Sul Manifesto di mercoledì 1° novembre, Favilli ha parlato di
Macaluso come di un onorevole protagonista della ‘grande storia’.
Ebbene, la storia di cui
egli è stato attore, scrivendo una delle pagine più regressive del m. o.
italiano, e di cui parlo nella nota qui allegata, contrasta in radice col
giudizio espresso da Favilli.
Nel febbraio 1960 cadde in
Sicilia il governo Milazzo nell’ignominia della corruzione, ignominia (c.d.
caso ‘Santalco’) di cui fu accusato Macaluso, il
quale, come noto, nel 1983, al XVI congresso del PCI, si permise di definire un
“povero cretino moralista” Diego Novelli,
allora sindaco di Torino, per le denunce giustamente fatte di alcuni casi di
corruzione di consiglieri comunali difesi da Craxi.
Macaluso, allora dirigente
di primo piano del PCI in Sicilia, fu nel ’58 l’animatore della c.d. operazione
Milazzo, della formazione di una maggioranza e di un governo, durato
dall’ottobre ’58 al febbraio ’60, attorno al sunnominato dirigente
democristiano, che aveva costituito l’Unione Siciliana Cristiano Sociale
scindendosi dalla DC; una maggioranza formata da comunisti,
socialisti, monarchici, fascisti, liberali, socialdemocratici e repubblicani,
in mera funzione anti D. C.
Macaluso ha sempre continuato a rappresentare detta operazione
come una strategia quasi rivoluzionaria, non comprendendo di essere stato usato
come parte sostanzialmente passiva di una scelta strategica dell’avversario di
classe, quella pensata, voluta ed operata dalla Sicindustria di Mimì La Cavera, poi divenuto presidente
onorario della Confindustria siciliana e successivamente sostenitore, non a
caso, del governo reazionario di Lombardo. Quel La Cavera, che nell’articolo
pubblicato su “L'Ora” di Palermo del 27.12.’59, a commento
dell'operazione “Milazzo” (v. allegato), scriveva che “il fatto rivoluzionario della situazione
siciliana è che una parte delle classi
"agricole" del patriziato vuole essere classe dirigente (a
differenza, spiega, di quanto fece nel 1860), ..alleandosi a coloro (PCI siciliano) che "promuovono" lo sviluppo di una
classe imprenditoriale moderna ….”; ed in questa alleanza egli chiaramente
assegnava al M.O. una posizione di supporto allo sviluppo capitalistico del sud
e, nella specie, della Sicilia. Parlando poi della forte presenza comunista in
Italia e nel mezzogiorno in particolare, diceva che per combattere questa
situazione politica occorreva “promuovere politiche di espansione … economica,
che spezzando i privilegi da un lato (i c.d. ‘privilegi’ dei
monopoli), e mantenendo la pace sociale dall'altro con una
politica di lavoro aperta e progressiva (dare qualche soldo in più ai
braccianti - egli diceva), tolgano di mano ai comunisti le ragioni
della (loro) forza”. “Occorre far sì - concludeva La Cavera
nel suo articolo-manifesto del 1959 – che l'Italia non sia più il paese dell'occidente,
dove …. i comunisti potrebbero vedersi aperta la via per giungere al potere per
vie legali”. Ed aggiungeva che “La Sicilia indica una via per tutta la nazione : la via del giovane occidente
capitalistico …. nella più pura linea della tradizione liberista italiana,
quella che vide unita l'agricoltura meridionale (gli agrari) all'industria libera del nord (i
capitalisti)”.
Nella nota allegata spiego
che la scelta di Macaluso non fu un “errore” del PCI siciliano ma derivò
direttamente della teoria del “fronte antimonopolista” in coerenza alla
concezione dello Stato, quale ”Stato dei monopoli”, e non, invece - quale
era ed è – lo Stato borghese che, mediando fra interessi diversi, realizza
l’interesse generale capitalistico. Teoria, questa
dello ”Stato dei monopoli”, propria della III internazionale. Ed è per questo
motivo che Togliatti, come ricorda Marino in “Storia della mafia” (ed. Newton, p. 230 e
232), in coerente applicazione di detta teoria, in un convegno tenutosi a
Palermo a cavallo dell’operazione Milazzo, diede a questa un fondamento
teorico-politico, perché, si disse, veniva così costituito un fronte contro la
rapina della Sicilia da parte dei monopoli, da parte dello Stato dei monopoli.
