Francesco Zappert |
Della Sicilia e dei siciliani a metà
Ottocento abbiamo una originalissima e davvero particolare descrizione grazie
alla narrazione della battaglia dell’Aspromonte curata da uno dei protagonisti,
il capitano Francesco Zappert, e pubblicata nel 1863. Zappert, di padre
viennese e madre ungherese, visse a Milano ove svolse l’attività di agente di
teatro; morì il 5 ottobre del 1898.
Rispondendo all’invito di Giuseppe Garibaldi: “Venga
a Palermo chi può fare il viaggio a proprie spese e vivere laggiù del proprio”,
alle ore 23 del 20 luglio 1862 si imbarcò sul vapore La Stella d’Italia che faceva rotta alla volta di Napoli. Giunto
nel capoluogo campano alle 14 del 22, l’indomani, insieme ad altri garibaldini,
si imbarcava sul Pompei alla volta di
Palermo.
E proprio sul Pompei, “un vecchio legno a vapore largo, corto e pesante”, si
materializza un primo siparietto di vita siciliana:
“Manco male che abbiamo a bordo un passatempo.
E’ una famiglia siciliana, composta di una vecchia megera e di una madre con
tutta una nidiata di figli. Sono suocera e nuora. Questa gente non offre a
prima vista uno spettacolo gran fatto rallegrante. Buttati alla rinfusa sul
ponte, malconci nelle vesti, guaste le faccie da malattie cutanee, somigliano
ben da vicino una famiglia di zingari. La vecchia è la meglio in gambe: veste
un abito di mussola bianco e turchino, abbastanza pulito, ma lacero; è ben
pasciuta della persona e borbotta del continuo contro la nuora, stesa sul ponte
in mezzo a’ suoi quattro marmocchi. Ad un tratto, le parole che si scambiano le
due donne si fanno più vive; la vecchia impreca alla nuora chiamandola
“garibaldina” e l’altra di rimando “borbonica”. I passeggieri si affollano
intorno alle contendenti e riescono a pacificarle. Ma è allora che comincia il
divertimento. La conversazione si fa generale. Un marchese palermitano prende a
difendere contro la suocera le opinioni della nuora: e bisogna udire allora la
vecchia sostenere a spada tratta il suo re, combattere per i suoi diritti,
impugnare quelli d’Italia! Sola contro tutti, con un entusiasmo degno di
miglior causa, tiene alta la bandiera di Francesco II; vedova d’un capitano del
Borbone, lamenta i tempi trascorsi, e, a noi che a bello studio esageriamo le
felicità presenti del suo paese, getta in faccia le gravose imposte, la carezza
del vivere, la coscrizione: bagattelle che la Sicilia non possedeva ai beati
tempi di don Ciccio. In mezzo all’ilarità destata dall’ignorante esaltazione
della vecchia le ore corron veloci e senz’avvedersene si arriva”.
Alle 15 del 24 luglio lo sbarco nella rada del capoluogo siciliano.
Preso alloggio all’Hotel de France, Zappert e
il maggiore Cairoli, col quale aveva fatto il viaggio, passarono il resto della
giornata fra il Caffè Oreto, ritrovo dei continentali che allora incominciavano
ad arrivare a Palermo, una passeggiata fuori di Porta Monreale ove pranzarono,
ed una scarrozzata la sera al corso della Marina.
Il 25 luglio Zappert, Cairoli ed altri
volontari, appena giunti a Palermo, poterono incontrare Giuseppe Garibaldi.
Grande l’emozione dei visitatori: “Si volse a noi, e ad uno ad uno ci strinse
la mano. Non parlò, ma lo sguardo che fermò sopra ciascuno di noi era pieno di
promesse che l’anime nostre colsero al volo. In quello sguardo fu tutta la
presentazione; egli ci riconobbe di primo tratto pei soldati di Roma, di Varese
e del Volturno; noi ritemprammo in quella stretta di mano le nostre forze”.
Zappert, che aveva già incontrato Garibaldi a
Messina, due anni prima, durante la spedizione dei Mille, annota: “Chi non fu
soldato di Garibaldi non può sapere che cosa sia una sua stretta di mano. I
brividi che la ti comunica sono la febbre dell’entusiasmo. Se quest’uomo
potesse toccare tutti gli italiani, le apatie sparirebbero per far luogo agli
eroismi. L’Italia sarebbe una veramente e libera”.
