GONZALO ALVAREZ GARCIA, Josè Ortega Y Gasset sull’Unione Europea


José Ortega y Gasset, nato a Madrid nel 1883 e morto nel 1955, è un filosofo singolare. Non usa mai, come fanno spesso i filosofi, un linguaggio esoterico, iniziatico. Per esporre le sue idee si serve di una lingua limpida, diretta, immaginosa. Per la perfezione stilistica è, tra i filosofi di tutti i tempi, il più simile a Platone. Come Platone elabora metafore prodigiose e si esprime in una prosa mirabile.

Se non fosse stato un filosofo della Storia, forse il più originale del secolo XX, sarebbe passato ugualmente ai posteri come letterato esimio.

Scrisse molto, ma mai voluminosi trattati, come fecero Aristotele, Kant, Hegel o San Tommaso d’Acquino. Le sue opere complete riempiono una discreta biblioteca, ma sono prevalentemente scritti brevi, saggi.

Amava i periodici. I giornali, le riviste, le conferenze furono il veicolo preferito per dialogare con i suoi discepoli. Gran parte della sua opera apparve nella stampa periodica prima di venire raccolta in volume.

Non scrisse mai urbi et orbi. Considerava che parlare al mondo intero equivaleva a parlare al vento. Usava guardare direttamente negli occhi i suoi lettori e, in questo modo, con parole chiare, eleganti e convincenti, riuscì a diffondere le sue idee con grande efficacia. Il discepolo diventava il megafono di un pensiero che, di bocca in bocca, si spandeva per il mondo.

Questo suo stile apparentemente frammentario di filosofare non danneggiò l’organicità del pensiero, anzi. E, in più, lo rese agile e penetrante. Il lettore intelligente non si addormenta mai sulle pagine di Ortega y Gasset.

L’indagine filosofica di Ortega non si muove nell’ambito dell’astratto, come quella del matematico e del metafisico, ma nell’ambito concretissimo della vita reale. Per poter scrutare la realtà elabora un suo metodo personale, quello della «Ragion vitale», o «storica».

Capovolge il concetto stesso di «ontologia», strappandolo all’elaborazione astratta e «ancorandolo» alla realtà drammatica del vivere quotidiano.

La riflessione astratta porta facilmente alla divinizzazione del «logos», al totalitarismo delle idee, agli idealismi assoluti. La distanza che separa il totalitarismo delle idee dal totalitarismo politico è molto esigua. Dal filosofo che gioca con le idee come se queste fossero formule matematiche, al politico che gioca con gli uomini e con i popoli come se costoro fossero soltanto delle idee, il transito è pericolosamente facile. Tra la ragion pura di Kant e la truce fantasia della purezza ariana c’è un legame assai più stretto di quanto si pensi.

L’idealismo assoluto di Hegel è tanto vicino al materialismo assoluto di Marx, quanto le due facce di una stessa moneta. Nascono dalla stessa fonte e sono guidate dalla stessa logica. 

 

 

La  Democrazia, le Masse, l’Elite

 

 

La realtà dell’uomo, il suo ambito naturale, non è la metafisica, bensì la Storia. L’uomo non ha altra realtà che la Storia. In essa è diventato ciò che è. Il «passato» è il suo ambiente naturale, come l’acqua per i pesci. 

Il «passato» non si è presa la briga di passare per essere dimenticato dall’uomo, ma per essere integrato ed assimilato nella sua intima sostanza.

I «diritti dell’uomo» non sono astrazioni filosofiche, ma conquiste storiche.

Contro le aberrazioni della tradizionale filosofia della «ragion pura», Ortega propose la «ragion vitale» (che è l’equilibrio tra la ragione e la vita) come lo strumento più adatto per raggiungere la nostra «verità umana», la quale non è  mai una formula astratta, ma un fatto estremamente reale e drammatico.

Trattandosi di un filosofo che stabilì il quartier generale delle sue riflessioni non nell’astrattezza delle idee, ma nella concretezza della vita, era inevitabile che Ortega si occupasse di politica.

Per Ortega, politica significa «possedere un’idea chiara di ciò che dall’interno dello Stato, si deve fare in una Nazione». 

Lo Stato e la Nazione sono due cose assai diverse. Lo Stato non è che un «utensile» la cui finalità è quella di potenziare la vita della Nazione.

La Nazione, cioè, l’ insieme di membra che hanno la coscienza di appartenere allo stesso organismo sociale si può definire come «una comunità di propositi tra popoli che convivono per fare insieme qualcosa». È un equilibrio tra forza, convinzione o fede ed illusione.

Allo stesso modo che la divinizzazione delle idee conduce all’umiliazione della vita, la divinizzazione dello Stato conduce al soffocamento della vitalità della Nazione.

Il piccolo politico è sempre incline a confondere lo Stato con la Nazione. Il grande politico non li confonde mai.

La figura del grande politico è assai rara. Quando appare sull’orizzonte della Storia è sempre per cambiare il destino dei popoli.

Sono pochi i politici in grado di avere «un’idea chiara di ciò che, dall’interno dello Stato, bisogna fare per rendere vitale una Nazione». Il politico è prevalentemente «un uomo di azione». 

