui cerca invano di scappare ma viene catturato. Per non compromettere e danneggiare la famiglia dice ai fascisti che si trovava lì per caso per chiedere qualcosa da bere e che la signora Locatelli vedendo che era uno sbandato gli aveva intimato in malo modo di andarsene. Naturalmente i repubblichini non credettero una parola. Portato in una caserma di Bergamo, dove viene anche maltrattato, gli viene chiesto se voleva aderire alla Repubblica Sociale e combattere nell’esercito, ed al netto e convinto rifiuto di arruolarsi viene consegnato ai tedeschi e deportato in Germania. Gli rimase il cruccio in testa -che si portò dietro per tutta la prigionia in Germania- che i fascisti avessero adottato qualche atto di ritorsione nei confronti della famiglia Locatelli per avergli dato rifugio.

Dopo un penoso viaggio arriva nella regione della Sassonia-Analth a Dessau in quella che dopo la guerra e fino alla caduta del muro nel 1989 fu la Germania Est, andando ad ingrossare le fila delle migliaia di internati militari che dopo l’8 settembre erano stati fatti prigionieri dai tedeschi. Quella degli internati militari italiani (IMI), ai quali non fu dai tedeschi riconosciuto lo status di prigionieri di guerra e perciò privati delle garanzie dettate dalla convenzione di Ginevra, rappresenta una delle pagine più buie e ignobili dell’ultimo conflitto per la spietatezza e la mancanza di umanità manifestata dai tedeschi nei confronti degli ex alleati che avevano “tradito” e che non avevano voluto abbracciare gli ideali del nazi-fascismo. I militari italiani considerati codardi e traditori vennero trattati malissimo rispetto a tutti gli altri prigionieri e solo i Russi -per l’atavico odio tedesco nei confronti degli slavi- erano trattati peggio.

Michele Sulli, matricola 1717, viene portato in un campo di lavoro ad Oranienbaun nelle vicinanze di Dessau e lavora in una fabbrica di gas per lanciafiamme, una delle tante industrie da cui i tedeschi, sfruttando la manodopera dei prigionieri, attingevano le materie necessarie alla devastante guerra che avevano causato in Europa e nel mondo.

Nel campo la maggior parte era  del Nord Italia in particolare della provincia di Reggio Emilia e vi era un solo siciliano. Egli ricordava le condizioni durissime, l’alimentazione insufficiente, l’assistenza e le cure mediche quasi inesistenti, le frequenti punizioni collettive come marciare per ore sotto la pioggia. Ricordava come il vestiario -essendo di inverno con temperature rigide- non fosse per niente adeguato e come per il forte freddo della notte le pareti delle baracche dove dormivano i prigionieri diventavano bianche per il gelo. Freddo, fame e stanchezza per l’estenuante lavoro con turni di 12 ore erano il tormento di questi sventurati che non potevano nemmeno lamentarsi e se stavano male erano costretti a tacere per paura di essere spostati in qualche posto peggiore. E poi un episodio che gli era sempre rimasto nella mente, un atto di perfidia dei tedeschi. Preceduto da un massiccio bombardamento nel mese di marzo da parte dei bombardieri della Royal Air Force ad aprile la zona di Dessau venne liberata dall’Armata Rossa. Ma prima che nel campo arrivassero i Russi un ufficiale tedesco pretese da lui che su un lenzuolo bianco dipingesse una croce rossa, lenzuolo che poi servì quale “salvacondotto” ad alcuni ufficiali per scappare da quell’inferno.

Anche il ritorno in patria dopo la liberazione è un altro doloroso capitolo. Ecco con quali significative parole in un articolo apparso nel maggio 1945 su un giornale settimanale viene descritto il viaggio di ritorno dei reduci: ”Tornano dall’inferno tedesco. Tornano a piedi, si aggrappano ai treni e agli autocarri, vanno a piccole tappe, mendicano, dormono come possono, marciano come sonnambuli verso il Brennero, verso Tarvisio verso i settemila comuni italiani [….]. Sono, fra soldati e operai un milione di uomini circa [….]. Un milione di braccia e di cervelli”.