Giungevano intanto dalla Toscana, dalla
Lombardia, dalle Romagne e da tanti paesi della Sicilia numerosi volontari che
a sera passeggiavano per via Toledo (oggi via Vittorio Emanuele). E a Corleone
erano radunati dai sei a diecimila armati.
Zappert ed altri sette volontari alloggiavano
all’Albergo d’Italia, “denominazione troppo suntuosa per una semplice locanda”;
l’albergo era ubicato di fronte la cattedrale, nelle vicinanze del palazzo ove
alloggiava il Generale. I volontari potevano godere dei servigi di una vecchia
fantesca dal nome beneaugurante di Provvidenza.
Il 31 luglio scattò il piano di uscita dalla città.
“La partenza incominciò alla spicciolata. Ad uno ad uno, a due a tre, chi a
piedi, chi in carrozzella, colla valigia in ispalla o col fagottino legato alla
punta d’un bastone. I più in vesti borghesi, qualcuno in camicia rossa coperta
da un soprabito, sfilammo senza rumore per porta Termini, oltrepassammo il
ponte dell’Ammiraglio, e seguendo il muto cenno delle guide appostate ai luoghi
ordinati, ci raccogliemmo a certa casina Albanese, situata in mezzo ad un campo
cintato da siepi, e tagliato nel mezzo da un viale cui fa capo un cancello”.
“Bello e grande” lo spettacolo offerto da quel
cortiletto della casina Albanese: “Tutta l’Italia aveva dato il suo piccolo
tributo a quel ritrovo di cittadini che stava allora trasformandosi in battaglione
di soldati. Era un rapido ed allegro cangiar di vestito, un ricambiarsi di
festevoli augurii, mentre si ripulivan l’armi, si contavano i cartocci. Venti
dialetti diversi eran quivi parlati da gente che non domandava ove si andasse:
sapevano solo che il Generale ne precedeva, e non si chiedeva altro”. Nessuno
chiedeva quale fosse il numero dei siciliani radunati, si diceva, a Corleone o
a Piana dei Greci o degli altri volontari provenienti dalle altre regioni: “Non
chiedevamo né il numero di quelli, né il nostro; bastava a noi la camicia
rossa, il moschetto e la fede in lui”.
A mezzanotte la partenza, ma “la persona
incaricata di insegnarne la via, o credette riconoscerla, o dimenticò farsela
accennare”. I rari contadini presenti nella zona, impauriti dall’insolito
clamore notturno, non aprivano la porta di casa e “i frati del vicino convento
si rifiutarono, da veri frati, a venire in nostro soccorso”.
Alle 11 del 1° agosto i volontari raggiunsero
Piana dei Greci, accolti festosamente dal sindaco e dagli abitanti: “Numeroso
di nove o diecimila anime, Piana dei Greci è un villaggio abbastanza vivace.
Posto sulla strada consolare, i suoi abitanti mi parvero assai più industriosi
di quelli d’altri paesi che in seguito attraversammo”. In serata tutti alla
Ficuzza ove Garibaldi aveva stabilito il suo quartier generale all’interno del
Palazzo Reale dei Borbone.
All’alba del 2 agosto i famosi diecimila
volontari che si sarebbero radunati a Corleone apparvero per quello che erano
nella realtà: poco più di un migliaio in condizioni, per usare un eufemismo,
precarie: “Armi poche, vestiti meno ancora. I più avevan la testa come i piedi,
all’adamitica. C’erano soldati della campagna del ’60, ma più numerosi di loro
i fanciulli. Mi ricordo di un capitano, il solo che portasse in quel giorno
distintivi d’ufficiale, che comandava, con un sussieguo da veterano, una
squadra di dodici o quindici ragazzi, il più vecchio dei quali non aveva dieci
anni”. Estremamente difficili le condizioni logistiche: “Una fontana nel
palazzo, che innanzi il nostro arrivo aveva dato acqua in abbondanza, d’un
tratto inaridì. Da mangiare non v’era che pane, e il caldo facevasi soffocante!
Arrivò del vino verso le 9, ma, come suole avvenire in codeste distribuzioni
garibaldine, molti non ne toccarono, pochi se n’ubbriacarono”.
In serata l’arrivo a Mezzojuso e si dovette
“fare a’ pugni e rompersi le costole per penetrare in un angusto caffè dove
distribuivasi un poco d’acqua. E se volemmo riposarci e dormire, ne toccò
accontentarci d’un canto della piazza dove raccoglievansi le immondizie dei
porci. Era l’angolo più puzzolente della Sicilia, che pur non si picca, in
genere, di pulizia”.