Il piccolo politico, dotato di un quoziente d’intelligenza piuttosto modesto, è soltanto «un uomo di azione». 

Il grande politico è sempre anche un intellettuale; possiede impetuosità e perspicacia.

Ciò non significa che Ortega confonda la figura dell’intellettuale con quella del politico. Anzi, insiste continuamente sulla natura antitetica di questi due tipi umani: al politico spetta il compito di governare. All’intellettuale quello di fornire gli strumenti culturali ed ideali per poterlo fare.

L’intellettuale esiste per essere la coscienza della Nazione, mentre il politico esiste per essere la volontà che decide nella Nazione.

È indispensabile che non s’interrompa mai la stretta collaborazione tra questi due pilastri della Storia.

C’è una sorta di reciprocità, di armonia prestabilita tra i due. Le epoche in cui gli intellettuali non hanno nulla, o poco, da dire sulla vicenda umana coincidono con quelle in cui si sopprime, o si limita sostanzialmente, la libertà di pensare. 

Se l’intellettuale entra in crisi, la politica diventa cieca. Può convertirsi in dittatura aperta o in democrazia morbosa, la quale è peggio della dittatura, perché degenera fino a diventare rapinatrice subdola del bene della Nazione.

Sembra che sia proprio questo ciò che oggi sta accadendo nel mondo: da un lato, una democrazia moribonda, ma ancora tracotante: politici privi di idealità e di progetto, ma pieni di voracità, attaccati al potere come sanguisughe; dall’altro lato, gli intellettuali, incuranti della loro qualità di lievito sociale, aspirano freneticamente alla celebrità, al primo piano sullo schermo sociale, come se fossero dei pugili o dei calciatori.

Da due o tre generazioni i politici si sono dichiarati indipendenti dall’intelligenza. Hanno fatto tutto quanto potevano per umiliare, screditare e corrompere gli intellettuali. Si sono circondati di «manager rampanti», quelli che, al posto dell’intelligenza, sfoderano astuzie. 

Gli intellettuali, dal canto loro, abbandonato il ruolo impopolare di censori, di critici delle deviazioni dell’opinione pubblica e di chi governa, si sono lasciati comprare e vendere.

Di conseguenza, a questo punto della storia, alle soglie del Duemila, ci troviamo a navigare alla deriva. Ci congediamo dal secondo millennio e ci disponiamo a penetrare nel terzo in balia della cieca meccanica, senza alcun progetto per il futuro.

Tutte le grandi epoche storiche sono scaturite dalla leale, franca e stretta collaborazione tra l’intellettuale vero e il vero politico. 

Questa nostra non è una grande epoca storica. 

Prima di sottoporre all’attenzione del lettore le «anticipazioni europeiste» di Ortega y Gasset è opportuno fare delle considerazioni su alcuni concetti socio politici sempre presenti nel discorso del filosofo spagnolo. Si tratta di pensieri profondi che, oramai, sono diventati luoghi comuni. Proprio per questo bisogna ripensarli ostinatamente, per restituire loro la forza e il contenuto originali.

La peggiore avventura che può capitare a un’idea profonda è quella di diventare luogo comune. Non appena si fa ovvia, diventa scivolosa, inafferrabile e, tutto sommato, incomprensibile, come i concetti di democrazia, di minoranze e di massa.

Pur essendo continuamente sulla bocca di tutti, sgusciano via dalla mente come pesci, prima di consentirci di palparne il dorso muscoloso. 

La democrazia nasce come nobile proposito di liberare la plebe dalla bassa condizione morale e materiale; di elevarla, se possibile, all’altezza dell’aristocrazia; di renderla capace di partecipare al governo della società. 

È nata come progetto di crescita generale.

Ma ecco che, appena nato, questo magnifico proposito si capovolge; rapiti dall’idealismo «democratico», molti aristocratici cominciano a simpatizzare con la plebe, a flirtare precisamente con ciò che la plebe ha di più plebeo: il rifiuto di crescere, l’attaccamento al costume primitivo, alle maniere rozze, al disprezzo per l’intelligenza e per la cultura.

Ciò che era nato come proposito di crescita generale, diventa presto appiattimento totalizzante: l’aristocrazia scende a livello più basso; diventa essa stessa plebea.

Ortega y Gasset si serve di una parabola per spiegare questo capovolgimento perverso:

«All’inizio della Rivoluzione francese, la carbonaia andò dalla duchessa e disse: ‘da oggi in poi io sarò la duchessa e Lei sarà la carbonaia’. Intervenne, però, un piccolo intellettuale rivoluzionario che faceva il suo “turno di vigilanza” e affermò: “Compagna carbonaia, ti sbagli. Da oggi non ci saranno più duchesse, saremo tutti carbonai».

La carbonaia aveva capito perfettamente la dialettica democratica: aspirava al meglio.

L’intellettuale rivoluzionario non aveva capito niente; era soltanto un demagogo.

