Università di Palermo, 27 giugno – 1 luglio 2017
Questo intervento nasce da un mio
studio sulla questione meridionale che porto avanti da tempo. In questi pochi
minuti mi soffermerò brevemente su due aspetti della novella LIBERTÀ di
Giovanni Verga. Vorrò prima smentire
la proposta che il racconto può essere visto come prova delle crudeltà del generale
garibaldino Nino Bixio vis-à-vis i fatti di Bronte. Poi, accennerò al problema dell’analfabetismo su cui mi sembra sia
imperniata la narrazione.
Vedo la novella come una
drammatizzazione dell’effetto schiavizzante della mancanza d’istruzione. Cioè,
alla base dell’oppressione delle masse del Sud dell’800 c’era l’analfabetismo.
Non dimentichiamo che nel 1864, ovvero 4 anni dopo l’unificazione, quasi il 90%
della popolazione meridionale era analfabeta (835 maschi e 938 donne su 1,000). Ora, cosa c’entra il racconto di Verga con tutto
questo? C’entra, e cercherò di
spiegarmi. Intanto, procediamo sistematicamente. Son certo che tutti conoscete
la novella scritta 1882. Ma è bene riassumere la trama ricordandoci che è basata sui tumulti sanguinosi di Bronte.
Garibaldi -- sbarcato in Sicilia nel
maggio del 1860 -- si era subito guadagnato la fiducia e la devozione del
popolo: Viva Garibaldi! di qua, Viva Garibaldi! di là. Alla testa dei suoi Mille, Garibaldi aveva portato nuove idee di libertà e dignitàumana.
Idee che da anni avevano preso radici negli ambienti illuministici del Nord e
in tanti centri europei. Il generale
nizzardo era riuscito a convincere i popolani dell’isola che in quanto esseri
umani non erano e non dovevano sentirsi inferiori a nessuno. Per tanto aboliva
ufficialmente l’appellativo nobiliare Voscenza—Vostra
eccellenza-- e il saluto d’obbligo baciolamano,
--modi questi con cui il popolino riconosceva la propria servilità alle classi
blasonate e spesso anche a quelle professionali—notai, medici, avvocati, ecc.
Tra parentesi, mi piace ricordare che quando crescevo io qui in Sicilia negli
50 questa forma di ossequio era ancora diffusa.
Garibaldi aveva anche impresso
nell’animo delle masse operaie la dignità del lavoro, soprattutto quella di
arare il proprio pezzo di terra. In
effetti, il diritto alla propria terra ossia la lottizzazione e distribuzione
dei demani statali era stata decretata mezzo secolo prima, ma per l’opposizione
dei baroni non fu mai messa in pratica.
Questa mancata promessa aveva contribuito a fomentare la rivoluzione del
’48. Sicché, il contributo di Garibaldi
non sta nell’aver decretata la promessa delle terre, già fatta nel 1812, ma nel risvegliare nei diseredati un diritto
sempre sognato e mai rivendicato. Il decreto del 2 giugno 1860 -- con cui
Garibaldi sanzionava la distribuzione delle terre -- ebbe un effetto molto più
profondo di quello precedente perché avvalorava la dignità umana inerente nel
lavoro. Il suo messaggio fu chiaro: siete esseri umani con tutta la dignità che
definisce l’uomo libero: inferiore a nessuno e non soggetto ad abusi e soprusi.
Garibaldi veniva ad alimentare e soffiare su un focolaio di idee, di emozioni,
e di vendetta che nell’estate del 1860
avvampò in tante parti del Sud dando luogo a rivolte sanguinose e a
barbarie raramente raccontate.
Delle tante sommosse esplose in
Sicilia, la più memorabile rimane quella di Bronte che ebbe luogo la prima
settimana d’agosto.
Stando
a quanto racconta lo storico brontese
Benedetto Radice -- le cui Memorie
storiche sono basate su testimonianze oculari e ricordi di gente che aveva
vissuto la strage -- la rivolta cominciò
tutta ad un tratto. In un “baleno,” racconta Radice,
“il fumo e le fiamme investono ogni cosa, e attorno
a quelle cataste fiammeggianti, uomini divenuti mostri, dalla testa arruffata,
satanica,.. dagli occhi iniettati di sangue … pieni di feroce gioia danzano con
tumulto gridando: Viva l’Italia! Viva
Garibaldi! Poi, stanchi, irrompono
nelle cantine…mangiano e bevono, ed ebbri di vino e di furore, corrono qua e là
a nuovi saccheggi, a nuovi incendi.”