- Favilli pur non
condividendo quanto afferma Macaluso sul Manifesto del 28 ottobre: che Grasso deve battersi per
ricostruire il centrosinistra, ne esalta però il realismo, quale discepolo di
Togliatti, il cui pensiero ed il cui metodo Favilli stesso dice di condividere
ed ammirare.
Molti di noi del PRC
abbiamo altra opposta opinione su Togliatti e non solo per il suo essere stato
partecipe esecutore del pensiero di Stalin, come ad esempio quando nell’agosto
1937 firmò con false accuse, quale vicecapo dell’Internazionale comunista, la
condanna a morte di tutti i dirigenti del Partito comunista polacco (15
compagni uccisi); ma in particolare per la scelta riformista fatta all’VIII
congresso del PCI nel 1956, che ne segnò la storia, quale Partito
dell’opposizione costituzionale, fino al suo scioglimento e trasformazione
prima in PDS e poi in PD.
Molti di noi del PRC siamo
sostenitori di un realismo opposto, e siamo convinti che se in Sicilia ci
fossero stati 100 compagni come Peppino Impastato, dislocati nei centri
principali, la sua storia sarebbe stata forse radicalmente diversa: non
segnata dalla dominazione ad ogni livello dalla mafia, non caduta nella melma
della corruzione e del compromesso generalizzato e non dominata in tutto dagli
interessi del capitale, specie quello della speculazione edilizia e
finanziario. Un realismo opposto a quello che portò Macaluso ad insultare Diego
Novelli ed a volere e sostenere un governo con i fascisti ed i monarchici più
reazionari, quale il barone Majorana, primo esponente dell’aristocrazia
fondiaria.
Favili personalmente l’ho
ammirato per altre sue acute analisi, quale, ad esempio, quella svolta
nell’articolo del 28.5.13 sul falso concetto di modernità che portò Napolitano
ad ammirare Craxi (v. allegato); ed avendone stima gli chiedo di rivedere il
suo errato giudizio su Macaluso.
Luigi Ficarra
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6 novembre 2017
Caro Ficarra,
permettimi di darti del
«tu» visto che sono anch'io un iscritto al Prc.
Non credo di dover
rivedere quel giudizio. La «grande storia» a cui ho fatto riferimento è quella
del Pci. Non c'è dubbio che sia stata «grande» anche se, come tutte le grandi
storie del resto, non è stata esente da contraddizioni ed errori. Se l'Italia,
per alcuni decenni, è stata migliore delle sue tradizioni da 8 settembre, lo si
deve anche (forse soprattutto) al ruolo dei comunisti organizzati in partito.
Macaluso ha percorso
quella storia «onorevolmente» perché lo ha fatto con scelte e motivazioni
politiche, non per interesse personale e/o affaristico, al contrario della
odierna e dominante prassi. Un costume politico «onorevole» appunto. A partire
dalla seconda metà degli anni Settanta ho combattuto, con gli scritti, quelle
scelte, ma il giudizio sulla sua vicenda complessiva non cambia.
Quanto al «riformismo» ti
allego un paio di miei studi. Trovi che sia contraddittorio essere «riformisti»
(in quegli studi chiarisco il senso), ed membri del Prc?
Un saluto molto cordiale
Paolo Favilli
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6
novembre 2017
Caro compagno Favilli,
concordo che la storia
dell'Italia del dopoguerra non è stata "da 8 settembre" grazie alla scelta di ‘opposizione costituzionale’ fatta dal PCI.
Il che non significa definire questa scelta – cosa che peraltro non mi sembra
tu faccia - come scelta rivoluzionaria avanzata, e dire altresì che non poteva
avere altre alternative.