I democratici proclamarono subito una cosa sacrosanta: l’uguaglianza universale di tutti gli uomini davanti alla legge, la parità giuridica. Ma si fermarono lì. Non fecero niente per «legiferare» sulla «disparità vitale» che distingue i migliori dai peggiori; per legittimare la «disuguaglianza creativa» che distingue un uomo da ogni altro uomo. 

E, cosa più grave ancora, si tacque del tutto sui «doveri» che premono sul nostro imperativo di crescita umana con forza non inferiore a quella dei «diritti».

La «democrazia» divenne ben presto un’arma micidiale di omogeneizzazione, di parità al  livello infimo: la duchessa divenne carbonaia; il docente universitario diventò «bidello»; lo scienziato si mise alla pari col venditore di salumi, ma né la carbonaia né il bidello né il salumiere salirono di un solo gradino.

“L’umanità tornò alla nostalgia da «gregge», al bisogno di affidarsi appassionatamente a ciò che in essa c’è della pecora, al desiderio di camminare per la vita intruppati, lana contro lana e con la testa china”.

Siamo arrivati così alla penombra mentale, alla stupidità generalizzata. Pur vivendo in un’era di strabilianti capacità intellettuali, mai come ora il mondo è stato assalito dall’irruzione incontrollata di forze irrazionali.

I grandi mutamenti storici avvengono sempre in epoche di penombra mentale come questa.

Il secolo XIX fu il secolo della «questione sociale», del collettivismo, dell’esaltazione della massa e del vituperio dell’individuo.

Il secolo XX non ha fatto altro che portare alle ultime conseguenze sia l’esaltazione che il vituperio: la società contro l’individuo; la massa contro la persona. L’uniformità. L’uniforme, culturale o materiale, identico per tutti.

Può oggi un uomo, un giovane, costruirsi un progetto di vita, di cultura, che abbia un profilo individuale? È possibile oggi una vita che non sia standardizzata?

Essere diverso è diventato pressoché indecente. La massa calpesta e distrugge tutto ciò che è diverso, egregio, qualificato, distinto, creativo, individuale. Chi non è come tutti gli altri corre il rischio di essere eliminato.

Ma, senza le individualità eminenti, le società si autodistruggono, l’umanità diventa gregge. L’uomo accetta i fatti, ma non li discute: diventa stupido. Questa nostra società è diventata tanto omogenea quanto stupida, ma con la tracotante aggiunta di pretendere che il mondo intero si adegui ai suoi gusti rozzi e triviali. Nel suo orizzonte vitale e culturale non esistono vette; esiste soltanto il bassopiano.

In ogni società ragionevolmente sana esistono le «minoranze» e le «masse». La funzione biologica delle «minoranze» è quella di guidare le «masse» verso l’alto, verso il meglio.

La funzione biologica delle «masse» è quella di seguire i migliori, di imitarli, di emularli.

Se viene a mancare questo rapporto dinamico tra le minoranze e le masse, la società degenera e la democrazia si ammala gravemente.

Nel quinto capitolo del suo libro «España Invertebrada» scrive Ortega: 

«Una Sociologia rozza, nata per generazione spontanea, che da molto tempo domina le opinioni circolanti, tergiversa i concetti di ‘massa’ e di ‘minoranza’, intendendo per massa l’insieme delle classi economicamente deboli e per minoranza le classi socialmente più elevate. Finché non riusciremo a correggere questo quid pro quo non faremo un solo passo avanti nella comprensione del sociale.

In ogni classe, in ogni gruppo che non soffra di gravi anomalie, esiste sempre una massa volgare e una minoranza eccellente. Se un gruppo di uomini si trovano insieme, accade sempre che uno di loro faccia un gesto più aggraziato, più espressivo, più preciso degli altri; o che pronunci una parola più bella, più pregna di significato; o che formuli un pensiero più acuto; o che, di fronte ad un fatto della vita, manifesti una reazione sentimentale più gagliarda, più elegante.

Se i presenti hanno un temperamento normale, sentiranno che, automaticamente, sorge nel loro animo il desiderio di fare quel gesto, di pronunciare quella parola, di vibrare con quell’emozione.

Non si tratta di «imitazione». Quando imitiamo un’altra persona sappiamo bene che non siamo come lei. Il fenomeno a cui mi riferisco è molto diverso dal mimetismo. Quando troviamo un uomo migliore, se non abbiamo una sensibilità anormale, desideriamo di poter essere, veramente e non fittiziamente come lui e fare le cose come lui le fa. L’esemplarità di alcuni si articola con la docilità di molti; l’esempio si diffonde e gli inferiori crescono nella direzione dei migliori.

La capacità di entusiasmarsi con ciò che è ottimo, di lasciarsi rapire dalla perfezione transeunte, di essere docili all’archetipo o forma esemplare è la funzione psichica che distingue l’uomo da tutti gli altri animali; quella che dà la progressività alla nostra specie, di fronte alla relativa stabilità di tutti gli altri esseri viventi».

La società, quindi, può essere definita come «l’unità dinamica spirituale formata da un uomo esemplare e dai suoi docili».

Sentirsi docili a un altro porta a vivere come lui e a convivere con lui.

