Dopo quello filosofico-sociologico del precedente romanzo, questo si può ascrivere al genere introspettivo. L’ambientazione, infatti, o location, come si usa dire oggi, è un’imprecisata provincia siciliana; come vago è pure il tempo in cui si svolge l’azione; anche se talune citazioni, segretarie dattilografe e l’uso esclusivo di “telefoni fissi”, ci riportano ad un passato non molto lontano da noi. Tanto scarne sono le descrizioni ambientali, quanto ricchi e profondi, invece, sono le psicoanalisi, i pensieri e i dialoghi espressi dai personaggi, con quello stile caratteristico di Guadagnino, sempre aulico e dal periodare asciutto e pregno di significato.
Il personaggio principale Tindaro La Grua, di cui si apprende fin dalla prima pagina di essere morto precocemente già da qualche mese, è, o meglio, era un colto e stimato principe del foro, che coltivava grandi ambizioni letterarie riconosciute in tutto l’ambito della sua professione. Considerato anche, sempre fra la cerchia dei suoi colleghi, un eccellente traduttore del “Dialogo degli oratori” di Publio Cornelio Tacito, è pure segretamente Autore di parecchi scritti, tra cui un romanzo incompiuto sulla vita di uno dei più controversi e sfuggenti personaggi della nostra storia: Giuseppe Balsamo/Alessandro Conte di Cagliostro, o semplicemente Cagliostro.
Con questo suo secondo romanzo l’Autore indaga il tema del doppio e dell’ambiguità del bene e del male coesistente nella personalità di ogni individuo. Di questa molteplicità dell’Io egli elegge a simbolo, appunto, Cagliostro, e La Grua ne diviene l’alter ego nel corso dell’incedere narrativo. Dai suoi lasciti letterari, affidati dalla sua vedova al giovane Attilio Bonafede per curarne la pubblicazione “[…] per ricordarne le doti artistiche e umane a quanti gli vollero bene e lo apprezzarono da vivo”, lentamente emerge, infatti, una personalità antitetica alle forme, o pirandelliane maschere edulcorate, con le quali si era presentato in società durante gli anni trascorsi nell’evanescente provincia siciliana. La sua sofferta inautenticità emerge in quella parte della sua vita da giovane, di cui nessuno conosce e della quale la sua vedova Luisa Montero non vuole assolutamente parlare con l’improvvisato esegeta Bonafede. Fino a quando viene svelato nel clamoroso “comune epilogo delle due narrazioni”, quella del Narratore/Autore eterodiegetico Diego Guadagnino, e quella diegetica del personaggio Tindaro La Grua contenuta all’interno della prima. Come nel pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”, Vitangelo Moscarda dissolve la folle molteplicità del suo Io nella negazione di ogni forma, compresa quella del suo nome, e similmente il protagonista eponimo del romanzo “Il fu Mattia Pascal” e il suo alter ego Adriano Meis, “tentano” di sfuggire alle consolidate e obbligate forme sociali cambiando vita e nome e inscenando un secondo finto suicidio (il primo fu inscenato frettolosamente “a sua insaputa”, si direbbe oggi), consegnando poi la sua bizzarra autobiografia a un romanzo da pubblicare soltanto dopo la sua reale “terza morte”, così Tindaro La Grua insegue vanamente la propria autenticità in un’esistenza costellata di menzogne che per loro natura lo collocano agli antipodi della sua agognata ricerca.
Angelo Lo Verme
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