GONZALO ALVAREZ, Le incerte del nostro tempo

Il secolo ventesimo si chiude con più interrogativi che certezze. Se il secolo diciannovesimo si chiudeva con un sentimento universale di ottimismo, oggi prevale il pessimismo.

Cent'anni fa la fede nel Progresso era talmente radicata nelle popolazioni da non lasciare spazio a dubbi sul destino luminoso del mondo.

Quando gli uomini dell'Ottocento parlavano di Progresso sapevano bene quel che intendevano dire. Credevano fermamente nel' inarrestabile marcia dell'intera umanità verso il benessere, la pace, la giustizia, la libertà. Ricordavano che i loro padri avevano assistito alla "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo".

Oggi è diverso. Dopo l'uragano di ottimismo che negli anni Ottanta travolse le nostre abitudini culturali e sociali, le idee rimaste in piedi sono poche e molto confuse. Pronunciamo spesso anche noi la parola Progresso, naturalmente, ma non sappiamo più che significato attribuirle. Per Blair, ad esempio, significa il trionfo della "Società di Mercato". Per i semi occupati di Liverpool, invece, il Progresso auspicato da Blair significa soltanto precarietà di lavoro, incertezza perenne, fine dei diritti acquisiti e, di conseguenza, infelicità, vita poco degna di essere vissuta.

Alcuni concetti che nel passato erano stati il punto di riferimento sicuro per il pensiero e la vita delle nazioni e degli individui, sono diventati improvvisamente fluidi.

Nel secolo scorso, per esempio, dire Stato non era soltanto fare una romantica allusione alla bandiera nazionale e alla sacralità delle frontiere. Significava "patria certa", "potere indiscutibile delle Istituzioni sulla cittadinanza", ma anche "garanzia, forse illusoria, di sicurezza e di giustizia sociale". Il concetto di Stato si ergeva su una solida base di "sovranità" ben definite in materia di economia, di legislazione, di sicurezza, ecc. ecc., mentre oggi queste e altre "sovranità nazionali" sono diventate evanescenti.

Malgrado l'euforica proliferazione di nuovi Stati (nel 1923 c'erano nella vecchia Europa soltanto 23 nazioni, mentre nel 1998 ci sono ben 5O) assistiamo allo svuotamento di contenuti della vecchia idea di Nazione. I sentimenti delle popolazioni nei confronti dello Stato sono mutati.

L'evaporazione della consistenza dello Stato, è anche la conseguenza della sfiducia dei cittadini nelle Istituzioni Centrali. Dal Quebec alla Scozia; dalla Catalogna e i paesi Baschi al Kosovo, alla Cecenia o all'isola di Timor, questa sfiducia produce spinte centrifughe che sospingono le popolazioni alla ricerca di una patria più piccola, più ricca, più esclusiva. Se questa tendenza centrifuga non si arresterà arriveremo al paradosso di reclamare la nascita di "Stati personalizzati", a misura di individuo.

Nel secolo scorso erano in pochi a prendersela con lo Stato: gli anarchici, che lo accusavano di essere "oppressivo" e alcuni liberali che lo incolpavano di essere sprecone e poco efficiente.

Negli ultimi tempi, invece, l'atteggiamento irriverente si è generalizzato. Vasti strati di popolazione, la cui mentalità pigra e tradizionalista non si era mai permessa di metterne in dubbio la dignità statale, oggi sono  disposti a buttare lo Stato nella discarica dei rifiuti, tacciandolo di essere diventato una zavorra inutile, una struttura invecchiata, incapace di adempiere alle funzioni per cui era nato.

Sotto molti punti di vista non manca loro ragione. La nascita di nuove aree macro politiche, come l'Unione Europea e il "processo di globalizzazione dei mercati", hanno ridotto ai minimi termini il ruolo degli stati tradizionali. La costituzione della Banca Europea e la nascita della moneta unica hanno ridimensionato la politica monetaria dei singoli Stati. Il rafforzamento della NATO ha diminuito la loro sovranità militare. L 'invadenza degli organismi Finanziari e Commerciali internazionali hanno azzerato, o quasi, la capacità dei singoli governi di gestire la propria economia.

La stessa gestione della Cultura e della Scienza ha smesso di essere appannaggio dello Stato per diventare compito delle grandi aziende private, soprattutto di quelle che operano nei settori dell'Informatica e delle comunicazioni. Corrono voci secondo le quali queste "Grandi Aziende" sarebbero in grado di mettere sul mercato certe forme nuove di Politica che consentirebbero di governare il mondo senza bisogno degli Stati. Internet sarebbe solo l'inizio di una sorta di Stato Universale o "Supermarket globale", dove è possibile già oggi realizzare degli scambi commerciali, sociali e culturali senza l'interferenza delle istituzioni tradizionali.

Sono trascorsi poco più di cinquant'anni da quando l'Europa era percorsa da bufere stataliste che si esprimevano in slogan come quelli fascisti:Tutto per lo Stato, niente contro lo Stato". "Tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato".

In meno di mezzo secolo la situazione si è capovolta. Siamo passati dal culto pagano al disprezzo. Dal convincimento che "lo Stato è tutto" alla certezza che è peggio di niente.