Ma le espressioni «massa docile» e «minoranza eccellente» provocano l’irritazione di tutti gli intellettuali pseudo progressisti che, scambiando la cultura con la demagogia, vorrebbero che non esistessero le «minoranze», ma soltanto le «masse».

Se in una società, per diverse generazioni, mancano o scarseggiano gli uomini di vigorosa intelligenza che servano di norma agli altri, la massa, per la legge del minimo sforzo, tenderà a pensare ogni giorno con minor vigore; scemerà il repertorio di idee, di punti di vista e il «tono sociale» scenderà al livello minimo imposto dalle necessità di ogni epoca. Si avrà un popolo intontito, intellettualmente degenerato.

Una comunità può alimentare le sue necessità storiche solo se, insieme agli eminenti scienziati e artisti, ai grandi politici, dispone anche di militari esemplari, di industriali perfetti, di operai modello e, persino, di geniali «uomini di mondo». Ma più che di ogni altra eccellenza, una nazione ha bisogno di donne eccelse che, con il loro innato «buon gusto», scuotano l’innata rozzezza dei maschi.

Questo meccanismo dell’«esemplarità-docilità» spiega qual è la forza spirituale che crea e mantiene vive le società e, al tempo stesso, chiarisce il fenomeno delle decadenze.

Quando un popolo si trascina per la storia come un ammalato è sempre o perché in esso mancano gli uomini esemplari o perché le masse sono indocili.

 


Le anticipazioni di Ortega y Gasset

sull’Unione Europea

 

Una delle caratteristiche di Ortega y Gasset è la perenne attualità dei suoi scritti. Se leggiamo i suoi libri pubblicati cinquanta o settanta anni fa, proviamo la sensazione di leggere pagine scritte il giorno prima.

Nel prologo scritto per la seconda edizione di «España Invertebrada» (1922), troviamo queste parole che sembrano dettate dall’attuale situazione europea:


«Oggi in Europa non c’è stima del presente. Le istituzioni, le idee, e persino i piaceri degli Europei hanno sapore rancido. Cosa si desidera oggi in Europa? Niente. In Europa non si desidera più. Manca del tutto l’eccitante anticipazione del futuro desiderabile. Il desiderio, secrezione squisita dello spirito sano, si esaurisce man mano che declina la vita. Gli anziani non hanno più desideri, ma soltanto ricordi. In Europa si è esaurita la capacità di desiderare. Al suo posto è subentrata la nostalgia».


E nel prologo scritto due anni più tardi per la quarta edizione della stessa opera:


«Di tutte le idee esposte nel mio libro, quelle che oggi m’interessano di più sono quelle che ancora non si sono verificate nei fatti. Per esempio, l’annuncio che tutto ciò che oggi sta avvenendo nel nostro pianeta, si concluderà con il fallimento delle masse nel loro tentativo di dirigere la vita europea. È un fatto che vedo avvicinarsi a grandi passi. Già a quest’ora stanno le masse vivendo l’esperienza della propria inanità. L’angoscia, il dolore, la fame e la sensazione di vuoto vitale guariranno le masse dalla precipitosa petulanza che è stato l’unico principio ispiratore della loro azione in tutti questi anni. Quando avranno superato la petulanza scopriranno dentro di se stesse un nuovo stato d’animo: la rassegnazione, che è la forma più alta di spiritualità a cui possono aspirare. Su questa rassegnazione sarà possibile iniziare la nuova costruzione. E, allora, si vedrà con gran sorpresa che l’esaltazione delle masse nazionali e delle masse operaie, portata sino al parossismo negli ultimi trent’anni, era la piega che, fatalmente, doveva prendere la realtà storica per rendere possibile l’unico autentico futuro che è, sotto una forma o l’altra, l’Unità d’Europa».


La preoccupazione europeista è presente nel pensiero di Ortega sin dall’inizio del secolo, ed ebbe ampia risonanza nel mondo intero, tranne che in Italia, dove il regime fascista vietò l’accesso dei suoi scritti.

In contrapposizione ai rabbiosi nazionalismi, tanto simili a quelli che oggi dilaniano la coscienza e la vita di tanti popoli, che si andarono consolidando in Europa tra le due guerre mondiali, Ortega proclamò già prima degli anni Venti la necessità di portare a compimento l’ideale dell’unità dei popoli europei.


«I circoli che fino ad oggi si sono chiamati ‘nazioni’, dice, giunsero circa un secolo fa all’apice della loro massima espansione. Ora non sono che passato che si è andato accumulando intorno all’uomo europeo imprigionandolo e soffocandolo. Le nazioni si sono ridotte a «provincia» e, per poter sopravvivere, hanno bisogno di superare se stesse. Bisogna trascenderle in un’unità transnazionale.

Abbiamo oggi più libertà che mai nel corso della storia. Eppure sentiamo tutti che l’aria è diventata irrespirabile all’interno di ogni singola nazione, che è un’aria greve. Ciascuna nazione, che prima era atmosfera aperta e ventilata, è diventata interno chiuso».


Per Ortega l’Unità europea non è né un pio desiderio né un’utopia. È una realtà molto antica. 