Nella mattinata a Mezzojuso era
giunto Giuseppe Garibaldi. Accolto dalla popolazione con entusiasmo, partecipò
nella chiesa principale ad una cerimonia religiosa officiata da sacerdoti di
rito latino e di rito armeno.
Nella mattinata del 3 agosto l’esercito
garibaldino si sparse per le vie del paese: “I più vanno in cerca di vitto e
trovano frutta, vecchie galline e carni di montone, tutto aumentato del doppio
nel prezzo. Io e qualch’altro, più desiderosi di pulizia che d’alimento,
saliamo ad una fonte abbondantissima dove s’abbeverano bestie e paesani coi
piedi in una fetida pozzanghera. Là ci tuffiamo, con quella voluttà ch’è solo
conosciuta dal soldato che marcia da parecchi giorni senza togliersi i panni di
dosso e senza lavarsi”.
Giunsero nello stesso giorno al quartier
generale di Garibaldi due esponenti moderati della “notabilità” palermitana:
“il duca della Verdura, ricco patrizio, e il prof. La Loggia, medico distinto e
capo della Sanità dell’isola”. I due comunicavano al Generale l’arrivo di un
nuovo prefetto, il Cugia, “munito di estesi poteri allo scopo i opporsi alla
spedizione”. I due ebbero in risposta “rifiutarsi Garibaldi a lasciare
l’impresa; essere inflessibile voler suo e de’ suoi il compiere il programma di
Marsala, pur evitando ogni lotta colle truppe regie”. I volontari garibaldini
ripresero “la via di Roma a piedi, già laceri e scalzi dopo due sole tappe”.
Zappert volse un ultimo sguardo a Mezzojuso: “E’ un ammasso di casupole
poste a cavaliere di un monte, ed abitate da un diecimila cenciosi e da un
numero eguale di cani e di maiali. Per darvi un’idea della ricchezza del paese
basti pensare questo, che non ci fu possibile cangiar una piastra (cinque
franchi e qualche centesimo) da nessun venditore di commestibili o d’altro, e
se volemmo aver moneta, ne bisognò rivolgerci al sindaco od a qualche prete
armeno i quali arrivarono tutt’insieme a spezzarci una ventina di franchi”.
“Quest’è del resto la condizione di tutta la
Sicilia: il numerario vi scarseggia e l’oro vi è quasi sconosciuto. Immense
quantità di terreno non coltivato, l’industria nulla, il commercio meschino, le
vie di comunicazione difficili, l’ignoranza e la superstizione che un sistema
in acconcio d’istruzione non vale a dissipare: ecco le cause della povertà di
un paese che potrebbe essere, come già fu, lo scrigno d’Italia”.
Il 4 agosto una tappa d’oltre diciotto miglia
da Mezzojuso ad “una cascina isolata chiamata Manganaro”. Quindi a Rocca
Palomba “villaggio situato sul pendio d’un monte; un masso roccioso, a piombo
sopra quelle cento case, l’una sull’altra agglomerate, sembra per le poverette
una continua minaccia”. Garibaldi fu accolto anche qui con “frenetiche grida di
gioia” ma “non parvero in complesso i Rocca-palombesi di cuor troppo aperto.
Molto chiasso e pochi fatti: tenerezze a furia e borsa chiusa”. Aggiunge
Zappert: “Immagine in piccolo di una contrada assai più vasta e popolosa e
incivilita - che si chiama Lombardia - dove tre mesi innanzi, allorché
Garibaldi la percorreva in trionfo, un entusiasmo infrenabile pareva promettere
all’Italia eroici fatti, e dove la spedizione del capitano del popolo non trovò
che rari aiuti, dove la catastrofe d’Aspromonte non ebbe che una flebile eco”.
Il 5 agosto il piccolo esercito raggiunse
Lalla (Alia), “villaggio che siede sulla cresta d’un monte e che sembra stender
la mano in aria protettrice a Rocca-Palomba”. La sosta a Lalla fu “una delle
più belle giornate della trista iliade che ebbe fine ad Aspromonte”. Grazie all’ospitalità
del patriota dottor Antonino Spadaro, il capitano milanese gustò “le delizie di
un letto soffice e sprimacciato, dopo aver dormito per cinque giorni a ciel
sereno e sovra guanciali di pietre” e poté sedere “a desco imbandito da
un’ospitalità cortese, premurosa, quasi riconoscente dell’avermi a commensale”.