Orrenda notte fu quella –continua
Radice--… Da ogni punto della città le fiamme e il fumo, come da tante fornaci
s’alzano al cielo …. Fra le macerie,
scene abominevoli di applausi di orde insensate … che nobilmente si erano
sollevate in nome della LIBERTÀ.
Ma tra gli incendi e la
distruzione ci fu il sangue di 16 cittadini trucidati dalla folle folla. Uno dei quali fu il notaio Cannata:
Trovatolo nascosto in una stalla,
lo presero, e lo trascinarono per le strade, a botte e a calci ….Poi
prepararono un rogo, e semivivo ve lo gettarono ad arrostire, facendo attorno a
lui una ridda infernale, e vibrando colpi di stile sul cadavere. Ci fu chi affondò il coltello nelle sue
viscere e ne leccò il sangue. –si dice che un altro, apertogli il fianco, gli
strappò il fegato e lo mangiò, plaudendo la plebe al fiero pasto.
Ora, in tutta questa barbarie,
dov’erano le forze dell’ordine? Il
Radice risponde: i capitani della Guardia Nazionale disertarono il loro posto
.. e le guardie si sciolsero per “paura o per connivenza”.
Quando il 5 agosto arrivò il
Colonnello Poulet alla testa di un battaglione di soldati, il fuoco della
rivolta si era già spento, si ristabiliva la calma, e il popolo tornava
all’usato lavoro. Ma, dice Radice, “rimanevano invendicati” le 16 vittime
massacrate dagli insorti. Il compito di
vendicare i morti toccò a Nino Bixio che, appena arrivato in paese, dichiarò lo
stato d’assedio, impose la consegna di ogni arma da fuoco e da taglio, e
istituì un tribunale militare per processare i fomentatori della rivolta --- cinque
dei quali furono condannati e subito fucilati (10 agosto).
Dunque, questo è lo sfondo storico
della novella. Della presenza e del
ruolo svolto dal genovese Bixio, la novella accenna appena che era un generale
severo perfino con i suoi soldati e che “faceva tremare la gente.” Sempre per vox populi, fu visto entrare in paese alla testa della sua truppa “piccino
sopra il suo GRAN cavallo nero, innanzi a tutti, SOLO. --- E subito ordinò che glie ne
fucilassero cinque o sei”.
Da questi accenni, scrittori di allora e
meridionalisti d’oggi di Bixio ne fanno un cruento mostro, accusandolo di “caricare
alla baionetta” uomini e donne e di aver represso con ferocia la rivolta.
Per il Radice, queste accuse sono fantasticherie. “Ma quale carica alla
baionetta”? -- se Bixio arrivò dopo che la rivolta era finita e in paese
ritornava già la calma.
Nondimeno, molti lettori vedono
nella novella una rappresentazione della repressione garibaldina e del
carattere spietato di Nino Bixio. Fanno male! Non tener conto dei fatti o
adeguarli alle proprie esigenze ideologiche mi sembra anticipare il nostro
presidente Trump o TRAMP come si dice qui in Italia.
Intanto, il racconto verghiano,
bisogna ricordare, non è una semplice narrazione di un evento storico, --- di
cui tra l’altro c’è molto d’impreciso ---, ma di una riflessione profonda sugli
oppressi che trascende spazio e tempo e si erge a verità universale dell’uomo vittima
della propria ignoranza. Vero è che la novella si fonda sulla perenne rivolta
dei birritti contro i cappeddri, come vide bene Francesco
Crispi a suo tempo. Ma c’è di più. C’è che l’analfabeta prende coscienza dell’ironia
di essere oppresso non tanto dai galantuomini, quanto dalla propria
mancanza d’istruzione. Si tratta di una rivolta disperata, feroce, insensata,
contro tutto un sistema che da sempre opprime i VINTI del mondo verghiano. La novella tratta di una rivolta contro
istituzioni che non riconoscono ai miserabili un minimo di dignità umana. Sin
dalle prime righe, l’autore ci indica le tre istituzioni contro cui si scatena il
furore del popolo:
Come il mare in tempesta. La folla
spumeggiava e ondeggiava davanti al casinò dei galantuomini—(la nobiltà), davanti al Municipio
– (lo Stato- le autorità), e
sugli scalini della chiesa.