«L’Europa è qui da duemila anni non solo, né principalmente, come continente geografico, ma come continente culturale, come ambito spirituale all’interno del quale sono nate le nazioni europee. Preesiste alle nazioni stesse ed è l’humus che ha reso possibile lo sviluppo delle diverse nazionalità».


La coscienza di essere «Europei», nati e cresciuti in una casa comune, ci ha accompagnati da secoli e secoli. L’uomo europeo è vissuto sempre, contemporaneamente, in due spazi storici, in due società: una, più ampia, l’Europa; l’altra, più ristretta, la propria nazione. Esistono una religione europea, un costume europeo, un diritto europeo, una cultura ed una civiltà europee.

La presenza di un patrimonio comune di usi, tradizioni, opinione pubblica e diritto europeo da un lato e, dall’altro, la crisi d’identità che oggi soffrono le singole nazioni, fanno sì che l’Unione europea sia una meta inevitabile, un postulato di sopravvivenza per i popoli europei.

La “Supernazione” europea postulata da Ortega consiste nel raggiungimento dell’unità di tutte le nazioni europee mediante la gelosa conservazione del pluralismo che ha caratterizzato sempre la vita dell’Occidente.

L’Europa Unita è concepita come un «equilibrio dinamico o bilanciamento di poteri».

L’equilibrio dinamico ha un requisito essenziale: la pluralità. Se il pluralismo si perdesse, svanirebbe l’equilibrio e si perderebbe anche l’unità.

La dottrina europeista di Ortega, sparsa in molti dei suoi scritti, è esposta più organicamente Nella conferenza tenuta a Berlino nel settembre del 1949 : “De Europa metitatio quaedam”, che offriamo al lettore in traduzione italiana, e nel volume «La Rebeliòn del las Masas» (Espasa Calpe, Madrid, 1937).  

I questo ultimo libro, scrive:


«Dalla comparsa di questo libro, e mediante la meccanica che nel libro stesso si descrive, l’omogeneità è cresciuta in misura angosciante […]. E l’angoscia si moltiplica sino all’infinito quando si avverte che non esiste un solo luogo in tutto il Continente dove non accadano esattamente le stesse cose. 

Se prima si poteva arieggiare l’atmosfera chiusa di un paese aprendo le finestre che davano sull’altro, ora non si può più perché nell’altro paese l’atmosfera è altrettanto irrespirabile.

In questa progressiva assimilazione delle differenze, occorre, però, distinguere due dimensioni diverse e contrapposte: lo sciame dei popoli occidentali che, dalle rovine del mondo antico si lanciò a volare nella storia, si è caratterizzato sempre da una doppia forma di vita: man mano che i popoli andavano acquistando ciascuno il suo genio peculiare, cresceva il repertorio comune di idee, modi ed entusiasmi.

Più ancora: il destino che li portava ad essere progressivamente diversi e, al tempo stesso, progressivamente omogenei deve essere inteso come un paradosso superlativo, perché la loro omogeneità non fu mai nemica della loro diversità, al contrario: ogni nuovo principio uniforme fecondava la diversificazione. L’idea cristiana generava le chiese nazionali; il ricordo dell’Imperium romano ispirava le varie forme di Stato; la «restaurazione» delle lettere avvenuta nel secolo XV liberava le letterature divergenti; la scienza e il principio unitario dell’uomo come «ragione pura» creava i diversi stili intellettuali che modellano, in maniera differenziata, persino le alte astrazioni della scienza matematica. 

Infine, ed è il colmo, persino la strampalata idea ottocentesca secondo la quale tutti i popoli devono avere una costituzione identica, produce l’effetto di risvegliare romanticamente la coscienza differenziatrice delle nazionalità, che equivale ad incitare ciascuno a seguire la vocazione del proprio particolarismo.

Se ciò avviene è perché, per questi popoli cosiddetti europei, chiaramente dal secolo XI, dai tempi di Ottone III, vivere ha significato sempre muoversi ed agire all’interno di uno spazio comune, convivere con gli altri. Tale convivenza assumeva, indifferentemente, l’aspetto pacifico o quello combattivo. Le guerre inter-europee assunsero sempre quel curioso aspetto che le rende tanto simili ai dissidi domestici: hanno evitato sempre l’annientamento del nemico. Più che guerre, sono state disfide, lotte di emulazione, come quelle che avvengono tra i giovanotti di borgata o le liti tra gli eredi per la spartizione di un lascito familiare. In un modo o nell’altro, tutti hanno cercato sempre la stessa cosa. «Eadem, sed aliter».

Non ha molto importanza se a questo spazio storico comune, dove tutti i popoli dell’Occidente si sono sentiti come nella propria casa, corrisponde uno spazio fisico che la geografia chiama Europa. Lo spazio storico di cui parlo si misura per il raggio di effettiva e prolungata convivenza: è uno spazio sociale.

Convivenza e Società sono parole equivalenti. Società è ciò che si produce automaticamente per il semplice fatto di convivere. Di per sé, ed ineluttabilmente, la convivenza secerne costumi, usi, lingua, diritto, potere pubblico.

