Università di Palermo, 27 giugno – 1 luglio 2017
Nessuna pretesa di
sedere in cattedra in questa prestigiosa sede! Soltanto il piacere di
testimoniare come il mio interesse nei confronti del dialetto mi abbia portato
ad alternare la mia passione per la poesia con quella dell'arte teatrale
che dal lontano 1981 è andata maturando col solo intento di recuperare al
patrimonio linguistico del mio paese tutti quei termini ormai desueti o
scomparsi e che metto sulla bocca dei miei personaggi, unitamente
all'azione di recupero di aforismi, proverbi, vecchi detti, usi, costumi,
condizioni umane di realtà sociali ormai lontane e quasi ingiustamente
dimenticate ma dalle quali abbiamo ereditato tutta la saggezza e la
sapienzialità di cui possiamo ancora fare tesoro, soltanto perché rimangono
esperienza di vita. E l'esperienza di vita, varia e spesso anche
contraddittoria del popolo siciliano, rivive tra le pagine dei miei copioni
proprio attraverso i tipici detti e proverbi creati dagli abitanti di
quest'isola e passati di generazione in generazione.
L'amore, la gelosia, il cibo, il destino, la fortuna, le donne, la giovinezza,
la vecchiaia. E poi i parenti, la fede, la superstizione, il lavoro, il tempo,
le stagioni, la salute, la ricchezza, la povertà, la vita e la morte: non c'è
aspetto del vivere che non sia stato preso in considerazione dall'arguta lingua
dei siciliani. Non si può buttare tutto ciò nella progressività dell'oblio. E
data la varietà di questa cultura, e i suoi numerosi primati fin dall'età
classica, per cui in Sicilia si nota la nascita della commedia con Epicarmo già
nel sec. VI-V a.C., della filosofia con Gorgia e con Empedocle nel sec. V,
della scienza con Archimede nel III, della poesia lirica con Teocrito (che Virgilio,
nelle Bucoliche, chiamò suo Maestro) ...e data la varietà di questa cultura,
dicevo... il paremiologo messinese Vincenzo Scarcella ben disse nel 1846
quando asserì che “i proverbi siciliani sono più numerosi che altrove, e
gremiti di filosofici sensi”. Consistenza numerica poi dimostrata dal
medico umanista Giuseppe Pitrè e creatore di una nuova disciplina
scientifica che egli, con termine adattissimo, battezzò “Demopsicologia” (e che
poi, meno correttamente è stata chiamata “Letteratura delle Tradizioni
popolari” e più recentemente “Antropologia culturale”). E Pitrè,
della Demopsicologia ne creò la prima cattedra universitaria proprio a Palermo
e nel 1910. E passando dalla consistenza numerica al significato spirituale, il
Pitrè notò che esiste un diffuso modo di dire siciliano, secondo il quale se i
fiorentini sono caratterizzati dai tratti gentili, e i napoletani dai loro tiri
borboni, e i romani dai loro gesti grandiosi, i siciliani siamo caratterizzati
dai nostri motti e proverbi.
E non c'è una pagina dei Malavoglia di Verga – cioè della più alta
creazione letteraria siciliana – che non sia infarcita di proverbi, delle
colorite espressioni linguistiche che si fanno “piccolo vangelo” perché come il
vangelo queste espressioni “non mentiscono mai”, anche se l'esperienza di
vita - e non la pretesa saggezza - spiega la contemporaneità del
proverbio siciliano.
E se Santi Correnti ha sempre ringraziato sua madre, la Prof.ssa Venera
Leonardi da Riposto, per avergli infuso l'amore per la terra natìa e per la sua
parlata... io devo tutto alla mia maestra elementare, che pur esigendo da noi
scolarette che conoscessimo e parlassimo rigorosamente l'italiano, non disdegnò
mai di trasmetterci il valore e la consistenza delle colorite espressioni linguistiche
attraverso la poesia e il teatro dialettale. Sicché ho
sempre seguito la diatriba dei letterati italiani sul tema “ Dialetto:
lingua d'uso o reperto? ” definendo la causa “discrimine cronologico”. Perché?