Macaluso, come scrivi, è
figlio sì di quella storia, anche se solo in parte (*), ma ciò non comporta dare
un giudizio positivo su di lui e le scelte da egli fatte in Sicilia. (Che egli,
poi, non sia astato mosso nelle sue scelte da alcun “interesse personale e/o affaristico” è
certo ed indubbio, ma ciò non riguarda il giudizio politico di fondo, che non
va mai confuso col costume politico, anche se questo non è per noi
indifferente. Non daremmo mai, noi comunisti, un giudizio positivo sulla
politica di Craxi, giustamente combattuta dal Berlinguer della svolta fine anni
’70, neppure ove fosse accertato che non fu mosso da alcun interesse
personale).
Penso possa esserti di
grande aiuto leggere quanto scritto dalla compagna Adriana Laudani, che fu
anche segretaria di La Torre, per capire la politica svolta in Sicilia da
Macaluso e dai compagni da egli scelti, i Michelangelo Russo, i Rindone, i
Vizzini e altri.
E penso possa essere pure
utile conoscere quanto ho scritto su Macaluso a ‘Liberazione’ il 9 luglio 2010.
Alla luce delle conoscenze
che ti chiedo di voler acquisire, penso tu possa rivedere il giudizio sulla
politica svolta in Sicilia da Macaluso.
Ti ringrazio degli studi
allegati sul riformismo, che mi riprometto di leggere con attenzione. Potrò
quindi dare solo successivamente una risposta compiuta alla tua domanda, ma sin
d’ora posso dire che se il PRC dovesse attestarsi quale continuatore della
politica scelta dal PCI con l’VIII congresso del 1956, e quindi per la via
parlamentare delle istituzioni borghesi al socialismo, entro, di conseguenza, i
limiti della Costituzione, che peraltro non è più neppure quella
liberaldemocratica del ’47, verrebbe meno alla sua funzione di rifondazione
teorica e pratica del comunismo.
(*) Macaluso - mi scrisse
Giuseppe Carlo Marino nel dicembre dl 2010 - ammise in “in un nostro
pubblico scontro a Palermo sul milazzismo che la sua formazione politica era
quella della "democrazia radicale(?)" dell'Ottocento
e che, in fondo in fondo, apparteneva non alla tradizione del movimento
operaio italiano, ma - con qualche passo in più rispetto al suo nume
nisseno, il vecchio Napoleone Colajanni - al socialismo riformista dei Tasca e dei Drago.
Lì si era fermato. Compresi che una siffatta ammissione gli riusciva utile per
confermarsi "socialista" e sicilianista, però liberandosi dal
fardello della militanza nel Pci”.
Luigi Ficarra
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15 novembre 2017
Caro Luigi,
finalmente, tramite
Angelo, mi è pervenuto il dossier della tua importante polemica con Paolo
Favilli (stimabile studioso presentatomi dal collega Franco Della Peruta,
e con il quale fui in contatto alcuni anni fa). Prendo nota del fatto di essere
stato da te ampiamente citato con opportuno discernimento e con correttezza
filologica. Te ne sono grato.
Sulle varie questioni da
te sollevate nello svolgimento della polemica non avrei altro, e meno che mai
di nuovo, da aggiungere a quanto ho già scritto. Peraltro, non vorrei dare
ulteriore sviluppo ad una discussione che - per quanto opportuna ai fini
dell'interpretazione in sede storica del comportamento politico di compagni che
appartengono tutti in un modo o nell'altro alla nostra tradizione - rischierebbe,
dati i tempi, di apparire come una specie di litigio tra reduci in un club di
sopravvissuti. Mi consento però alcune osservazioni divergenti, nel giudizio
storico, dalle tue : mentre quanto tu scrivi su Macaluso e
sulla vicenda milazziana corrisponde perfettamente a quanto ho già
scritto e confermo; mi allontano decisamente da te per quanto riguarda la
valutazione di Togliatti e lo stesso potrebbe dirsi per la riforma
agraria (sono agli antipodi delle posizioni di Umberto Santino e di una
certa corrente di antichi "exstraparlamentari di sinistra" e molto
più vicino ai convincimenti di Nicola Cipolla e, solo in parte, anche a quelli
di Renda). Questo, non perché io ritenga di per sé un successo per la
sinistra la legge Milazzo (che, oltre tutto, non ebbe all'Ars il voto
favorevole del Pci); ma perché ritengo che le lotte politiche e sociali per
conseguirla furono comunque decisive per approfondire radicali mutamenti
in progress nella "societas agricola" (ovvero, vorrei dire, nella
stessa cultura dei contadini siciliani) e per la liquidazione definitiva del
latifondo.
