GIOVANNI TESE', San Paolo, apostolo dei migranti e dei rifugiati

Mentre nel mondo economicamente ricco “impazza” il dibattito sul “trattamento” da riservare a “immigrati” e “rifugiati politici”, l’insegnamento dell’Apostolo delle Genti, Paolo di Tarso, è più vivo che mai.
     Il 2009 è stato l’Anno Giubilare indetto da Sua Santità Benedetto XVI in onore dell’Apostolo Paolo, “migrante per vocazione”.
    
In ogni parte del mondo si sono organizzate manifestazioni, convegni, conferenze celebrative per ricordare il bimillenario della nascita del più grande missionario di ogni tempo.
     Anche sulla scottante e complessa problematica delle immigrazioni e dei rifugiati l’Apostolo Paolo, ancora oggi, offre non pochi spunti di riflessione.
     Se un giorno si dovesse scegliere un Santo Patrono dei “Migranti e Rifugiati” del mondo, sono certo che Paolo troverebbe unanimità di consensi.
     L’Apostolo delle Genti conobbe il dramma dell’emigrazione sin da piccolo.
     I genitori di Paolo, infatti, ebrei della diaspora di osservanza farisea e fedeli alle loro tradizioni religiose, a causa delle persecuzioni subite, furono costretti a lasciare la loro terra ed emigrare a Tarso, allora città romana e capitale della Cilicia, dove Paolo nacque verosimilmente intorno all’anno otto o nove dopo Cristo.
     Paolo di Tarso, anche se cittadino romano per nascita, fu educato ed istruito dai genitori nell’osservanza della legge mosaica.
    Egli crebbe, però, in una città “cosmopolita” dove ebbe l’opportunità di conoscere oltre all’aramaico ed all’ebraico la cultura ellenistica e contestualmente la cultura romana, acquisendo così una mentalità ed un pensiero “aperto” ed “universale” sia dal punto di vista religioso che culturale.
     Dopo lo studio della Torah, “incontrò” Gesù sulla via di Damasco e da quel momento, abbandonando il ruolo di persecutore, con coraggio ed intelligenza, dedicò la sua vita per annunciare ai popoli il Vangelo del Cristo morto e risorto per la “giustificazione” degli uomini.
     Paolo, uomo inquieto, tra mille peripezie e difficoltà di ogni genere – veglie, digiuni, freddo, naufragi, prigionie, persecuzioni, flagellazioni e torture – in meno di trent’anni percorse, nei suoi quattro viaggi, oltre sedici mila chilometri.
     Chi meglio dell’Apostolo “migrante” ha potuto conoscere quindi la disperazione ed i drammi di chi è costretto, per fame o perché perseguitato, ad abbandonare la propria terra?
     Chi meglio dell’Apostolo “missionario”  ha potuto conoscere  le umiliazioni e le vessazioni subite non di rado nelle terre di approdo?
     Amore senza limiti, Carità, Fede in Cristo Gesù, Accoglienza e Solidarietà furono le parole chiave della predicazione dell’Apostolo “nomade dell’Amore e della Carità”.
     Libertà dalle catene della miseria e dalla schiavitù di ogni genere fu la “rivoluzione” posta in essere dal  “genio paolino”.
      Gli scritti e le parole di Paolo risultano di una sorprendente attualità e nel contempo suonano come forte ammonimento per noi tutti.
     Paolo nella lettera ai Romani, capitolo 12,  scrive tra l’altro: «… Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto […] Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato […]Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia […] La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; […] Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda […]siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera […] solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità […] rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto […] non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini».
     Ed ancora, l’Apostolo dell’Agàpe e della Chàris, dalla prigionia romana scrive a Filemone, ricco proprietario convertitosi al cristianesimo, perché riaccolga nella sua casa il suo antico schiavo Onèsimo di Colosse  “come fratello carissimo”  e “come se stesso”.
     Da quel momento il rapporto tra padrone e schiavo ha subito una trasformazione profonda e radicale: lo schiavo non è più una “cosa”; “È UN FRATELLO”.
     Anche in questo l’Apostolo della “Libertà” può ben essere considerato un “Grande Rivoluzionario”.
     San Paolo, quindi, è l’uomo del dialogo e dell’incontro, il missionario, il migrante, il rifugiato ed ancora oggi dopo duemila anni non lascia e non può lasciare indifferenti; non favorisce la tranquillità delle coscienze; stimola inquietudine e scuote l’animo di chi lo conosce.
     Amici e detrattori, credenti e non credenti, donne e uomini, anziani e giovani non possono non lasciarsi scuotere dalle Sue parole, prime fra tutte: Amore e  Carità.
     Proprio in questo inizio di terzo millennio in cui una crisi globale che prima ancora di essere economica e finanziaria è crisi che pervade soprattutto la coscienza dell’uomo, la “Voce” e le “Parole” di Paolo richiamano alla responsabilità che ciascuno di noi deve avere verso l’Altro.