Fino agli anni '50 il gioco linguistico del parlante si svolgeva su due piani:
il dialetto per i rapporti privati e per talune occasioni della vita pubblica
in cui sottolineare i valori di ascription, e l'italiano nelle
situazioni ufficiali o in cui fosse richiesta una certa formalità. Dopo di
allora le cose cambiano. La corrosione dei dialetti va di pari passo con la
distruzione delle culture tradizionali operata dalla modernizzazione, dal boom...come
si diceva qualche anno fa. Certamente il dialetto per secoli è stata una lingua
caratterizzata dalla massima latitudine diastrica. Lo hanno parlato Giovanni
Bongee e il conte Alessandro Manzoni. E non c'è di bisogno di ricordare come
per secoli i dialetti furono semplicemente le lingue dei diversi stati in cui
era suddivisa la penisola. Lingue...a pieno titolo, impiegate ogni giorno nella
comunicazione da tutte le classi sociali.
Nel “Sentir Messa” Manzoni scriveva:
”Tuttodì si parla
in questo e in quel dialetto di storia, di metafisica, di economia politica,
d'astronomia, di chimica, di meccanica, di ogni scienza ed arte, senza che a
chi parla con cognizion di causa vengan meno i termini occorrenti, e senza che
agli ascoltatori cada pure in pensiero che una gran parte di quei termini
possono esser di fatto stranieri al dialetto di cui quegli si serve”.
E nella prima metà
dell'800, Giovanni Raiberti ci ha lasciato questa testimonianza:
“ Supponete
d'essere ad un gran pranzo a leggere una bella poesia italiana. Tre quarti dei
commensali fingono di capire: i servitori stanno lì immobili e freddi come
cariatidi: se la storia è un po' lunghetta, qualche mano educata va tra la
bocca ed il naso a coprire il solecismo di uno sbadiglio: tutti poi applaudono
con molto più di serietà che di persuasione. Leggete poi una poesia milanese. E'
un tripudio ed uno schiamazzare infinito: ridono i fanciulli, ridono i
camerieri, ridono il cuoco ed il guattero che in berretta bianca si vedono a
far capolino da un antiporto per godere la scena. Insomma la poesia in dialetto
milanese è buona per tutte le età e le condizioni”.
E' così anche per il
teatro dialettale? Riesce, il teatro dialettale, a trovare una sua collocazione
nello spazio linguistico italiano? Indubbiamente SI e non solo nello spazio
linguistico prettamente italiano ma anche nello spazio del plurilinguismo in
Italia, proprio per la peculiarità del teatro di essere lingua e luogo di
aggregazione e dunque di interazione ed integrazione al contempo.
Tale convinzione è scaturita non solo da quanto ho voluto sostenere nella mia
premessa sulla validità del dialetto ma anche dalla certezza che il mio
dialetto abbia dato una certa valenza e maggiore significato al mio teatro
brillante e dialettale che ha soprattutto l'obiettivo della integrazione e
interazione onde sottolineare al pubblico che col teatro dialettale non si
assiste mai alla discesa dal sublime verso il comico ma alla salita dal comico
verso il sublime, perché il teatro dialettale è una sorta di psicoanalisi della
cultura, delle culture da quando abbiamo gli immigrati, dove il varcare la
soglia di classe coincide con il ritrovamento di ciò sulla cui rimozione si
fonda il privilegio: sulla fine, cioè, dell'esperienza umiliante di chi si
sente oggetto del mondo e ora può finalmente essere soggetto. Perché
utilizzare il dialetto nel teatro significa mantenersi fedeli e testimoniare la
condizione di chi ha sostato con struggimento fuori dai giardini delle delizie
del sapere, nella condizione subalterna, e potere assaporare - oggi - la fine
dell'esperienza umiliante di chi si sarà sentito oggetto del mondo e ora può
finalmente sentirsi soggetto, non più subalterno, ma semplicemente bisognoso di
recuperare alla cultura e a se stesso le proprie radici.
E' a questo punto che mi piace socializzare le motivazioni che mi hanno spinto
alla stesura dei miei testi teatrali: motivi didattici e motivi
socio-psicologici. Procedo accennando ai motivi didattici per tentare di
dare significato al potere interattivo e integrante del teatro dialettale.
Era l'anno 1981. Insegnavo in una quinta della Scuola Elementare del mio paese:
Delia, che è il paese che ha dato i natali al grande critico letterario Luigi
Russo... e al Prof. S. Bancheri che tutti conosciamo. Insegnavo le materie
letterarie a quei bambini. E quando spiegavo la storia, che in quinta classe
elementare contempla il periodo che va dal Risorgimento ai nostri giorni, i bambini
non mi capivano. Naturalmente spiegavo parlando in italiano. Non mi capivano!