Approfitto della gradita
occasione di esprimerti il mio pensiero per segnalarti, molto al di là delle
tematiche qui affrontate, che è uscito in e-book, edito dall'Università di
Palermo, un mio saggio intitolato
"UN'ETA' CONTRO LA
STORIA-SAGGIO SULLA RIVOLUZIONE DEL XXI SECOLO". Potresti acquisirlo
tramite il seguente link.
Basta cliccare in Google e
sceglire "Prodotti della ricerca", per scaricarlo.
Data la stima che nutro per te, sono davvero molto lieto di
consegnarlo alla tua lettura e al tuo giudizio, sperando anche nell'eventualità
che i compagni di Padova possano ritenerlo di una qualche utilità come
"piattaforma critica" di una...rifondazione che sembra, essa stessa,
sempre da....rifondare.
Intanto un affettuoso
saluto
Giuseppe Carlo Marino
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20 novembre 2017
Caro Giuseppe,
♦ ti ringrazio della lettera inviatami (che si
trova in basso dopo questa mia), in cui, riconfermando il giudizio storico
molto negativo che hai espresso nelle tue opere sull’operazione ‘Milazzo’, che
Macaluso anche oggi osa difendere, approvi quanto scritto nella mia nota. Nella
quale, portando pure a supporto un documento di particolare valore, il ‘saggio’
di La Cavera del 27/12/’59, dicevo che la suddetta operazione costituisce
una delle pagine più nere del M.O, pagina di cui Macaluso si è reso
responsabile, ed in relazione al quale non
può quindi parlarsi di storia ‘onorevole’
come fatto da Favilli.
Come sai non mi considero
un reduce, ma un compagno che continua a partecipare attivamente alla lotta,
consapevole delle gravi sconfitte subite dal M.O. e delle necessità di una
rifondazione radicale anche e soprattutto a livello teorico.
♦ Circa il dissenso che manifesti nella
valutazione su Togliatti, ricordo che nella mia nota del dicembre 2014 sulle
scelte del PCI fine anni ’50, dopo aver detto che «quella operata da Macaluso
non fu un “errore” del PCI siciliano ma
derivò direttamente della teoria del “fronte antimonopolista” e dalla
concezione dello Stato, quale ”Stato dei
monopoli”», ……, - (teoria, questa, propria della III internazionale”, a mio
avviso errata ed in contrasto con la teoria marxiana dello Stato); aggiungevo
che “è per questo motivo che Togliatti - come da Te detto in “Storia della mafia” (ed. Newton, p. 230 e
232) -, in un convegno tenutosi a Palermo a cavallo dell’operazione Milazzo,
diede a questa il suo pieno avallo politico, perché, si disse, veniva
costituito un fronte contro la rapina della Sicilia da parte dei monopoli, da
parte dello Stato dei monopoli”. Cosa, quest’ultima, peraltro non vera, ma
frutto del vittimismo proprio di un deteriore sicilianismo, di cui Macaluso non
fu esente
♦ Vengo ora alla questione su cui maggiormente mi
sembra tu dissenta, il giudizio sulla riforma agraria del dicembre 1950 di cui
pure parlo nella mia nota sulle scelte del PCI fine anni ’50. Certo che, come tu scrivi e dico anch’io
nella mia succitata nota, le
lotte per l’occupazione delle terre del ‘44 - ’50 segnarono una svolta politica
notevole di liberazione. E sappiamo che, essendo passati appena
cinquant’anni, viva era ancora la memoria nel ’44 del grande movimento di
liberazione dei Fasci Siciliani del 1893, represso militarmente dal governo
Crispi e soprattutto vivo era il ricordo delle lotte per la terra del 1919-20.