Il 6 tappa nella “valle d’Olmo”, in un
villaggio “che ben si noma dall’avvallarsi che fa nel mezzo di altissimi
monti”. Era domenica, giornata di festa, e la gente si affacciava sulle soglie
di casa incuriosita ed allietata da campane che suonavano a distesa. Tutto
faceva sperare in una sosta fortunata. E invece: “Poveretti noi! In
nessun’altra città o villaggio trovammo tanta ripugnanza e freddezza. I viveri
incarirono d’un tratto fino ad un prezzo esorbitante; le case si chiusero;
l’acqua, (un’acqua giallognola mista a pagliuzza) ne fu fatta pagare fin due
baiocchi il bicchiere. A mala pena, dopo aver battuto a non so quante porte
inesorabili, io e qualch’altro trovammo un cantuccio dove far arrostir sulle
bracie un brandello di carne di montone. Il vino, che pagammo dodici baiocchi
la cannata (La cannata è una misura siciliana che equivale al nostro antico
boccale, quattro quinti di un litro) era acido e fracido”. Seguì una lite tra i
valligiani accusati di “ladreria” ed i volontari.
A sera i garibaldini raggiunsero Valle Lunga
ma non vi sostarono: “Un ordine dello Stato Maggiore ingiungeva di continuar la
marcia fino a Villalba, poiché dicevasi Valle Lunga infestata dalla mal’aria; e
però tornasse pernicioso il passarvi la notte. Attraversammo tristamente il
villaggio che ci parve bello, popoloso, pieno di vita, solo forse perché
eravamo costretti passare innanzi, e ci arrampicammo fino a Villalba, da cui ci
disgiungeva una grossa ora di salita. A notte fatta fummo sul luogo, e ci
andammo tutti a raccogliere in una cascina fuor del paese, in una posizione
anche più elevata, dove Garibaldi aveva impiantato il Quartier Generale. Una
quantità di fieno accatastata nell’ampio cortile della cascina offrì a tutto il
battaglione un comodo letto”.
Zappert annota che il paese appartiene alla
marchesa Villalba che ama però risiedere a Livorno: “Fa benissimo a preferire
la seconda città di Toscana, al suo vasto podere, che non le darebbe modo a
ricambiar parole con persona civile. La posizione di Villalba, magnifica per un
poeta e uno strategico, non ha lusinghe per una dama dell’alta società, la
quale non vi troverebbe altro consorzio che quello del suo fattore, d’un povero
prete quasi illetterato, e di un’infinità di capre, di montoni, di ciucci”.
Compare a questo punto della narrazione un
frate di nome Pantaleo che già nel 1860 si era speso in favore dei garibaldini.
Stavolta, per la maggiore confusione politica che circonda gli avvenimenti, il
frate non può far molto e compare nella narrazione sol perché dà notizia di uno
scontro avvenuto tra le truppe governative ed i garibaldini siciliani a Santo
Stefano di Quisquina. Lo scontro causò una decina di vittime e non degenerò
ulteriormente grazie alla freddezza ed al coraggio del giovane garibaldino
Enrico Cairoli. I volontari siciliani – riferì il frate - avevano lasciato
Santo Stefano e si erano diretti a Castel Termini. La notizia dello scontro fu
riferita a Garibaldi che, dopo una prima violenta reazione verbale, preferì
evitare rappresaglie che avrebbero compromesso il prosieguo della spedizione.
Assai efficace la descrizione del frate:
“Padre Pantaleo è un giovane frate in sui trenta anni, né alto né basso,
tarchiato di forme, dal volto aperto e sorridente, benché ornato di folta
barba. Veste una tunica monacale, cinta ai fianchi d’un cordone bianco, pel
quale mi avvenne qualche volta di veder passare o uno stiletto od un revolver.
Marcia quasi sempre a cavallo… Chi dicesse che padre Pantaleo non abbia reso
servigi nella prima campagna di Sicilia indurrebbe altri in errore. Benché
dotato di una eloquenza che nulla ha d’elevato, pur la sua parola fu di impulso
irresistibile nei primi momenti della rivoluzione palermitana. Egli bandì una
vera crociata presso quelle popolazioni ignoranti, trascinate, più che
dall’eloquenza, dall’abito francescano dell’oratore. Vi ha più superstizione
che religion vera in Sicilia. E’ un popolo di idolatri, che non si conosce di
dogmi, e tiene in grand’onore le immagini. Garibaldi ha in ciò perfettamente
conosciuto i siciliani: egli interviene alle loro funzioni di chiesa e dà a
queste una solennità di più colla sua figura da Cristo. Egli si è con ciò assicurato
un posto in tutti i casolari della Sicilia, a fianco della Madonna e di Santa
Rosalia”.