Non afferravano i concetti storici. Non percepivano l'alternarsi degli eventi e
le loro conseguenze. Non percepivano il concetto di Unità d'Italia per cui gli
eroi del Risorgimento combattevano rimettendoci anche la vita. Né le due guerre
mondiali. Insomma… stavo parlando arabo. Dovevo ricorrere ad un
espediente. Dovevano sostenere l'esame di licenza. Dovevano soprattutto
comprendere come la storia cambi una nazione, il mondo.
Ebbi un'illuminazione! Se è vero che la tecnica del role play favorisce
l'apprendimento attraverso l'interazione dei soggetti, perché non avrebbe
funzionato la messa in scena del periodo storico che stavano studiando? E perché
non farlo nella lingua più ad essi consona all'uso? E perché non lanciare
interpretare loro un testo scritto? Detto fatto...nasce uno dei miei primissimi
testi teatrali e didattici, assegno le parti e sul palcoscenico si stagliano
tutti i personaggi: da Mazzini a Garibaldi a Pio IX, dagli eroi del Piave a
Vittorio Emanuele II, da Silvio Pellico a Cavour a Hitler e Mussolini e
all'all'ora presidente della Repubblica Sandro Pertini, a San Pietro che dietro
le porte del Paradiso ne impedisce l'accesso esigendo da tutti di sapere chi
sta mandando alla sfacelo la più bella Nazione che Dio Padre abbia creato: la
nostra Italia. Un alternarsi di prove vivaci, di soste di riflessione,
comprensione ed elaborazione dei contenuti che mettevano quei bambini
protagonisti tutti sullo stesso piano della comprensione dei concetti storici e
degli accadimenti, nonché la maturazione sul piano dell'autostima, della
cooperazione, del rispetto delle regole legate al tempo e alla gestione dello
spazio scenico. In dialetto, dunque, rappresentano in modo magistrale quella
commedia alla quale diedi il titolo di “CIENTUCINQUANT'ANNI D'ITALIA”. Poi
chiesi loro l'ultimo sforzo: spiegarmi in italiano gli accadimenti, cause ed
effetti. Non fecero fatica alcuna e a modo loro spiegarono, quasi con parlata
alla commissario Montalbano, la storia all'insegnate che agli esami li
interrogò sbalordita.
E ancora, i motivi socio-psicologici. Il mio paese non offre grandi
occasioni di svago o di arricchimento culturale. E le più penalizzate sono le
donne, le mamme, le casalinghe e anche le professioniste che dopo il
lavoro non trovano svaghi “dopolavoro” e possibilità di crescita culturale.
Nasce così l'Associazione Culturale Teatrale “Amici per di(a)letto” che si
compone di 32 soci attori tra uomini e donne, giovani e meno giovani vogliosi
di condividere i miei obiettivi. Quali obiettivi? Portare avanti la cultura del
teatro amatoriale, popolare e dialettale; recuperare allo scrigno della memoria
la realtà sociale e la cultura della mia gente dagli anni '50 ad oggi
attraverso la parlata locale e la sapienzialità proverbiale; esperire momenti
di aggregazione ed inte(g)razione non solo fra concittadini ma anche con gli
immigrati marocchini e romeni numerosi nel mio paese e migliorare la
comunicazione nel nostro spazio linguistico italiano. Obiettivo, quest'ultimo,
realizzabile sull'esempio dei bambini di quella indimenticabile quinta
elementare. Infatti, attraverso l'esperienza del teatro continuiamo lo scambio
e la fusione di culture e saperi diversi, maturando la conoscenza di quanto ci
accomuni a loro in termini di proverbialità, tradizioni, antiche usanze.