Quelle epiche del 44-50 ebbero, come sappiamo, soprattutto un grande movente
nel d.lgs. Gullo n. 279 dell’ottobre ’44 sulla concessione delle terre incolte
ed anche nel coevo d.lgs., sempre di Gullo, n. 311/44 sulla ripartizione dei
prodotti nella mezzadria c.d. impropria. Lotte che mossero, ergendoli a
soggetti, masse enormi di contadini poveri e di braccianti - (gli iscritti nelle cooperative concessionarie
di terra incolta furono 100.311) -, soprattutto nell’agrigentino,
nel nisseno, nell’ennese e nel palermitano, zone in cui maggiormente prevaleva
il latifondo. Le conquiste pur limitate di quel periodo: 86.420
ettari assegnati alle cooperative su ben 904.743 ettari richiesti, diedero
comunque un colpo serio al latifondo, e la conquista fu pagata col sangue dei
nostri martiri. Infatti, come
sappiamo, solo nel periodo dal novembre 1946 all’aprile 1948 il terrorismo
mafioso anticontadino sostenuto dai grandi agrari e dai loro gabelloti provocò
una media di due morti ammazzati al mese: i migliori dirigenti sindacali. Ed il
1° maggio del ’47 fu compiuta a Portella della Ginestra la prima strage di
Stato per bloccare col terrore il movimento di lotta sviluppatosi in tutta
l’isola e la conseguente vittoria conseguita dal blocco del Popolo alle
elezioni dell’aprile precedente. Per cui si arrivò in Sicilia alla riforma
agraria con legge del 27 dicembre ’50, operata dal democristiano Silvio Milazzo
(lo stesso della successiva nefasta operazione del ’58), in un clima di
sostanziale restaurazione, e fu partorita una controriforma, come disse allora
la sinistra. Una controriforma, il cui attore principale, come ricordo
nella mia succitata nota, fu il mercato. Non vennero intanto invalidati dalla succitata
legge gli atti di frazionamento fra parenti ed affini, perlopiù simulati,
compiuti anche pochi giorni prima dai grossi agrari per far apparire
appezzamenti al disotto del limite fissato dalla legge in 200 ettari; e fu pure
consentito e comunque non impedito che gli stessi, sempre anticipando
l’applicazione della legge, vendessero direttamente a terzi, contadini
compresi, le superfici migliori, realizzando in tal modo, spiega Renda, circa trenta miliardi che la borghesia
agraria poté destinare alla trasformazione capitalistica delle sue terre.
Tu stesso, Giuseppe, in ‘Storia
della mafia’, parlando della legge di riforma agraria del dicembre ’50 dici (p. 202 e segg.) che “conteneva norme .. che davano possibilità di
elusioni ai grandi proprietari terrieri ” e le precisi, riportando al
riguardo il giudizio negativo di Cipolla. Dici anche (p. 203) che l’ERAS (Ente Riforma Agraria Siciliana) “costituito per i contadini, cominciò a
funzionare contro contadini, mettendosi al servizio dei proprietari e dei mafiosi
interessati ad eludere la riforma”; divenendo solo un carrozzone di
sottogoverno clientelare con ben 2000 dipendenti. Sottolinei che “la mafia ottenne che Commissario dell’ERAS
venisse nominato (un amico degli amici),
Arcangelo Cammarata ”. Il quale, aggiungi (p.
204) “nominò suo collaboratore
il capo mafia Giuseppe Genco Russo”; e “quale
altro suo consulente il boss Vanni Sacco”. Pertanto, spieghi, “una folta schiera di ex gabelloti si inserì nei
ranghi dei riformatori”. Ed infine (p.
205) precisi che “di norma ai
contadini andarono le terre peggiori, quelle che gli stessi proprietari avevano
interesse a cedere all’Ente di riforma per incassare gli indennizzi”.
Pertanto, concludi, la riforma fu un fatto apparente,”volatilizzatosi
in sede di attuazione”; e di cui presto venne verificato (p. 205) “il
fallimento sociale, in relazione alle attese dei contadini poveri ”; i
quali - (dici anche Tu come fa la Saladino in “Terra
di rapina” polemizzando con l’interpretazione positiva della Riforma fatta
da Macaluso) -, “non avrebbero avuto altra
via per sottrarsi alle conseguenze della delusione subita … che quella di
emigrare” E aggiungi (p.