L’otto agosto, al sorgere del sole, i garibaldini partirono da Villalba,
alla volta di Santa Caterina: una tappa di ventitré miglia con una “sosta ad un
piccolo villaggio, chiamato Marianopoli, il cui nome svela la sua origine
greca”. E proprio durante la sosta giunse a Marianopoli una “comitiva d’oltre
venti cavalieri in ricca divisa… Era la guardia nazionale a cavallo di Santa
Caterina che veniva ad onorare Garibaldi e si proponeva essergli scorta per un
buon tratto di paese. Santa Caterina è, dopo Napoli, la sola città d’Italia che
possegga la guardia nazionale a cavallo. Istituzione abbastanza frivola affatto
inutile, ma che prova, se non altro, l’agiatezza del paese che le die’ vita e
la mantiene”.
“Preceduti da quella brillante cavalcata che
faceva un singolar contrasto colle nostre povere camicie rosse, scolorate dal
sole e lacere, lasciammo Marianopoli verso le due del pomeriggio e toccammo
un’ora innanzi sera Santa Caterina. La guardia nazionale a piedi ci venne
incontro a due buone miglia di cammino, colle bandiere spiegate e con evviva
cordiali a Garibaldi: sicché entrammo in città a modo di trionfatori. Le
campane suonavano a distesa; tutte le mani e tutte le voci applaudivano;
l’intera popolazione era adunata nelle vie e sulla finestre, dalle quali
svolazzavano fazzoletti e bandiere”.
Santa Caterina – dice Zappert – non era propriamente una città ma ne
aveva l’aria: “Strade ampie e larghe, una bella piazza, una cattedrale di
architettura barocca ma ricca, le danno apparenza di città più che borghigiana.
Dico apparenza, perché non mi parve che l’ospitalità degli abitanti rispondesse
allo splendore della sua guardia equestre ed ai clamori dei suoi evviva. Io,
per esempio, ebbi alloggio presso un capitano della guardia nazionale, di una
circonferenza addominale rispettabile, ma di una larghezza di cuore
problematica. Dopo avermi ricevuto con una freddezza che non armonizzava troppo
cogli evviva che poco prima aveva diretto ai volontarii, fu grave fatica se gli
potei cavare un po’ d’acqua per bevere e lavarmi. Ma… ci sono degli uomini le
cui opinioni variano a seconda del vestito che indossano. Un capitano in divisa
civile è ben altra cosa che il proprietario e il capo di famiglia in maniche di
camicia”.
Il battaglione garibaldino partì da Santa
Caterina alle nove del mattino del 9 agosto e giunse a Caltanissetta verso le
quattro pomeridiane. Garibaldi si era già installato nella casa della Società
Emancipatrice “da dove pronunciò un discorso, improntato di quella eloquenza un
po’ rozza, ma per ciò appunto più calda, ch’è una delle grandi qualità di
Garibaldi”. I volontari furono accasermati nel palazzo del Seminario.
“Caltanissetta è la prima città che trovasi in Sicilia sul lungo
stradale che da Palermo conduce a Catania. Abitata da una popolazione
vivacissima di quasi 30.000 anime, la sua strada principale, che s’estende da
una parte all’altra della città, è ampia e fiancheggiata da edificii di bella
apparenza”. I nisseni manifestarono grande affetto verso Garibaldi nelle 36 ore
della sua permanenza in città. Era un continuo ripetere di “Evviva!” E “O Roma
o morte!”. Ma – annota amaramente Zappert – “furono più parole che fatti quelle
grida. Dai quattordici mila Siciliani del 1860, ai tremila dell’agosto 1862,
molto ci corre”.
A Caltanissetta, contrariamente a quanto
accaduto in precedenza, i “ministeriali” accolsero con solennità il Generale
che fu perfino invitato ad un banchetto nel Palazzo della Prefettura dal
prefetto Domenico Marco, avvocato, già deputato al Parlamento Subalpino, in
servizio dal 17 novembre 1861. Ma tale ospitalità gli costò cara dal momento
che dopo pochissimi giorni, il 16 agosto, fu dispensato da ulteriore servizio.
Il 10 agosto “Garibaldi sull’imbrunire partì
in carrozza per S. Cataldo, paesetto lontano quattro miglia dalla città, dove
la gente del contado che l’aveva invitato l’accolse nel modo che di leggieri
immaginerete”.
