Nella letteratura dialettale siciliana del secolo scorso
occupa certamente un posto assai significativo il poeta canicattinese Peppi
Paci. Fu uno dei fondatori ed esponenti più importanti dell’Accademia del
Parnaso ma, pur condividendo l’atteggiamento ironico e a volte irriverente
tipico dei componenti del sodalizio, si distinse soprattutto per la genuinità
dell’ispirazione poetica e per la capacità di dar voce ai personaggi minori
della sua città. Un comune fatterello di cronaca o un aneddoto salace diventava
nei suoi versi poesia di rara bellezza.
Poche le notizie biografiche: Giuseppe Peppi Paci nacque a
Canicattì il 19 luglio del 1890 da Salvatore e Carmela Aronica. Il padre era un
muratore, ma la maggior parte della famiglia dei Paciuotti era
composta da artigiani. Peppi Paci svolse l’attività di sarto nel primo piano
dell’attuale casa Ferreri all’angolo tra piazza IV Novembre e via Sammarco. La
presenza del laboratorio artigianale era segnalata da un manichino posto sul
balcone principale. Il poeta-sarto partecipava spesso, senza un ruolo fisso,
alle rappresentazioni teatrali realizzate da piccole compagnie che portavano
avanti una gloriosa tradizione locale.
Nel 1925 incoraggiò e collaborò il commissario prefettizio Carlo
Calvi nella realizzazione della Villa Comunale. A tale scopo furono utilizzati
gli ampi spazi dei "cumuna" di Santa Lucia, realizzando
finalmente uno dei tanti sogni dei canicattinesi: uno spazio pubblico
arricchito di verde dove poter trascorrere momenti di serenità.
La villa fu realizzata in pochi giorni, grazie all’impegno del
geometra Pietro La Rocca, del fontaniere comunale Nené Giardina, di
guardie civiche, terrazzieri, netturbini e operai della Società Elettrica
“Martorana”. Carlo Calvi seguiva personalmente i lavori, consigliava, impartiva
ordini. Moltissimi cittadini accorsero con piante, fiori, materiali da
costruzione, offerte in denaro. Le prime piante trapiantate furono divelte dai
giardini del Carmine e dai depositi municipali furono riesumate alcune sculture
barocche provenienti dalla monumentale fontana “Acquanuova”. A un tale che
faceva notare l’insufficienza della villa, Carlo Calvi rispose: “Ma intanto è
molto più grande di quella che… non c’era”.
La Villa Comunale, per la verità, era già stata istituita con
delibera del Consiglio Comunale del 27 novembre 1862 e definita nelle linee
essenziali nel 1865. Sempre nel 1862, per coordinarne i lavori, era stata
nominata una commissione, composta da Leonardo Depaola, Marco Lumia e dal
sacerdote Gaspare De Caro; la Giunta nel 1865 nominò un altro componente della
commissione nella persona di Salvatore Lombardo di Nicolò. Nello stesso 1862 fu
decisa la costruzione di un bevaio a Santa Lucia. Dal 1862 al 1925 la
Villa rimase un sogno.
Sotto il fascismo la Villa Comunale fu dapprima chiamata Bosco del
Littorio e, in seguito, Villa della Vittoria.
Nel 1937 Peppi Paci diede ordine alle numerose poesie dialettali
che aveva composto nei vari anni e pubblicò, per i tipi della Tipografia
Moderna, la sua raccolta "Mascari di Paci" preceduta
significativamente da un famoso verso di Orazio: Quis vetat
ridendo dicere verum? Il titolo della raccolta traeva origine da una
delle tante attività esercitate dai Paciuotti: la creazione di raffigurazioni
in creta e cera e soprattutto di maschere in cartapesta usate a carnevale per
ironizzare su fatti e personaggi. Ma la maschera, soprattutto, consentiva al
poeta di dominare e tenere per sé il proprio tormento interiore, offrendo agli
altri un’immagine di apparente serenità velata di mestizia e talora sottile
ironia:
Mentri soffru dulura e peni amari,
e lu me’ cori la so’ paci persi;
in guerra cu me’ stissu e tra li braci,
ridu!... sutta ‘na màscara di… paci!
L’edizione del 1937 rappresenta la tappa fondamentale ed
essenziale nella produzione artistica del poeta canicattinese che in anni
successivi avrebbe composto altre liriche, manifestando più volte il desiderio
di pubblicare una nuova raccolta col titolo "Vecchi e
nuovi Mascari". La pubblicazione non fu tuttavia possibile e
solo nel settembre del 1974 Pietro Candiano, insigne cultore della storia e
delle tradizioni canicattinesi, diede alle stampe "Mascari di
Paci (vecchie e nuove)". L’edizione fu curata dall’ATEC (Azienda
Tipografica Editoriale Canicattinese).