Uno tra gli errori più gravi del «pensiero moderno», le cui conseguenze ancora ci portiamo addosso, è stato quello di confondere la «società» con l’«associazione» che è, press’a poco, il contrario di quella. Una società non si costituisce grazie al previo accordo delle volontà. Al contrario, ogni accordo delle volontà presuppone l’esistenza di una «società», di genti che convivono. Il loro accordo non può consistere che nel accentuare l’una o l’altra forma di convivenza nella «società» preesistente. L’idea di società come riunione contrattuale, e pertanto giuridica, è il più insensato tentativo che sia stato mai fatto di mettere il carro davanti ai buoi. Perché il «diritto», la realtà del «diritto» (e non le idee che del diritto hanno il filosofo, il giurista o il demagogo) è, se mi si consente l’espressione barocca, una secrezione spontanea della società, e non può essere altro che questo. Pretendere che il diritto possa regolare i rapporti tra gli esseri che previamente non vivono in effettiva società è – mi si perdoni l’insolenza – avere un’idea assai ridicola e confusa del «diritto».

 D’altro canto, non dobbiamo stupirci troppo di fronte alla preponderanza di quest’opinione confusa e ridicola sul diritto. Una delle più grandi sventure del nostro tempo è che, quando i popoli dell’Occidente sono andati a urtare contro i terribili conflitti pubblici del presente, si sono trovati equipaggiati con un’attrezzatura arcaica e goffissima di nozioni sul significato vero di parole come «società», «collettività», «individuo», «uso», «legge», «giustizia», «rivoluzione», ecc. Buona parte dell’attuale disorientamento proviene dall’incongruenza che esiste tra la perfezione delle nostre idee sui fenomeni fisici e il ritardo scandaloso delle nostre conoscenze «morali».

Il ministro, il professore, il fisico illustre e il romanziere hanno di queste parole concetti degni di un barbiere suburbano. 

Ma riprendiamo il nostro cammino. Volevo insinuare che i popoli europei sono, da molto tempo, una «società», una «collettività», nello stesso senso che hanno queste parole quando vengono applicate a ciascuna delle singole nazioni che integrano l’Europa. L’Europa possiede tutti gli attributi di una società: vi sono costumi europei, usi europei, opinione pubblica europea, diritto europeo, potere pubblico europeo. Tutti questi fenomeni sociali esistono nella misura e nella forma adeguata allo stato di evoluzione in cui si trova la «società europea», la quale non è, evidentemente, tanto avanzata quanto quella dei membri che la compongono, le nazioni.

Per esempio: la forma di pressione sociale costituita dal pubblico potere funziona in tutte le società, persino in quelle primitive nelle quali manca ancora l’organo specifico incaricato di esercitarlo.

Se vogliamo dare il nome di Stato all’organo specifico al quale si affida l’esercizio del pubblico potere, dobbiamo dire che in certe società non esiste lo Stato, ma non per questo siamo autorizzati ad affermare che in esse non esiste il pubblico potere. Ovunque esiste la pubblica opinione non può mancare il potere pubblico, perché questo non è altro che la violenza collettiva sprigionata da quell’opinione. Non sarebbe cosa facile negare che, da parecchi secoli, esiste un’opinione pubblica europea, e persino la tecnica per poter agire su di essa.

Affermo che è sommamente probabile che una società, una collettività così matura come quella che formano i popoli europei è vicina alla creazione di un arnese statale mediante il quale «formalizzare» l’esercizio del pubblico potere già esistente.

Ciò che mi spinge a pensare in questo modo non è, dunque, la mia arrendevolezza alle suggestioni della fantasia, né la mia propensione ad un «idealismo» che detesto e contro il quale ho combattuto per tutta la mia vita. È stato il «realismo storico» ad insegnarmi che l’unità d’Europa come società non è un «ideale», bensì un fatto di vecchia quotidianità. Visto con chiarezza questo, la probabilità di uno Stato generale europeo s’impone necessariamente. La scintilla che porterà subitamente a compimento questo processo può essere una qualunque: per esempio, il codino di un Cinese, che si affaccia agli Urali o una scossa del grande magma islamico.

La figura che assumerà questo stato soprannazionale sarà, ovviamente, molto diversa da quelle in uso come, secondo in questi capitoli intendo dimostrare, è stato molto diverso lo Stato nazionale dallo Stato-città che conobbero gli antichi.

Io ho cercato in queste pagine di liberare le intelligenze affinché sappiano essere fedeli alla sottile concezione dello Stato e della Società che la tradizione europea ci propone.

Non fu facile, mai, al pensiero greco romano concepire la realtà come «dinamismo». Non riuscivano a liberarsi del visibile e dei surrogati del visibile; allo stesso modo che un bambino non riesce a capire bene di un libro altro che le illustrazioni. Tutti gli sforzi realizzati dai filosofi greco romani per trascendere quella loro limitazione furono inutili. In tutti i loro tentativi di capire agiva, come paradigma, l’oggetto corporeo che, per loro, era la «cosa» per eccellenza. Non riuscivano a vedere una «società», uno «Stato» se non là dove l’unità aveva la forma di contiguità visuale; per esempio, una città.