L’undici agosto il battaglione si trasferì da
Caltanissetta a Villarosa ove giunse a notte inoltrata “sfilando in mezzo alla
Guardia Nazionale in parata e festeggiati da uno scampanio che fendeva le
orecchie”.
Il 12 mattina “era appena l’alba e il suono
della tromba ci aveva radunati alla partenza… quando un colpo di fucile, uscito
non si sa di dove, rintrona alle nostre orecchie: una palla fischia e va a
colpire nel petto un ufficiale della Guardia Nazionale del paese. Gli astanti
il veggono cadere senza muoversi a soccorrerlo, senza far neanche un cenno di
sorpresa: e noi ci guardiamo l’un l’altro in faccia, meravigliati di quel
delitto compiuto alla sordina, e più ancora della calma con cui v’assistono i
terrazzani. Alle nostre interrogazioni rispondono: “E’ un marito o un amante
che si vendica. Ecco tutta l’orazione funebre del povero freddato. Né v’ha
pericolo che i carabinieri arrivino a metter la mano sull’assassino. Conosciuto
dal paese intero, lo difende e lo nasconde la complicità universale. Tutti
approvando il fatto, è ben naturale che favoriscano l’impunità del
vendicatore”.
A questa narrazione lo Zappert aggiunge –
sorprendentemente – la seguente riflessione: “E’ un bene, è un male? – Al
legislatore e al filosofo il discuterne e sentenziarne. Per me confesso che
queste vendette selvaggie mi parlano in favore del paese più delle nostre
compiacenti immoralità. E nel vero, le infedeltà e gli scandali, che son rare
eccezioni fra que’ popoli, fanno da noi regola generale. Ciò che non perora
punto a vantaggio dei tribunali e dei duelli che son la soluzione usata dalla
gente incivilita a lavare o punire le macchie dell’adulterio”.
16 agosto. Intanto da Piazza
Armerina e Pietraperzia giungevano delle delegazioni che invitavano Garibaldi a
far visita alle loro città. Il Generale accettò l’invito e si recò a Piazza
mentre il battaglione raggiungeva Lionforte. Zappert, per un grave malore al
piede, decise di restare a Castrogiovanni con due compagni, grazie
all’ospitalità di due persone che li accolsero in “una casuccia all’estremità
del paese, composta di una tana da topi al pianterreno che serviva da cucina, e
di tre camere all’unico piano superiore. Cinque persone vi dormivano per
consueto; nelle quarantott’ore che ci fummo noi, altre quattro ne accolse il
tetto ospitale. Senza contare un ciuccio, due muli, mezza dozzina di porci,
otto o dieci conigli e una ventina di polli, che soggiornavano tutti in quel
palazzo di tre metri quadrati”.
Il 17
agosto, avuta notizia dell’avvicinarsi ad Enna delle truppe regie, Zappert ed i
suoi compagni si procurarono quattro cavalcature e partirono alla volta di
“Lionforte, un’altra quasi-città di 18.000 abitanti”. Il 18 trasferimento a San
Filippo, a Regalbuto e quindi al Simeto ove la natura cambiava radicalmente
aspetto: “Da Palermo a Regalbuto il deserto; da Adernò a Catania il giardino”.
Quindi tappa a Centorbi (Centuripe), Paternò e, alle nove di sera, arrivo a
Misterbianco “villaggio a sole quattro miglia di distanza da Catania”. In tarda
notte l’arrivo a Catania.
Garibaldi il giorno precedente era stato a Misterbianco “illuminato e
festante”. “La popolazione di Catania, sollevatasi in massa, aveva chiesto a
gran voce di vedere il suo liberatore ed eragli uscita incontro sullo stradale
di Misterbianco con torce accese, in mezzo ad un entusiasmo che non è possibile
descrivere; che le autorità politiche della città, impaurite dall’imponente
manifestazione, eransi rifuggite a bordo di una fregata regia ancorata nel
porto; che durante le ventiquattro ore trascorse le campane non avevan cessato
un istante di suonare a distesa in Catania, dove non era più un carabiniere od
un poliziotto”.
Il 19 agosto Garibaldi e tutti i volontari
avevano raggiunto Catania. La popolazione attendeva le indicazioni del Generale
che aveva stabilito il suo Quartier Generale al Circolo degli Operai. Intanto
la guardia nazionale ed il suo comandante Casalotto si erano posti ai suoi
ordini; le campane suonavano a stormo ed i garibaldini occupavano i punti
strategici assegnati dallo Stato Maggiore. Garibaldi costituiva un governo
provvisorio, sempre in nome di Vittorio Emanuele, col programma “O Roma o
morte!” reso pubblico con un manifesto.