Ma il poeta era già morto - il 26 dicembre del 1967 - a Padova
ove, dopo la separazione dalla moglie Luigia Milazzo, si era trasferito con
un’artista del circo, la signora Anna Vanfiori da cui avrebbe avuto
il figlio Mario.
Alla dolorosa vicenda familiare il poeta ha dedicato una delle sue
liriche più belle e meno conosciute. Ho avuto il piacere di pubblicarla per
primo nel gennaio del 2001 nel volume "L’Accademia del Parnaso e la Poesia
di Peppi Paci":
Era di Maggiu
e un cori sceleratu,
ca un mazziteddu avia
di rosi e juri,
mmiezzu lu fangu,
fora l’avia jttatu
picchì stuffatu s’era di l’oduri.
Ma un cori cchiù gentili lu raccogli,
lu ripulisci cu na gran primura,
di custodillu n’avi boni vogli,
lu teni strittu ‘mpettu… e si l’odura.
Ddu cori sceleratu, quannu seppi
ca n’autru n’avia lu godimentu…
di riavillu avanza li pritisi.
Ma si prima lu jttasti ‘ntra la via,
comu ora dici: chista è roba mia?
"Mascari di Paci" ci offrono, attraverso lo
sguardo attento ed ironico dell’autore, una visione disincantata dello
svolgersi della vita quotidiana, nel primo Novecento, a Canicattì, una
cittadina a prevalente economia agricola, ma con presenze assai significative
nel campo artigianale, industriale e finanziario.
Questi i temi ricorrenti nelle liriche di Peppi Paci: le difficoltà
della vita quotidiana, la morte, la giustizia, l’alternarsi delle stagioni ed
il succedersi di fatti lieti e tristi nella vita di ciascuno.
"Parti di cunzulazioni", uno dei componimenti più
belli, ci fa assistere ad un episodio assai importante in quei tempi: il
fidanzamento tra due ragazzi. Allora era un fatto che coinvolgeva tutta la
comunità: la scelta era determinata dalle trattative e dai furtivi incontri
messi in atto in precedenza dalle famiglie e, quando tutto era deciso e ne
erano stati informati i destinatari, e cioè i futuri sposi, la mamma del
fidanzato andava per le case a partecipare l’evento, tessendo le lodi della
ragazza e soprattutto del figlio che, grazie al suo mestiere, sarebbe stato in
grado di mantenere la sposa "cu salvietta". In questo aggirarsi
tra cortili e vicoli della mamma del fidanzato, quasi senza entusiasmo ma per
adempiere ad un dovere sociale, c’è lo scorrere fatalistico della vita
quotidiana nell’entroterra siciliano. Affiora nella mamma il dolore per la
separazione dal figlio ma prevale la rassegnazione: il mondo va e deve andare
così, è una scelta da fare prima o poi, non si può fare diversamente.
"Predica di Quaresima" ci indica la presenza
determinante della Chiesa nella vita dell’uomo; la predicazione, soprattutto
quella quaresimale, traccia per tutti e per ciascuno i modelli ed i canoni di
comportamento anche nella vita civile. Tutto è ricondotto alla religione; anche
le diversità economiche e sociali trovano nella predicazione spiegazione ed
inviti all’accettazione supina. Il predicatore, nella Chiesa Madre di
Canicattì, narra di un padrone che ha due buoi: uno sempre in ozio e pimpante
di buona salute, l’altro costretto a lavorare nei campi e macilento. Ma un
giorno, aggiunge il quaresimalista svelando il simbolismo del racconto, il
ricco andrà all’inferno, mentre il povero sarà accolto in cielo. Il fedele
povero che assiste alla predica si risolleva nel morale e guarda con
commiserazione il suo ricco vicino di banco prospettandogli la misera fine che
lo aspetta. Ma il ricco risponde con una sfottente risata: andremo in realtà,
mio caro, tutti e due al macello; c’è solo una differenza: la mia è carne da
sedici lire, la tua di terza qualità.
In "Lu gran sbagliu" si ribalta il concetto di
lavoro come punizione, per Adamo ed Eva, a seguito del peccato
originale: Veru castigu… è quannu ‘un c’è travagliu!.
In "Gnuranza" si ironizza sull’imparzialità
della giustizia. Nell’aula del tribunale, a Girgenti, fa bella mostra di sé una
bilancia. Si chiede il povero paesano che aspetta giustizia: e se la bilancia
dovesse incepparsi come quasi sempre capita quando si maneggiano dei pesi?:
Li putiara di lu me paisi - nun m’hannudatu mai…
lu pisu giustu!.