La vocazione mentale dell’Europeo è opposta. Tutte le cose visibili ci sembrano, in quanto tali, semplici maschere della forza latente che costantemente le produce e che è la sua vera realtà. Là dove la «forza», la «dynamis» agisce unitariamente c’è un’unità reale, anche se all’occhio nudo appaiono   molte cose diverse.

Non scoprire l’unità del pubblico potere se non là dove questo ha adottato la maschera già nota e solidificata di Stato, cioè, nelle singole nazioni , equivarrebbe a inciampare nell’antica limitazione.

Nego nella maniera più assoluta che il pubblico potere che agisce all’interno delle singole nazioni consista esclusivamente nel potere pubblico interno o nazionale.

È necessario comprendere una volta per tutte che, da molti secoli –con piena consapevolezza da quattro secoli –vivono tutti i popoli d’Europa sottoposti ad un potere pubblico che, per la sua stessa purezza dinamica, non tollera altra denominazione che quella ricavata dalla scienza meccanica: «l’equilibrio europeo» o «balance of power».

Questo è l’autentico governo d’Europa che, nel suo volo attraverso la Storia, regola lo sciame di popoli, solleciti e pugnaci come api, sfuggiti alla rovina del mondo antico. L’Unità d’Europa non è una fantasia, ma la realtà stessa.

La fantasia è esattamente il contrario, il credere che la Francia, la Germania, l’Italia o la Spagna siano la realtà sostantiva e indipendente.

Si capisce, però, che non tutti riescano a percepire con evidenza la realtà dell’Europa, perché l’Europa non è una «cosa», bensì un «equilibrio».

Già nel secolo XVIII lo storico Robertson chiamò l’equilibrio europeo «the great secret of modern politics». 

Segreto grande e paradossale, senza dubbio, perché l’equilibrio o bilancia dei poteri è una realtà che consiste essenzialmente nell’esistenza di una «pluralità». Se questa pluralità andasse perduta, quell’unità dinamica svanirebbe nel nulla.

L’Europa è, infatti, uno sciame: molte api e un unico volo.

Questo carattere unitario della magnifica pluralità europea è ciò che io chiamo la «buona omogeneità», quella che è feconda, desiderabile, e che faceva dire a Montesquieu: «L’Europe n’est qu’une nation composée de plusieurs» e, più romanticamente, faceva parlare a Balzac della «grande famille continetale, dont tout les efforts tendent a je ne sais quel mystere de civilisation». Questa moltitudine di «modi» europei che scaturisce costantemente dalla radicale unità, e ritorna ad essa per sostenerla, è il più grande tesoro dell’Occidente.

Gli uomini dalla testa rozza e pesante non riescono a concepire un’idea tanto acrobatica come questa, che ci costringe a saltare senza riposo dall’affermazione della pluralità al riconoscimento dell’unità, e viceversa. 

Trionfa oggi su tutta l’area continentale una forma di omogeneità che minaccia di distruggere completamente quel tesoro. Ovunque è insorto l’uomo - massa... Un tipo d’uomo fatto in fretta, montato su alcune povere astrazioni e che, per questo stesso, è identico da un capo all’altro dell’Europa. A lui si deve il deprimente aspetto di asfissiante monotonia che ha adottato la vita in tutto il continente. Gli sono state asportate le viscere del passato e, di conseguenza, è sempre docile a tutte le discipline chiamate «internazionali». Più che un uomo, è soltanto un guscio d’uomo costruito mediante l’assemblaggio frettoloso delle «idola fori». È privo di un suo «di dentro», di un’identità sua inesorabile ed inalienabile, di un «io» che non ammette mai revoche. Per questo è sempre disponibile a tutto e finge di essere qualunque cosa gli si prospetti. Ha soltanto appetiti; crede di avere solamente diritti e non riconosce i doveri. È l’uomo «senza la nobiltà che obbliga» - senza nobilitate–, lo snob”.

«Lo Stato è sempre, qualunque sia la sua forma – primitiva, antica, medioevale o moderna – l’invito che un gruppo di uomini rivolge ad altri gruppi umani per realizzare insieme un’«impresa».

Non importa quali sono i mezzi che intervengono nella sua realizzazione: tale impresa consiste sempre nell’organizzare un certo tipo di vita comune. Lo Stato e il Progetto di vita comune sono concetti inseparabili.

«Non appena le nazioni europee riempirono, fino a saturarlo, il loro profilo di nazione, sorse intorno ad esse e sotto di esse, come uno sfondo unico, l’Europa: questa fu l’unità di paesaggio sul quale si mossero dal Rinascimento in poi; e questo paesaggio europeo erano esse stesse. Senza avvertirlo, cominciavano già a staccarsi dalla loro bellicosa pluralità.

La Francia, la Spagna, l’Italia, l’Inghilterra e la Germania combattevano fra loro; facevano leghe, le disfacevano e le ricomponevano. Ma tutto questo, guerra e pace, era un convivere da uguale a uguale; cosa questa che mai, né in guerra né in pace, seppe fare Roma con il Celtibero, il Gallo, il Britannico o il Germano.

La storia ha posto al primo piano le liti e, in genere, la politica, che è il terreno più tardivo sul quale matura la spiga dell’unità.