     Proprio in un periodo storico contrassegnato da una crisi materiale e morale di portata globale e in cui una diffusa tendenza al nichilismo, al relativismo, alla deresponsabilizzazione e all’indifferentismo caratterizza il nostro vivere quotidiano, l’esperienza, il messaggio e la testimonianza di Paolo, oltre ad essere fortemente attuali possono rappresentare il “faro” per orientarsi di fronte alle poderose sfide che la storia pone all’umanità. Prima fra tutte la triste piaga dell’emigrazione coatta e dell’immigrazione generata dalle guerre, dalle carestie, dalle pestilenze, dalla fame, dalla miseria e dal cinismo di uomini senza scrupoli e senza morale.
     Non vi può essere dubbio alcuno che l’immigrazione rappresenta uno dei fenomeni più rilevanti della società di oggi e del futuro e che “per amore” o per “timore” la società ricca ed opulenta non può sfuggire all’inevitabile confronto.
     Nel suo discorso d’insediamento alla Presidenza degli Stati Uniti d’America, il 20 gennaio 1961, J. F. Kennedy ebbe a dire testualmente: « “… Se una società libera non riesce ad aiutare i molti che sono poveri, non riuscirà a salvare i pochi che sono ricchi …».
     Nel mondo, secondo uno degli ultimi rapporti annuali dell’UNICEF sulla condizione dell’infanzia nel pianeta, si rileva che ogni giorno ben ventiseimila bambini con meno di cinque anni muoiono per cause del tutto evitabili come malattie infettive e fame:  vale a dire che ogni minuto muoiono venti bambini: uno ogni tre secondi. Cifre da olocausto da far rabbrividire finanche gli aguzzini di Auschwitz.
      In un periodo in cui il mondo si è fatto più complesso e più interdipendente, in cui le potenze della scienza e della tecnica possono mettere a rischio in un solo istante la sopravvivenza della stessa umanità, in cui i confini tradizionali non hanno più la funzione di garantire spazi sociali esclusivi e in un tempo in cui mondializzazione e globalizzazione caratterizzano il nostro vivere quotidiano non possiamo continuare ad usare categorie politiche egoistiche e miopi, tipiche dell’ormai lontanissimo secolo scorso ed ormai inadeguate rispetto ai problemi ed ai dilemmi globali che ci attendono.
      Non si può più far finta di nulla; non si possono più ignorare i diritti fondamentali ed universalmente condivisi delle persone umane; non si può continuare ad ignorare il volto dell’Altro; non si può più continuare ad ignorare la “dignità offesa” dello straniero, dell’orfano, della vedova, dell’escluso, del povero, dei “sans-papiers”.  Non si può continuare parimenti ad essere ipocriti e “cattivi samaritani” così come lo sono molti paesi ricchi ed opulenti del mondo che nei confronti di una moltitudine di affamati e di esclusi proclamano elargizioni di “aiuti economici” di ogni genere e  fingono, in mala fede, di ignorare che ad averli affamati e sfruttati sono proprio loro, la loro politica e i loro interessi.
     Eppure oggi più che mai, assistiamo tra le tante nefandezze ad un’accanita e veemente ostilità nei confronti dei migranti di ogni e qualsiasi cultura o etnia, nei confronti di disperati che tentano di fuggire dall’inferno della miseria e della schiavitù in cerca di una qualsivoglia forma di sopravvivenza.
      Assistiamo sbigottiti, come se le esperienze del passato non fossero servite a nulla,  ad una recrudescenza razzista che caratterizza ormai il dibattito politico, giuridico, culturale e sociale in tante parti del mondo più ricco e fortunato.
     Anche nel nostro Paese ove, tra regolari ed irregolari, gli stranieri portatori di specifiche identità etniche o religiose sono circa cinquemilioni, in questi ultimi tempi il dibattito sui migranti sta diventando insostenibile e talvolta delirante.
     Se da un canto è vero che occorrono regole certe di convivenza civile e sociale dall’altro canto non può essere accettabile certo “cinismo” perpetrato in danno di essere umani colpevoli solo di essere nati in terre dove regna miseria, carestia, fame e  guerre spesso subite e non certamente volute. Quegli esseri umani sono solo colpevoli, con le ormai note “carrette del mare”, di lasciare l’inferno delle loro terre per cercare un minimo spiraglio di sopravvivenza anche al limite di ogni dignità.
     Meraviglia non poco come tanti nostri politici e connazionali abbiano dimenticato che l’Italia multietnica e multiculturale esiste già “di fatto” ed è “un valore” come ha ricordato recentemente il segretario generale della Cei monsignor Mariano Crociata.
     Meraviglia non poco come tanti politici e connazionali abbiano dimenticato che il nostro Paese è stato ed è purtroppo ancora oggi  terra di emigrazione.
     Non possiamo dimenticare facilmente che milioni di Italiani, migliaia di Siciliani, hanno lasciato in massa i loro paesi di origine, le loro famiglie, gli affetti più cari, per dirigersi verso ogni parte del mondo alla ricerca di lavoro, per migliorare le proprie condizioni economiche, per potere offrire un futuro migliore ai propri figli o per trovare una ragione di vita migliore e ciò a fronte di immani sacrifici e vessazioni di ogni genere.