Un piccolo capolavoro
è "Autru è parlari di
morti, autru muriri". Una vecchietta invoca, con fastidiosa
petulanza, la morte per porre termine alle sue sofferenze, vere e presunte. Il
nipote Giacomo una notte si traveste da angelo ed annuncia alla donna che è
giunta l’ora tanto desiderata e che in cielo fervono i preparativi per accoglierla
come merita. La vecchietta, sconvolta dalla notizia, si ricompone con
difficoltà e dice al nipote: ma che fretta c’è? Fatemi un grande favore:
riferite al Signore che non mi avete trovato a casa.
‘Na vecchia centennària,
prigava a tutti l’uri:
“Miu Diu, arricuglitimi
‘ncelu cu Vui, o Signuri!
Chi campu ancora ‘mmatula?
Sulu la morti aspettu,
ch’è chidda ca po’ darimi
la paci e lu rizzettu!”.
E tra lamenti e angustii
malidicia la sorti,
e sempri murmurànnusi,
mmucca ci avia: la morti!
Li so parenti, vittimi
n’eranu e, c’ogni versu,
tutti la cunfurtàvanu,
ma era un tempu persu.
Ma lu niputi, Jàpicu,
‘na notti, cu lu velu ci affaccia,
in forma d’angilu, calatu di lu celu.
La vuci stracangiànnusi,
cci dissi: “Lu Signuri,
pi miezzu miu avvisàriti
ca ti finieru l’uri!
‘Ncelu fra canti e giubili,
cu mmia ti ‘n’acchianari,
stu munnu, tuttu scannali,
pripàrati a lassari…”.
La vecchia a sulu sèntiri
ch’era arrivata l’ura,
dici, prigannu all’angilu:
“O Diu… nun c’è primura…
Chiuttostu, siddu fàrimi
vuliti un gran favuri:
ca intra nun mi truvastivu…
diciti… a lu Signuri…
In "Lu varberi di li tempi antichi" e in
"Genti a la banna dintra"
episodi davvero particolari: il poeta con singolare
levità riesce a farci sorridere e quasi a non percepire la crudezza di quanto
narrato.
Nella prima poesia si descrive la figura del barbiere,
preponderante nel mondo che fu. Era una vera istituzione: nascita, battesimo,
prima comunione, matrimonio e soprattutto la morte prevedevano i suoi servizi;
nel tempo passato i barbieri praticavano i salassi e addirittura cavavano i
denti. Le loro botteghe erano al centro della vita sociale: lì era possibile
conoscere tutti i fatti del paese; lì si parlava e si sparlava di tutti e di
ciascuno.
Nella seconda poesia si narra di un improbabile dirottamento di un
occhio di vetro durante il pernottamento promiscuo in una locanda del paese. Un
ubriaco va a dormire in una locanda; il suo compagno di stanza, prima di
addormentarsi, mette dentro un bicchiere, sul comodino, il suo occhio di vetro
per trovarlo pulito al risveglio. L’ubriaco, poco dopo, per alleviare l’arsura
che ha dentro, beve d’un fiato l’acqua del bicchiere e si addormenta. Al
risveglio si allontana dalla locanda mentre il compagno di stanza era ancora
nelle braccia di Morfeo. A un certo punto, passata ormai la sbornia, ha bisogno
di ddu surbizzu… nni la ritirata…
Cu sforzi e cu dulura ‘un potti jri,
pirchì si ‘ntisi d’essiri… attuppatu;
mannà a chiamari un medicu pi diri:
“Mi visitassi, ca sugnu malatu”.
Lu quali, primu accumincià osservari
lu stomacu, battennu in ogni latu,
e ‘na dumanna ‘nfini vosi fari,
si ficudìnii a casu, avìa mangiatu.
… Guardannu lu darreri, finalmenti,
lu medicu ristà senza palora!
Po’ dissi: “Ma cca dintra cci su genti!...
e cci nn’è unu… ca talia fora!”.
Solo in apparenza irriverenti le poesie dedicate a Patri
Lu Bruttu, appartenente alla categoria dei preti burduna un tempo
assai numerosi.
Chiamato ad amministrare i sacramenti ad un contadino moribondo,
sente, tutto a un tratto, dalla attigua mangiatoia, il raglio di un asino
affamato. Una nota davvero stonata ed irriverente, a giudizio del prete, in un
momento così solenne; non così per il moribondo che, vedendo nella
sopravvivenza dell’animale l’unico mezzo di sussistenza per la sua famiglia,
chiama la moglie e le dice: Dunacci la paglia. Il prete richiama il
poveretto:
Chi penzi pi lu sceccu, amicu miu,
confessati cu mmia, beddu pulitu;
lu veru sceccu, a stu momentu, è Diu!
Una descrizione assai efficace dei bisogni e delle paure dei
contadini di un tempo. Nei casi di maggiore sciagura soleva dirsi con amara
ironia: A lu riccu ci morsi la figlia, a lu viddanu ci
morsi lu sceccu. Quando nella casa del povero moriva il capo famiglia, la
moglie, piangente e vestita a lutto, raccomandava al figlio maggiore di badare
all’asino per non compromettere ulteriormente la situazione:
C’ammaffari? Unu e unu du?.