Ma, mentre si guerreggiava in un territorio, in cento altri si commerciava col nemico, si scambiavano con lui le idee, le forme d’arte, gli articoli della fede.

Se direbbe che quel fragore bellicistico fosse soltanto il telone di fondo dietro il quale tenacemente lavorava la pacifica madrepora della pace, intessendo la vita unitaria delle nazioni ostili.

Se facessimo oggi il bilancio del nostro patrimonio mentale – opinioni, norme, desideri, presunzioni – potremmo renderci conto chiaramente che la maggior parte di questa ricchezza viene al Francese non dalla Francia, né allo Spagnolo dalla sua Spagna, ma dal Fondo Comune Europeo. Oggi, infatti, pesa molto di più in ciascuno di noi ciò che abbiamo come Europei che la porzione che ci spetta come Spagnoli, o Francesi o Italiani.

Se improvvisamente si spogliasse il Francese medio di tutto ciò che pensa, sente o usa per averlo ricevuto dagli altri Paesi continentali, si sentirebbe terrorizzato.

Non si riesce a percepire quale altra cosa importante potremmo fare tutti coloro che viviamo in questa porzione del pianeta se non è realizzare la promessa che, da quattro secoli a questa parte, significa la parola Europa.

Soltanto il pregiudizio delle vecchie nazioni, l’idea di ‘nazione come passato’, si oppone a quest’impresa».

 

 

CONCLUSIONE

 

Il pensiero europeista di José Ortega y Gasset suscita alcune considerazioni.

Dopo sì lunga gestazione, il processo di unificazione è, finalmente, iniziato. Rimangono, però, non poche barriere, tenacemente abbarbicate ai vecchi particolarismi, che si oppongono al «nuovo».

Per secoli le vecchie nazioni europee hanno dettato al mondo le loro regole. Hanno imposto ovunque la loro civiltà, la loro politica, la loro economia. Hanno comandato. Oggi non comandano più. Sono consapevoli di aver perduto il loro ruolo di guida del pianeta e hanno paura. Sono vecchie e hanno paura di svanire nell’inevitabile declino che ha visto scomparire dalla storia altri grandi imperi.

E questa paura intorpidisce la loro intelligenza e la loro volontà. Invece di osare il grande salto dell’Unificazione, che restituirebbe ai loro muscoli l’elasticità di un tempo, si rinchiudono nella difesa di vecchi interessi che non interessano più a nessuno.

Cosa si potrebbe oggi proporre alle vecchie nazioni europee perché si decidano a vincere le loro paure? Quale missione comune potrebbe oggi galvanizzare i popoli europei?

Che cosa ci propone il Parlamento Europeo? È stato eletto solo per imporci dei tagli alla produzione del latte, degli agrumi e dell’acciaio, e nient’altro?

I popoli non si mettono in marcia, mai, per svolgere mansioni da ragioniere, ma per realizzare insieme imprese di civiltà.

Che non si dica che siamo ancora troppo attaccati alle differenze nazionali, alle etnie, ai regionalismi. Le differenze etniche, regionali e nazionali non sono state mai un ostacolo vero all’unità dei popoli. Tutte le grandi nazioni hanno regioni. Nella Scozia e nel Galles, nella Catalogna e in Castiglia esistono etnie diverse, spesso contrapposte, ma questo non impedì all’Inghilterra e alla Spagna di diventare, a suo tempo, grandi nazioni.

Determinante, invece, è la presenza di una missione comune. Quando la missione comune è presente, le differenze etniche e gli egoismi regionali e nazionali svaniscono.

I grandi imperi di tutti i tempi sono stati costruiti coalizzando insieme, in una missione unitaria, le etnie più diverse.

L’unità civile sovrana dei popoli europei nascerà dalla comune «volontà storica», e non potrà essere fermata dalla fatalità geografica o biologica delle «frontiere naturali» o della diversità razziale.

C’è oggi in Europa un uomo politico, uno solo, che abbia le idee chiare su ciò che, dall’interno del grande Stato Europeo, si deve fare per rendere vive o scattanti le stanche nazioni del vecchio continente?

Dovremmo rassegnarci alla constatazione, non certamente ottimistica, che nelle classi politiche e intellettuali europee mancano oggi sia i politici che gli intellettuali capaci di concepire un grande progetto di futuro comune che vada molto al di là dei conteggi doganali dei capi di bestiame da abbattere e degli alti forni da spegnere e da accendere?

 

L’ attuale “peste economica” che, come la peste bubbonica e il collera medievali, ha lasciato già al margine della vita, come scorie inservibili, due generazioni di giovani, potrebbe, e dovrebbe,  essere la grande occasione perché i politici si decidano a ripensare  con serietà agli errori e agli orrori del passato, a ricuperare il ritardo culturale e a dare all’Europa quell’ Unita “elastica e forte”, fatta di tradizione e di agilità,  che  José Ortega y Gasset e tanti altri scrittori di razza e di cuore auspicarono sin dai primi decenni del Novecento.  

 

Gonzalo Alvarez Garcia.

Palermo, 27.11.2020

 

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