Nella foto: via Tommaso Rao,
angolo corso Garibaldi.
(tratta dal volume di Alfonso Tropia
"Memorie autobiografiche 1886-1954").
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La denominazione popolare di "vanedda di lu tafaru" è collegata ad una secolare usanza, tipica della società contadina. A fine giugno o ai primi di luglio giungevano a Canicattì da Favara i produttori di fichi selvatici che con il nome di "tafaru" erano venduti – appunto nell’attuale via Tenente Rao (angolo corso Garibaldi) - nella bottega del sensale Cimino (padre di Diego, poi monaco francescano col nome di padre Elia, divenuto Commissario di Terrasanta, Predicatore Provinciale e Guardiano).
I frutti del fico selvatico – detto "tafaru" o "ticchiara" o "caprifico" –venivano utilizzati per "caprificare" e cioè agevolare la fecondazione dei fiori del fico domestico; i frutti del fico selvatico venivano appesi ai rami della ficaia domestica perché i fichi domestici fossero fecondati e giungessero a maturazione. "La ticchiara fa la ficu", diceva uno dei venditori favaresi, “cumpari Taniddu”.
"Lu tafaru" veniva annunziato dal pubblico banditore anche dal piano del Castello perché tutti sentissero. Venivano i compratori, acquistavano con la misurazione mediante i “quartaroni”; le bisacce si svuotavano e i favaresi si rimettevano sui muli alla volta delle proprie case.
GAETANO AUGELLO
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