Il
popolo faceva ressa continua “intorno alla casa degli Operai, situata proprio
nel cuore della città, in quella magnifica via Etnea rischiarata da un mare di
luce, fiancheggiata da palazzi di pietra, lastricata di lava”.
Dal 20 al 23 agosto si svolse un’attività
intensa volta ad organizzare il piccolo esercito di Garibaldi che intanto aveva
raggiunto la cifra di 5.500 uomini e che aumentava sempre più. La mattina del
20 furono distribuiti i “bellissimi fucili di Saint-Etienne destinati alla
guardia nazionale del paese”.
Giungevano intanto notizie che le truppe regie
stavano per riorganizzarsi fuor di Catania. Furono prese misure di precauzione
e lo Stato Maggiore di Garibaldi fu trasferito dalla via Etnea ai Benedettini. Cominciava
intanto a serpeggiare qualche dissidio fra siciliani e continentali. Il 22
Garibaldi convocò a rapporto tutti i suoi ufficiali e li galvanizzò con un
bellissimo discorso: “Incominciò dal chiamarsi commosso in veder radunati
intorno a lui i più nobili figli di tutte le parti d’Italia, gli avanzi di
tutte le patrie guerre, i resti di tutte le rivoluzioni della libertà. Disse
averci convocati per consigliarci la concordia, e per ammonirci che di unione
avevam d’uopo a raggiungere la splendida meta della nostra impresa.
Dimenticassimo perciò ogni rancore, ci stendessimo la mano, smettessimo le ire
municipali per non aver che un pensiero nel cuore: la patria”. Agli ufficiali
che avessero bisogno di denaro assicurava: “Venite alo Stato Maggiore e vi daremo
quel che sarà possibile: non siamo ricchi, ma anche non del tutto in malora”.
La sera del 23 si diffuse un nuovo allarme: le
truppe regie avanzavano verso la città. Il capitano Zappert fu inviato a
presidiare una delle porte della città e, proprio durante il trasferimento,
accadde un episodio assai commovente. Sentì piangere un soldato e, giunto a
destinazione, domandò spiegazione dell’accaduto.
Mi si presentò allora un giovinetto tutto in
lagrime, le cui parole non dimenticherò mai:
“La non prenda cattiva opinione di me a vedermi piangere, signor
capitano. Sono F. L…., studente d’università a Pavia; mio padre, ufficiale nel
4° reggimento di linea, deve esser qui fuori. Al primo segnale d’assalto, io
potrei trovarmegli a fronte. Crede ella, signor capitano, che questo pensiero
possa lasciarmi insensibile?”
E il giovinetto, che poteva avere al più 17 anni, singhiozzava così
parlando.
Io volsi altrove gli occhi per non far come lui e lo rimandai al
quartiere.
Al lettore i commenti – Per me non ho parole di riprovazione che bastino
per gli uomini che ebbero il triste coraggio di metter di fronte coll’armi alla
mano i figli ai padri, i fratelli ai fratelli”.
La
mattina del 24 agosto una fregata inglese appena giunta nel porto di Catania
rincuorava Garibaldi ed i suoi soldati e faceva da contraltare all’immagine
minacciosa della nave regia Duca di
Genova. E, poco dopo l’arrivo dell’imbarcazione inglese, le sentinelle del
Quartier Generale dei Benedettini segnalarono in mare due vapori mercantili, il
Dispaccio e l’Abatucci. Il Generale colse il momento propizio e salì ad occupare
i due piroscafi che trasportavano cinquanta uomini comandati dal maggiore Cattabene.
A mezzogiorno fu comunicato a tutti gli ufficiali l’ordine di imbarco; le
trombe risuonarono per tutta la città radunando tutti i volontari. “Ciascun
soldato s’ebbe due pacchi di cartocci e cinque franchi in tanti pezzi da 5
centesimi: ciascun ufficiale cinquanta franchi dell’ugual moneta”.
Alle 4 pomeridiane incominciò l’imbarco mentre moltissimi catanesi
applaudivano. A notte inoltrata la partenza di “qualche centinaio più di
tremila uomini” mentre quasi 1.500 dovettero restare a terra. Garibaldi salì
per ultimo sul Dispaccio di cui prese
il comando; avanzava per primo l’Abatucci
che aveva a bordo tutti i siciliani. All’alba del 25 agosto lo sbarco nella
zona di Melito, quindi l’avvicinamento a Reggio.