Senza rendersi conto l'irrequieto e ubbidiente gregge umano ha abbandonato la patria tradizionale e si è trasferito nel Villaggio Globale.

Al posto dello Stato è subentrata la "Società di Mercato", nella quale a noi non spetta più il ruolo di "cittadini", ciascuno con il suo bagaglio di diritti e doveri intrasferibili, ma quello molto più moderno di semplici "unità produttive".

Lo Stato Universale Unico ha cominciato a esercitare su tutto e su tutti il suo potere severissimo, quasi tirannico, senza bisogno di Parlamenti o Capitali, senza ostentare bandiere. La sua Capitale è l'Etere. Dall'Etere impartisce ordini alle quali nessuno può sottrarsi. 

La nostra vita politica con i suoi schieramenti a destra, a sinistra e al centro è fatta di vuoti nominalismi. Perché, dunque, prestare la nostra inutile adesione a un'entità vaga, obsoleta? Per quale motivo seguitare a sostenere governi che non sono in grado di governare alcunché?

I bizzarri duelli verbali tra maggioranza e opposizione sembrano una commedia buffa, poiché ne l'una ne l'altra hanno voce in capitolo. Ai parlamentari di tutto il mondo è rimasto quasi esclusivamente il solo compito di assicurarsi un'occupazione redditizia in un momento di disoccupazione dilagante.

Nel linguaggio politico più impegnato la parola "progresso" ha cessato di tradurre la nostra aspirazione alla libertà, alla dignità della vita e alla giustizia sociale". I grandi leader europei, certi che questi siano concetti ormai antiquati, non più alla moda, li hanno sostituiti con due parole americane molto più moderne: "Welfare State".

Blair e Schroeder sono convinti che la "Modernità" auspicata nel loro famoso documento "La Terza Via" è l'espressione più perfetta della Democrazia finora raggiunta dall' umanità, ma la gente crede, invece, che sia soltanto il tentativo di trasformare lo Stato in un grande supermercato dove tutto si compra e si vende, spesso servendosi di bilance truccate.

A proposito del progetto politico di Blair e Schroeder, il noto opinionista Ralf Dahrendorf fa notare che in esso non si parla di "libertà" e che presenta, invece, aspetti "curiosamente autoritari".

La cosa è sorprendente; soprattutto se si tiene conto che il documento è stato concepito, o per lo meno firmato, dai due più noti dirigenti della Socialdemocrazia e della sinistra europea.

Ralf Dahrendorf si domanda se "il curioso silenzio sulla vecchia, antica libertà, valore fondamentale di una vita degna di essere vissuta, non finirà involontariamente per fare di quest'episodio politico (il Manifesto anglo-tedesco, n.d.r.) un ulteriore elemento al servizio di uno sviluppo pericoloso".

Nel documento anglo-tedesco si dà per scontato che "i diritti fondamentali dell'uomo, di cui tanto orgoglioso andava l'Ottocento, sono ormai acqua passata; l'individuo umano non può avanzare alcun diritto al lavoro. L'unica cosa che gli è consentita è dimostrare la sua "capacità di lavorare", la sua "competitività".

L'uomo è soltanto un oggetto che, quando non è più utilizzabile, ci si affretta a buttare nel bidone della spazzatura. L'elemento chiave della nuova economia e, quindi, del nuovo  Ordine Sociale è  il Capitale, sorgente e misura di ogni valore, sia esso materiale  che umano. La persona umana come soggetto di diritti e di doveri scompare. Resta l'individuo, ma soltanto come "unità produttiva", come "risorsa umana", come una delle tante "materie prime” che alimentano la catena della produttività. Se non è redditizio è come se non esistesse.

Escluso dal ciclo produttivo, l'individuo umano non ha altro valore che quello di una macchina guasta. Con in più lo svantaggio della non riciclabilità.

Sotto questo aspetto la "Terza Via" è molto più drastica delle antiche società schiaviste. Gli schiavi di un tempo erano sempre in qualche misura utili, almeno come specchio della vanità e dell'umanità delle famiglie dei padroni; e venivano curati e nutriti fino alla loro morte.  

Per gli ideologhi della Terza Via l'umanità del Duemila si dividerà in due sole classi: la globalclas, (gli IN, quelli che contano, i competitivi), e la underclas, (gliOFF, gli esclusi, gli scarti).

I disoccupati del Duemila non faranno parte della società civile.

Stiamo andando verso il Progresso o verso la Barbarie?

E' conciliabile il concetto di Democrazia con la Terza Via?

Stiamo andando verso "lo Stato Universale" delle regole dettate dal Signore dell'etere o verso l'atomizzazione degli stati, dove le regole scaturiscono dalla combattività e competitività di ciascun individuo?

Ecco gli interrogativi che si pone l'uomo del Novecento al momento di varcare la soglia del Duemila su una zattera di perplessità e di insicurezza.

Ecco perché, a dire degli esperti, undici milioni di persone, solo in Italia, lottano contro la depressione. Molti di loro non ce la fanno a resistere e finiscono col suicidarsi…


Gonzalo Alvarez Garcìa

(Pubblicato in “Cronache Parlamentari della Regione Siciliana” - 1998)

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