Michele Sulli varca il Brennero e arriva in Italia a Bolzano il 12 giugno del 1945 si presenta al Comitato di Liberazione dell’Alto Adige centro accoglienza reduci e alla Croce Rossa per avere qualche aiuto. Ma prima di fare ritorno a casa,nella sua Sicilia dove giungerà intorno al 20 giugno 1945, non può fare a meno di recarsi a Sotto il Monte per accertarsi della sorte della famiglia che lo aveva ospitato. 

Intanto dall’autunno del 1944 la sua famiglia non aveva avuto più sue notizie. Finita la guerra, liberata l’Italia dal giogo nazi-fascista nell’aprile del 1945, il padre non aveva visto tornare ancora il figlio Michele. Intorno alla metà del mese di giugno scrive preoccupato alla famiglia Galbusera di Sotto il Monte e a un commilitone del figlio un certo Giancontieri di Mazara del Vallo che avrebbe potuto dargli delle notizie. Quest’ultimo gli risponde il 23 giugno e la lettera arriva a Prizzi il 27 giugno. Ma proprio in quei giorni Michele Sulli già aveva riabbracciato la famiglia. In essa scrive di avere conosciuto Michele nel marzo del 1944 quando con un altro siciliano di Mistretta tale Vincenzo Insinga suo amico e amico di Michele lo andarono a trovare a Cerro di Bottanuco, ad una decina di chilometri da Sotto il Monte, dove lui dimorava presso una famiglia; sempre in quell’occasione Michele gli consigliò di non rispondere alla chiamata alle armi della R.S.I. Scrive poi che sapeva che Michele era presso una famiglia a Sotto il Monte e che si erano visti per l’ultima volta il 26 dicembre e di avere  appreso che qualche giorno dopo “Michele lo avevano portato via i repubblichini” e che era stato deportato in Germania. 

Se questa lettera fosse arrivata qualche giorno prima avrebbe messo in ulteriore ambascia la famiglia nell’apprendere che Michele era stato arrestato e deportato in Germania e se ne rende conto lo stesso Giancontieri tant’è che per rincuorare il padre conclude la lettera dicendo di non stare in pensiero che tutti alla fine fanno ritorno a casa, che se anche non ha ricevuto notizie non deve pensare a male perchè anche la sua famiglia per due anni di lui non aveva avuto notizie tanto che lo credevano morto e poi all’improvviso se lo sono visto davanti. Ed è stato buon profeta perché mentre scriveva queste righe Michele era già ritornato a Prizzi.

Se Michele Sulli non ha mai dimenticato Sotto il Monte, il paese di lui si è ricordato quando nel 2000 l’Associazione combattenti e reduci di Sotto il Monte ed il comune hanno pubblicato un volume, curato da Angela Ravasio e da Maria Grazia Locatelli Garbarino, dal titolo emblematico “Per non dimenticare” con il quale hanno inteso “onorare, col ricordo, quanti loro concittadini hanno combattuto e sono caduti nel corso delle due guerre mondiali”. Oltre i caduti sono stati ricordati, attraverso notizie e documenti, anche i reduci e i combattenti e la loro esperienza in guerra; ed infine per dare uno squarcio della vita condotta a Sotto il Monte durante il periodo bellico il volume è arricchito dalle testimonianze di alcuni giovani di Sotto il Monte. E tra queste testimonianze vi è quella di Michele Sulli-considerato ormai figlio adottivo di quella terra- che racconta la sua permanenza a Sotto il Monte durante la seconda guerra mondiale. Testimonianza che alla lettura, in occasione della presentazione del libro, suscitò molta sincera commozione soprattutto tra i suoi coetanei combattenti ed ebbe anche risonanza in zona tanto che se ne occupò, riportandola, un settimanale che si pubblicava nella regione.

La storia che abbiamo cercato di raccontare ha avuto una lieta conclusione ma il nostro pensiero non può non andare a tutti quei giovani che a causa di questa inutile guerra non fecero più ritorno nelle loro case, a quanti combattendo il soldato tedesco e i suoi servi fascisti sacrificarono la loro vita per la libertà di tutti noi. Ad essi deve andare la nostra infinita gratitudine.

Prizzi giugno 2021

Salvatore Sulli

Michele Sulli con Eva e Vittoria Locatelli nella cascina di Carvico per Sotto il Monte nell'estate 1944.


Lettera del padre di Michele Sulli del giugno 1945 alla Sig.ra Galbusera con la quale chiede notizie del figlio.

Michele Sulli a sinistra con il fratellino Filippo in una foto del 1927

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