Così il popolo, -- con falci in mano e “tutto pieno di sangue” -- si scaglia
contro gli individui che rappresentano questi poteri: A te barone!………. A te sbirro!………
a te prete!. Ammazza! Ammazza! Abbasso i
cappelli, viva la libertà! E così,
al grido di LIBERTÀ, come lupi affamati
in una mandria pensavano non tanto a sfamarsi quanto a sgozzare per la rabbia,
dice il Verga.
Poi, sfogato il furore, comincia a regnare in paese la calma inquietante dell’ansia e
dell’incertezza: “In mezzo agli urli ubriachi della folla digiuna -- prosegue il
racconto – “continuava a suonare a
stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come
in un paese di turchi”.
Aggiornava! …….. “ Una domenica senza gente in piazza né
messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato …. e di preti non se ne trovavano più.
Il casinò dei galantuomini
era sbarrato.
La rivolta si spegne così in un’allarmante tranquillità, e la
novella cambia tono e argomento.
Il popolo adesso ha ottenuto la
sua LIBERTÀ, --- avendo ucciso, bruciato, messo in fuga chi e tutto ciò che
rappresentava la causa della sua miseria.
Naturalmente --adesso da LIBERO -- si accinge a riprendere la normalità
delle sue vecchie abitudini. Ma, si rende subito conto che non è POSSIBILE vivere fuori del vecchio sistema,
cioè che non può andare avanti senza quelle istituzioni che l’opprimevano.
La domenica dopo i tumulti, gli
insorti si lamentano che “senza messa
non potevano starci, -- un giorno di domenica --, come i cani!
Inoltre, senza i nobili non si
sapeva dove andare a prendere gli ordini
dei padroni per la settimana: quali terre lavorare, cosa seminare, dove
prendere le semenze, ecc.,
In più, da come avevano inteso l’arrivo e le
promesse di Garibaldi, LIBERTÀ significava spartirsi le terre.
“ LIBERTÀ, ribadisce la vox populi, “voleva
dire che di terra doveva essercene per tutti!” Ma la spartizione presenta subito un
problema. Certamente, ora che c'era la LIBERTÀ, il furbetto tra di loro—dice il
racconto-- -- avrebbe cercato di mangiare
per due ed avere la sua festa come
quella dei galantuomini! In termini più espliciti, se non c'era più
il perito agrario per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa!
– e si sarebbero scannati tra di loro.
La novella conclude con uno dei
rivoltosi che chiede perché mai l’abbiano arrestato visto che non gli era
toccato nemmeno “un palmo di terra”. Angustiato
e confuso il poveretto esclama: “Ma se avevano detto che c’era la LIBERTÀ!..
Alla fine, le masse rivoltose si accorgono che
la rivolta non è valsa a niente perché LIBERTÀ non voleva dire semplicemente
diritto alla terra,-- come avevano creduto --ma liberazione dalla propria
ignoranza, redenzione dall’ignoranza che schiavizza e schiavizzerà
sempre l’analfabeta. Gli insorti della
novella non possono sopravvivere senza coloro che li opprimono -- cioè coloro che
sanno leggere e scrivere: il perito, il notaio, i padroni, i preti. Qui sta la tragica ironia della loro scoperta:
proprio nel momento in cui credono di essere diventati liberi, scoprono che non
possono vivere senza coloro contro cui si sono ribellati. Possono liberarsi dagli oppressori, ma non
della propria ignoranza. L’analfabeta sarà libero solo e quando imparerà a
gestire i propri affari.
Nel Sud, questa forma di schiavitù
persisterà fino al dopoguerra, --fino alla mia generazione-- quando nelle famiglie
contadine cominciava ad esserci un figlio che studiava—come si diceva allora—e i genitori non avevano più bisogno
di chi gli leggesse le carte, gli compilasse moduli e carte bollate, e gli rivendicasse i diritti. Solo allora, i
poveri saranno veramente liberi e sapranno tutelare la propria dignità
umana.
Questo, credo sia il vero
significato della LIBERTÀ di Verga.
Grazie!
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