Un semplice esempio: ogni due anni, vista la numerosa presenza di
extracomunitari nella nostra regione, in ambito provinciale si svolge la Festa
dei Popoli. Un mese dedicato all'accoglienza, all'integrazione e interazione
con lo scambio di piatti tipici, di lavori artigianali, di incontri culturali
con autorità straniere e quant'altro. Da qualche anno mi lascio coinvolgere, ho
realizzato dei Musical con bambini, adolescenti e giovanissimi del mio paese,
marocchini, tunisini e romeni di età compresa dagli 8 ai 15 anni. Ragazzi con
qualche lacuna linguistica ma ben capaci di comunicare fra loro col dialetto
che hanno appreso dai loro coetanei. Il titolo del Musical rappresentato è
“TUTTI I CULURA D'U MUNNU” (“I colori del mondo”). Ebbene, durante
l'illustrazione del testo che questi ragazzi dovevano memorizzare... scopro che
abbiamo in comune, con i Paesi di origine di questi ragazzi, diversi detti,
aforismi e proverbi siciliani e nostrani. Per esempio i proverbi:
Gura care nu vorbeste
se numeste dovleac (“Vucca ca nun parla si chiama cucuzza)
Vulpia a spus
ièpurelui ca nimeni nu se imbogateste, cu lucrul sau (“La vurpi ci dissi a
lu cunigliu...nuddru s'arricchisci ccu' lu so' travagliu”)
Sarac da, dar
murdare de ce ? (“Povira si, ma ludia pirchì?), proverbi
che sono stati
pronunciati dai ragazzi interpreti nella loro madre lingua e ben compresi dal
pubblico, perché poi in teatro è molto importante l'espressione facciale e
gestuale che favorisce la comunicazione del messaggio.
Ciò ha dimostrato agli adulti del mio paese e della mia provincia quanto il
teatro dialettale ben si innesti nello spazio linguistico italiano proprio
attraverso interazione, integrazione, scambi culturali che consentono il
dialogo e l'apprendimento linguistico. I bambini e i ragazzi del mio paese si
sfidano nell'apprendimento della lingua italiana e della parlata araba e
romena, senza destare preoccupazione ai genitori o agli insegnanti che
piuttosto gioiscono nel vedere superare le barriere che impediscono la buona
comunicazione.
Tutto ciò accade semplicemente perché in Sicilia, che è stato il crogiolo in
cui si sono incontrati, ma più spesso scontrati ed avvicendati i conquistatori,
i vinti hanno assimilato e commisto diverse culture le cui filiazioni,
incidenze, sedimenti e tracce etnologiche sopravvivono nel tempo. E gli indizi
più certi di questa varia e multiforme realtà etnografica sono lo strumento
linguistico e la sua dinamica, gli stessi moduli lirici e di contenuto, la
fisionomia che la poesia e il teatro hanno assunto nei canti e nella
letteratura isolana.
Il teatro è, più di ogni altra manifestazione, lo specchio fedele di questo
policromo magma, più o meno informe, che ha favorito l'individuazione di un
luogo privilegiato, dove il conflitto tra vincitori e vinti doveva
sembrare accettabile, non traumatico e pur anche stabilizzante.
Per esempio: un preconcetto, assai diffuso, ratifica l'idea che il popolo
siciliano si identifichi molto più ben volentieri nelle commedie brillanti o
anche nella farsa, che non piuttosto nella drammaturgia dialettale. Insomma
vige l'opinione che a prevalere sia una natura ilare e ridanciana, frutto
magari inconscio di un atavico, grigio retaggio esistenziale, non sempre
vissuto con serena consapevolezza e rassegnazione. Non è del tutto vero, ma
certo ben vera è l'ipotesi pirandelliana che ci vuole “tristi e melanconici perché
si ha il senso tragico della vita” ereditato da secoli di soprusi ed
angherie patite, che hanno necrotizzato una natura solare,
fondamentalmente briosa, che affida all'umorismo la sua rivivificazione.
Ma molto più semplicemente direi che siamo siciliani con la nostra storia,
cultura, morale e valori, magari così radicati e profondi da apparire
eccezionali nella loro apparente assolutezza; e la predilezione presunta per il
farsesco è più facilmente ascrivibile ad una educazione letteraria e ancor più
ad una tradizione teatrale che ha sempre privilegiato il genere brillante (che
è anche il mio) grazie soprattutto alla genialità comica dei nostri più quotati
attori di ieri (Grasso, Aguglia, Musco). Ma di questo modo di essere siciliani
ne sono testimonianza non solo l'eufonica, euritmica lirica ed il brioso e
brillante teatro dialettale, quanto, e non meno , la drammaturgia che ha
garantito nomi come Giusi Sinopoli, Garibaldi Bosco e sopra tutti Alessio Di
Giovanni per suffragare autorevolmente i non pochi pregevoli autori di teatro
dialettale. E un dialetto come lingua, in una regione come in una nazione, è
indubbiamente capace di esprimere integralmente l'anima della sua terra, con
immediatezza e vigore, più nelle varie localistiche parlate che non
nella sua Koiné.