205) che in sostanza “il
principale effetto delle riforma fu una accelerata modernizzazione del
sistema mafioso”.
♦ L’enfasi che spesso si coglie in alcuni
scritti della destra comunista circa una attiva ed estesa direzione da parte
del PCI delle lotte del ‘44-‘50 , come ad esempio nello scritto di Amendola, “Il
balzo nel Mezzogiorno” (1943-1953), in « Quaderni di Critica Marxista » ,
1972, n. 5, p. 235, trova la sua smentita nel netto giudizio negativo che,
circa la funzione svolta dal partito in quelle lotte, diede Togliatti nel
dicembre 1949 : disse infatti che, specie nel ’49, “il
movimento dei contadini in Sicilia non è stato previsto né preparato. Esso ha
colto di sorpresa i nostri compagni” (in L’Unità 15.12.49). Giudizio,
questo, espresso nel Comitato Centrale del 14-16 dicembre ‘49, sette anni prima
della svolta del ’56 e sotto la spinta delle critiche dure – (di cui Togliatti
pur non condividendole non poteva allora non tener conto) – che erano state
svolte da Grieco specie al VI congresso del ‘47 in cui, richiamandosi alla tesi
di Lenin sulla distinzione fra rivoluzione democratico borghese e rivoluzione
socialista – (tesi a mio avviso da riesaminare criticamente) -, sottolineò
l’importanza dell’azione di direzione del Partito e criticò quei compagni che
commettevano “l’errore di credere che stiamo
costruendo il socialismo nelle campagne. Il socialismo suppone lo Stato
socialista, cioè il potere nelle mani di lavoratori” (in Grieco ‘Introduzione alla riforma agraria’, p.154).
La destra comunista, cioè i
riformisti, come Amendola, Napolitano ed anche Macaluso, esaltavano la
conquista della piccola proprietà contadina, mentre Grieco (e con lui Romagnoli, Bosi ed altri) condivise sino alla fine l’impostazione
di Lenin sulla ‘’questione agraria’ in Russia e le tesi svolte da Gramsci ne “La questione meridionale” del 1926; e
ripeteva che la vera riforma agraria è inattuabile in regime capitalistico:la terra ai contadini verrà data – diceva
- solo dopo la presa del potere. La lotta per la terra che si conduce ora -
aggiungeva – serve da un lato al progredire della coscienza di classe,
dall’altro alla rivoluzione democratica, cioè a quello sviluppo del capitalismo
che il Sud deve ancora avere, mentre al Nord è già avvenuto. Sviluppo del
capitalismo che – precisava – non significa attenuazione ma accentuazione della
lotta di classe. Grieco rimase quindi fedele alle tesi di Lenin, il quale, in
opposizione ai populisti che consideravano fonte del capitalismo agrario solo
la grande proprietà fondiaria, sosteneva che “anche
l’economia contadina si evolve in senso capitalistico separando la borghesia
contadina dal proletariato rurale” (in Lenin ‘La rivoluzione del 1905’).
Ancora Grieco scriveva nel ’50: “ci
distinguiamo dai riformisti …, perche per essi la riforma è tutto e la
rivoluzione (il socialismo) solo un motivo demagogico, mentre per noi la
rivoluzione (il socialismo) è tutto e la riforma è un nuovo mezzo nelle mani
dei proletari e dei lavoratori in generale per lottare contro il capitalismo,
per giungere ad abbattere il regime del capitalismo” (in ‘Lotte per la
terra’, p. 73)
E’ una storia da approfondire, ma è noto che nel PCI si
scontravano due linee di politica agraria, quella riformista e quella
rivoluzionaria. Sereni, rappresentante della prima linea, manifestò apertamente
la sua contrapposizione alla linea di Grieco in una nota intervista a “Mondo
Operaio” del marzo 1975, dicendo che:“una linea interpretativa diversa da quella
togliattiana era quella di chi, penso ad un compagno come Ruggero Grieco, vedeva nella lotta in corso il
compito della ‘rivoluzione democratico
borghese’ e nient’altro che questo. Un
giudizio che coinvolgeva la Resistenza e gli anni successivi. Un giudizio che
nel Partito è stato largamente presente sino all’VIII congresso. Nel 45 -
48 quei compagni pensavano fosse compito del Partito portare a termine la
rivoluzione borghese; la rivoluzione socialista era un’altra cosa. Togliatti,
Longo, io e molti altri pensavamo invece di star lavorando, in modo originale,
su una piattaforma democratica e socialista”. Un dissidio radicale, perché
mentre per Sereni e gli altri – la maggioranza riformista - la formula “rivoluzione democratica e socialista”
significò l’assorbimento del secondo termine (socialista) nel primo
(democratico) , come si legge in Reichlin ‘Battaglia
meridionalista e lotte operaie’ (Critica Marxista, 1970 n. 1 e 2, p.