Un analogo sottile gioco tra ignoranza ed irriverenza troviamo in
"Chi diavulu cc’è?", nel momento in cui padre Lo Brutto non
riesce ad aprire il tabernacolo e chiede lumi ad un ineffabile
sagrestano.
In "È cacca" il sacerdote vuol far comprendere – a
suo modo - ad un bambino che non può dargli la comunione:
N’autra vota, mentri cilibrava
la Santa Missa, quannu vinni l’ura
di la Cumunioni, s’accustava
‘na donna e, ‘n brazza, la so criatura.
Chi quannu vitti c’ognedunu stava
cu vucca aperta, e poi ad ammuccari
cci parsi, a lu ‘nnuccenti, ca cci dava
a tutti ‘na cusuzza di mangiari.
E comu propriu fu vicinu ad iddu,
a lu piattinu subitu s’attacca;
patri Lu Bruttu grida: “Ah picciriddu!
Chista ‘un si mangia, beddu miu, è cacca!”.
Ma il gioco sottile di ironia che caratterizza la poesia di Peppi
Paci raggiunge un momento di particolare efficacia in
"L’ochi di Palermu". E’ una poesia davvero
deliziosa ove si descrive lo sguardo meravigliato ed estasiato di un paesano
condotto dal padre nella città mitica e finora lontana, Palermo, nel giorno in
cui essa sfoggia il suo massimo sfarzo: il festino della patrona santa Rosalia.
La gente passeggia indossando gli abiti migliori, le ragazze sfilano, forse
anche in cerca di marito, con i visi appitturati; il ragazzo chiede
trepidante: Papà, chi sunnu chissi?. E, quasi a voler salvaguardare
l’innocenza del figlio dai pericoli della città, il padre risponde
imbarazzato: Sunn’ochi… un ci badari…. Il ragazzo è perplesso ma non
osa contrastare la spiegazione paterna.
Tornerà successivamente in città per gli studi universitari. Il
padre gli raccomanderà accortezza nel muoversi nei meandri della metropoli, di
far sacrifici e soprattutto di studiare e dare notizie di sé. Ma, in seguito,
una lettera avrebbe sconvolto il genitore:
Bedda è Palermu, o patri,
cc’è villi, cc’è tiatri,
e tanti nuvità…
Cc’è cursi di cavaddi.
Cci sunnu festi e giochi,
ma cchiù di tuttu… l’ochi…
mi piacinu… papà!
Non mancano nella raccolta riferimenti precisi alla davvero
originale, anzi unica, Accademia del Parnaso Canicattinese. In
La scecca di patri Decu si esaltano le straordinarie
capacità divinatorie della somara del sacerdote canicattinese Diego Martines
che le valsero l’onore di essere dichiarata immortale e vergine per statuto e
proclamata, col titolo La Sapienza, simbolo del sodalizio. Traendo spunto
dall’abitudine di un vecchio professore di Girgenti che non salutava nessuno ma
si toglieva con deferenza il cappello solo quando incontrava un somaro,
i parnasiani stabilirono l’obbligo di salutare tutti i somari.
Nasceva però un grave problema pratico:
Ma duvennu livari lu cappeddu,
a quantu scecchi veni di ‘ncuntrari,
è vita ca po’ fari un puvureddu,
cu lu cappeddu ‘mmanu sempri a stari?!
Dopo tanti decenni le Maschere di Peppi Paci conservano la loro
freschezza e attualità. Nel settembre del 2008 la Papiro Editrice di Enna ha
proceduto ad una ristampa dell’opera auspicata da tempo. La benemerita iniziativa
editoriale è venuta a colmare una lacuna ed offre a tutti, canicattinesi e non,
la possibilità di immergersi in un mondo solo apparentemente lontano. Con
l’augurio che siano contagiati dalla sana ironia del poeta sì da affrontare col
dovuto distacco i tanti problemi dell’oggi.
GAETANO AUGELLO
Grazie Prof per averci regalato questo suo saggio sul Poeta Peppi Paci Io da ragazzo avevo sentito parlare di questo nostro Poeta dialettale ma non ne sapevo niente di più,nel 1980 mi trovavo a Milano presso miei cugini ed avevano in mano un libro intotolato Mascsri di Paci " Stampato a Canicatti dalla Tipografia Moderna MCMXXXVII che loro avevano trovato in casa dei loro genitori,gia deceduti mi chiedevano se ne sapevo qualcosa diedi loro qualche spiegazione e li invitai a regalarmelo ma loro preferirono farmene una copia che io custodisco gelosamente e ogni tanto mi diletto a rileggere le poesie Grazie sempre per il suo impegno a valorizzare quei cittadini illustri di Canicatti
RispondiElimina