Il dialetto è lingua aulica e nobile, per dirla con Corrado Avolio, perché “re
svevi ed angioini, catalani, aragonesi e castigliani l'avevano parlata nei loro
rapporti coi siciliani”. Ed è lingua che nel teatro si fa solenne e grave,
qualificando ambienti e personaggi. E il teatro dialettale, in ogni regione
d'Italia, è sostanziato di elementi che si fissano in quel realismo
dialettale, fuori da convenzioni teatraleggianti ed equivoci termini di
conformistico ottimo borghese; ed esplode nella sua integrale, coeva,
bruciante attualità che è andata scemando, ahimè, solo per il dimenticatoio
scenico in cui langue da decenni la nostra più idiotica drammaturgia, sebbene
molte (troppe, oserei dire) compagnie teatrali siciliane, per esempio, battano
senza requie le sicule contrade col loro groppone, il solito,
inesauribile, collaudato e talvolta martoriato Martoglio.
Non dico ciò perché non ami Martoglio. Tutt'altro, lo adoro come adoro tutto il
teatro comico dialettale. Ritengo però che un teatro di qualità quale è quello
dialettale (nel mio caso il siciliano, ma va bene per tutti i dialetti
regionali), merita ben altra attenzione e ben altra considerazione, sia da parte
del mondo dello spettacolo che da quello accademico; e questa tribuna (o
platea) mi pare tra le più qualificate - per la presenza di studiosi di
grande autorevolezza e prestigio – alla ricezione del messaggio. Un
messaggio che ritengo fortificato dalla aderenza delle varie forme di teatro
dialettale alla particolare verità umana e storica dei siciliani, come dei
trentini o piemontesi o toscani o napoletani. La verità umana della gente,
dunque. Della nostra Italia. Teatro d'ambiente e di carattere quello
dialettale, che ben si colloca nello spazio linguistico italiano, e dunque
teatro autentico che rivela una rispondenza quasi perfetta tra l'umile tragica
realtà quotidiana individuale e la dipintura che l'artista ne dà, compiendo
solo una profonda interpretazione lirica, senza minimamente deformarla nei suoi
segni essenziali.
Tutto nel teatro dialettale è attinto dalla realtà; soggetto e sceneggiatura,
linguaggi e personaggi sono presi nella loro integralità, e sono semmai sfoltiti
del superfluo lessicale e tipologico che avrebbe potuto conferire una
alterazione grottesca e caricaturale. Realismo ed umanità impongono di non
ammassare i più torbidi colori intorno alle figure chiamate a vivere sulla
scena, perché esprimano efficacemente la nequizia del mondo e della vita. E'
evidente l'intenzione di dare al teatro dialettale un dramma di ambienti
indigeni solidi, contegnosi e solenni, e di affondare le sue radici sul terreno
autoctono: “Io scrivendo teatro dialettale” - affermava
Alessio Di Giovanni - “ m'ero soltanto preoccupato di tentare un teatro
veramente indigeno nello spazio linguistico e letterario: non un teatro di
argomento siciliano in lingua italiana, come quello del Verga, e che poi altri
traduceva faticosamente in dialetto, ma un testo pensato ed espresso
direttamente e scrupolosamente in puro saporoso siciliano (Teatro
siciliano, Catania, 1932, p. XXII).
Un puro e saporoso dialetto rivelatore dei modi di ben rintracciabili centri
delle varie regioni italiane che conservano ancora intatta la loro integrale
idioticità, fuori dalle tentazioni, talora mistificanti, della cosiddetta
iperdosata ragionevolezza artistica che la lingua impone o propone. In tal
senso e con tali accorgimenti questo genere di teatro diventa l'espressione
viva e palpitante dello spirito umano e sociale, e non solo nella nostra isola;
e si fa anche specchio nel quale si riflettono i raggi della cultura di
un autore che dosa , nel suo teatro dialettale, comicità, drammaticità,
realismo, superando la tentazione di ricorrere ad elementi della tradizione
drammatica borghese e regionale. Ed è chiaro che il dialetto, in questo ben
definito quadro teatrale, diventa insostituibile, trattandosi in vero “di fare
pane siciliano- o friulano o abruzzese – con farina siciliana o friulana o abruzzese”,
come sosteneva Guglielmo Lo Curzio.