35-36), per Grieco le due fasi, quella democratico-borghese e quella
socialista, rimanevano ben distinte, non solo cronologicamente, ma nel senso
leniniano, per cui il proletariato industriale, lottando per la rivoluzione
socialista, guida quella democratico-borghese dei contadini.
Per quei comunisti come Macaluso, lontanissimi, anzi agli antipodi
di questa impostazione, anche la controriforma agraria varata da Milazzo in
Sicilia nel dicembre 1950 poteva essere fatta rientrare, invero con alcuni
salti, nella ‘rivoluzione democratica’.
Sono questioni che hanno un legame col presente, perché, come ho
scritto a Favilli il 6 novembre scorso, oggi molti compagni della sinistra
radicale sono attestati in una linea politica come quella scelta dal PCI con
l’VIII congresso del 1956, e quindi per la via parlamentare delle istituzioni
borghesi al socialismo, entro, di conseguenza, i limiti della Costituzione, che
peraltro non è più neppure quella liberaldemocratica del ’47, ma una
costituzione essenzialmente liberale.
- Segnalo a tutti i
compagni il tuo saggio intitolato "Un'età
contro la storia-Saggio sulla rivoluzione del XXI Secolo", che si
può acquistare tramite il seguente link:
- Spero di
poterti presto incontrare. Intanto ti invio un affettuoso saluto, augurandomi
che Favili possa rivedere il suo giudizio storico su Macaluso e che tu possa
interloquire su questa mia lunga nota di risposta.
Luigi Ficarra
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21 novembre 2017
Caro Luigi,
condivido tono ed argomenti del colloquio. Ora
sono impegnatissimo per la costruzione della lista. Scusatemi tutte e
tutti. Abbracci.
Giovanni (Russo Spena)
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22 novembre 2017
Caro Giovanni,
ne ero certo; comunque
apprezzo molto che tu condivida, come già mi avevi precedentemente
scritto, le critiche, anche dure, mosse nei confronti di Macaluso, resosi
responsabile di una delle pagine più nere del M.O. italiano.
Non c’è dubbio sia un
avversario e non un nemico, come avevi in precedenza scritto, ma ciò non
impedisce la critica pubblica di gravissime scelte commesse, tali da render
disonorevole la sua storia. Ecco perché non avevo condiviso le tue riserve per
la denuncia dell’errore di giudizio su Macaluso fatto da Favilli.
Non solo per
l’operazione ‘Milazzo’ ma per le molto gravi modalità di comportamento di
quadri politici a lui strettamente legati, come emerge dal documento
proveniente dalla compagna Laudani, che nuovamente ti invio.
La Rifondazione del
comunismo passa anche, necessariamente, per un riesame critico della sua storia.
Un abbraccio
luigi (Ficarra)
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LINK
https://ilmanifesto.it/il-pd-e-alla-deriva-grasso-e-luomo-giusto-per-ricostruire-il-centrosinistra/ (28 ottobre 2017)
https://ilmanifesto.it/togliatti-sta-a-renzi-come-la-cultura-politica-al-marketing/ (1 novembre 2017)
Con la nascita del Governo Milazzo naufragò nel nulla la prima commissione antimafia siciliana presieduta da Pompeo Colaianni, si è dovuto aspettare al 1963 per avere una nuova commissione parlamentare antimafia questa volta italiana.
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