     Non possiamo quindi non evidenziare anche in questa sede che quanto accadeva allora ai nostri avi, accade oggi, nel terzo millennio, agli immigrati, a tanti esseri umani, specie di colore, del così detto “Terzo Mondo” costretti ad emigrare per sopravvivere ed ancor più grave  vittime di veri e propri racket che organizzano una “tratta delle braccia” assolutamente abominevole.
     Al di là di ogni disquisizione culturale, politica o giuridica vi è un aspetto del problema che va oltre la politica e le polemiche che ne conseguono: è quello umanitario.
     Occorre eliminare i pregiudizi e considerare gli immigrati anzitutto come persone che vivono nella miseria, persone che soffrono, persone che hanno visto morire di fame e di stenti i loro figlioletti, i loro genitori, le loro mogli, i loro mariti, gli affetti più cari.
     Si tratta, quindi, non di trovare ipocrite soluzione di come “respingerli” , bensì di cercare ordinate ed organiche soluzione di “accoglienza fraterna” senza con ciò favorire “accoglienze” “sregolate e disordinate”.
      Lampedusa, Malta ed ora Creta, ultima rotta per il momento, rappresentano le terre della speranza per migliaia e migliaia di esseri umani provenienti da ogni parte dell’Africa.
     L’Arcivescovo di Malta, Mons. Paul Cremona, rivolgendosi alla comunità cattolica dell’isola, in una recente intervista ha detto in modo chiaro ed inequivocabile: «Bisogna accogliere i migranti come si accolse il naufrago Paolo […] Così come deve essere accolta ogni persona che ha bisogno di aiuto».
   Ed ancora Mons. Cremona nella lettera pastorale letta durante la celebrazione eucaristica del 28 giugno 2008 con la quale ha aperto ufficialmente le celebrazioni dell’anno paolino sull’isola di Malta, rievocando il naufragio della barca dell’Apostolo Paolo nelle vicinanze della costa maltese, ha scritto: « La sua sventura si è trasformata per noi in grazia, il suo naufragio ha avuto l’effetto provvidenziale di farci giungere fin dai primi tempi del cristianesimo  la buona novella del Vangelo. Per questo consideriamo il naufragio dell’Apostolo una benedizione […]i maltesi accogliendo l’Apostolo Paolo naufrago, mostrarono un senso forte di “apertura” verso il “diverso”, verso lo “straniero”. Un sentimento che deve essere conservato e praticato anche nell’attuale momento storico segnato dalle grandi migrazioni di massa: un fenomeno che a Malta, situata nel centro del Mediterraneo si manifesta in modo particolare essendo teatro di sbarchi di stranieri irregolari provenienti dall’Africa».
     Credo che ciò che ha scritto Mons. Cremona per i maltesi possa essere valido anche per Lampedusa, per Creta e per ogni angolo della terra.
     L’Arcivescovo di Agrigento S.E. Monsignor Francesco Montenegro in più occasioni ha detto: “In Europa, come in Italia ed in ogni parte del mondo, gli immigrati non possono e non devono essere considerati come una ruota di scorta da utilizzare solo per far fronte ai bisogni dell’economia. Occorre favorire l’acquisizione della cittadinanza e promuovere concrete politiche per l’integrazione…”
     Ecco allora che l’esperienza, la testimonianza e le parole di Paolo: Amore, Carità, Accoglienza e Solidarietà possono e devono rappresentare la “Stella Polare” per  una nuova politica capace di ritrovare nello spazio senza confini della mondializzazione e della globalizzazione, la vera rotta da seguire per avviare un vero e proficuo dialogo interreligioso ed interculturale a livello planetario.
     Occorre adoperarsi con il massimo sforzo e per tutto il tempo che sarà necessario  per riconoscere  ad ogni essere umano quella cittadinanza nazionale ed universale per potere esercitare pienamente tutti i diritti di partecipazione alle scelte politiche, legislative ed economiche e nel contempo per garantire ad ogni persona umana di qualunque età, sesso o fede religiosa ed in qualunque posto della terra si trovi,  un’esistenza libera e dignitosa.
     La multiculturalità  deve divenire interculturalità,  la prossimità  deve divenire fratellanza, deve superare la dimensione geografica di fronte ai grandi movimenti migratori e deve divenire globale.
     In quest’ottica San Paolo non solo è sorprendentemente attuale ma rappresenta un forte riferimento in grado di orientare e trasformare l’intera umanità per costruire una nuova civiltà dell’amore e un mondo più giusto, solidale ed in pace.
    Per tutto ciò occorre, però, che ciascuno di noi accolga “l’Altro” con “vero cuore fraterno” così come ci ha insegnato Paolo, l’Apostolo dei “Migranti” e dei “Rifugiati”.

Naro, 18/19 maggio 2009

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