Sicché i temi della solitudine, dell'incomprensione sociale, della passione
amorosa, della miseria, delle difficoltà economiche, della disperazione e della
speranza non necessitano ne di rilievi plastici ne della facoltosa lingua
italiana per essere espressi o significati. Nulla di eccezionale dunque, perché
per esprimere il dolore, il tormento, l'angoscia e la gioia, le parole sono
quelle usuali, quelle che attingono alla più genuina espressività popolare che
è riflesso della realtà paesana, di ogni realtà paesana, e la vita dei
personaggi di un paese di questa regione-nazione, non possono e non potranno
esprimersi diversamente. E il dialogato teatrale prima di essere un linguaggio
scritto è verisimilmente il linguaggio della comunicazione al livello di una
cultura popolare, propria del personaggio che, sul piano linguistico, lo rende
partecipe del patrimonio culturale comune.
E concludo dicendo che dentro tale tessuto dialogico è chiaro che a
determinarsi non è l'immissione del soggettivo come sensazione e sentimento;
piuttosto un linguaggio emozionale vernacolare di impronta unicamente
sociolinguistica. E non resta altro da rilevare che questo semplice teatro
dialettale non idealizza e neanche fotografa... ma piuttosto riproduce
fedelmente fisionomie, usi, costumi, ambienti e situazioni che si fanno
specchio e documentario teso a recuperare quella porzione di vita
regional-popolare e sollevarla ad una sfera da cui è stata, più che esclusa,
non considerata.
Si badi, però, che il problema non si pone nel dualismo lingua-dialetto tour
court. Affatto! Il problema è certo antico, e ritengo ormai superato e lingua e
dialetto non si pongono sul registro dell'antagonismo e non vi si pongono non
solo artisticamente, ma nemmeno sociologicamente, diversamente da quanto
ritenuto da qualche ben pensante, solo qualche anno fa, che nel diverso uso
dello strumento linguistico pretendeva di individuare e selezionare le classi
sociali.
Oggi tutti guardiamo Montalbano in TV. E tutti in Italia ne comprendiamo
la parlata che ha trovato perfettamente spazio nel territorio linguistico
italiano. E perché Cammilleri fa parlare così i suoi personaggi? Soltanto per
un irresistibile bisogno di rendere l'anima della sua terra con quella
semplicità spontanea e con quella sicura immediatezza che si possono ottenere
interamente adoperando il vermiglio linguaggio dell'isola e perché soltanto con
il suo corrusco fiammeggiare e con la sua armonia accorata, si può dare una
impronta schiettamente paesana alla narrazione e alla rappresentazione.
Dialetto e lingua convivono nello stesso spazio. Spiro Scimone, autore di
teatro dialettale – dice Franco Cordelli – nelle sue opere ha dato la stessa
importanza a lingua e dialetto, senza sminuire ne l'una ne l'altra, ma
facendole vivere quasi in una macro-realtà quale quella della loro recitazione;
il teatro dialettale gode di importantissimi esempi di bravura artistica,
intellettuale e non solo, dalle origini all'età contemporanea e ancora riesce a
guadagnare e affascinare la gente e a mantenere saldo e forte l'orgoglio delle
nostre regioni italiane in tutto il mondo. E mi permetto di asserire...il
dialetto siciliano più degli altri.
E per questa peculiarità propongo che il teatro dialettale si affermi
sempre più nello spazio linguistico italiano, perché possa gramscianamente
ancora dissetare lettori e spettatori come in una ricca sorgiva di poesia di
amore e di passione, capace di rinfocolare riflessioni e discussioni di cui
questa desueta, coeva generazione ne avverte interamente l'impellente
necessità.
Lina Riccobene
RICORDIAMO GLI AUTORI
DI TEATRO DIALETTALE IN ITALIA:
ROCCO CHINNICI
PINO GIAMBRONE
ARCANGELO CONZO
RENATO FIDONE
SALVINO LOREFICE
FRANCESCO PRINCIPATO
ANGELO SCAMACCA
TINA SILVESTRI
GIANBATTISTA
SPAMPINATO
...CHI VI PARLA...
E
TANTI ALTRI.
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