Alle 4 del mattino del 27 agosto il grosso
delle truppe intraprese la ripida salita verso il colle dell’Aspromonte. I
battaglioni di Menotti e Bedeschini, partiti prima degli altri, occupavano già
le prime alture quando si udirono i primi “colpi di fuoco”. Era la retroguardia
garibaldina alle prese con le truppe dell’esercito regio. Tra i primi a cadere
il capitano Ricci. Seguì un violento scontro.
“Ma se fu eroico lo sforzo, n’avemmo
conseguenze micidiali. Di tremila uomini ch’eravamo una metà sola giunse al
bosco di Basilicò: gli altri, estenuati dalla stanchezza, dalla fame, dal
freddo, cui erasi aggiunta una pioggia che penetrava le vesti e le carni,
rimasero per via, coprendo un intervallo di quindici miglia. Mi assicurano che
parecchi morirono d’inanizione; altri piangevan di rabbia nell’assoluta
impotenza di mover più oltre; chi sbatteva i denti per la febbre coricato sotto
la pioggia, senza mantello, senza scarpe, senza un lembo di coperta; chi si
mordeva le unghie per non poter morder nel pane”.
Il 28 agosto continuò la marcia dei
superstiti. A sera piovve a dirotto ma i soldati non avevano più forza per
raccogliere della legna ed accendere i fuochi. “Bisogna che dia io l’esempio!
Esclamò allora Garibaldi. E, tratta la sciabola, s’avviò ad un vicino
boschetto, dove tagliò una bracciata di rami secchi che riportò innanzi la casa
dei Forestali”.
Alle otto del mattino della terribile giornata
del 29 agosto, quando fu annunciata una rassegna del Generale, “il corpo intero
poteva numerare da 1.400 a 1.500 uomini”. Salito sopra una mula, davanti la
casa anzidetta, Garibaldi così parlò ai suoi uomini:
“Stiamo più che si può uniti e compatti. So
bene che nelle circostanze in cui siamo non si può esigere troppa disciplina:
ma uno sforzo di pochi giorni ancora, e avremo superato ogni ostacolo. Le cose
prenderanno il naturale loro andamento, e noi, come vi ho promesso,
raggiungeremo ad onta di tutto, la nostra meta: O Roma o morte!”. I volontari
risposero all’unisono: “Viva Garibaldi!”.
Il Generale voleva dividere i suoi uomini in
due colonne e farle marciare parallelamente fino a Bagnara e Monteleone,
“prendendo da un lato la via di Cosenza, dall’altro quella di Catanzaro”. Si
rese però conto di non poter affrontare il nemico e pensò di aspettarlo in una
posizione migliore. “Fatta una meschinissima distribuzione di viveri e
dissotterrate poche patate in un campo vicino, si assegnarono i posti a ciascun
corpo”. Ma, alle quattro del pomeriggio, nella pianura sottostante avanzarono
le prime linee di dodici battaglioni delle truppe regie. Il Generale
incoraggiava i suoi: “Son tutte manovre; vedrete che non ci attaccheranno”.
Questi i suoi ordini: “Fermi tutti al posto, e non fate fuoco! Occupate quel
colle, ma non rispondete se attaccano!. Gli ufficiali facciano levare ai fucili
le capsule! Abbasso le baionette!”.
Ma i regolari avanzarono minacciosamente e
“quando fu il momento della suprema risoluzione, quando non rimase più scelta
libera a farsi tra l’uccidere o l’essere uccisi, mancò ai garibaldini il
coraggio ch’ebbero i regolari. Alcuno forse avrebbe reagito – e il movimento
essendo parziale non sarebbe riuscito ad altro che alla perdita di chi lo
causava – ma una voce si sparse improvvisamente nel campo, che abbatté gli
animi più deliberati e confuse tutte le menti. Garibaldi è ferito”.
Alcuni ufficiali del battaglione che seguiva,
ad una trentina di passi, il Generale tentarono di reagire ma furono sforzi
vani: “La voce percorse come lampo le file, e quello che non avrebbero potuto
centomila de’ nostri nemici, fe’ cadere tutte le armi, abbatté tutti i cuori.
Ogni ordine ed ogni disciplina andò rotta; e se si udirono ancora colpi di
fuoco dopo che l’eroe stavasi a terra ferito, non partivano essi che dalla
truppa, la quale s’avanzava sempre restringendo il cerchio in cui ci
avviluppava, e dalle estreme nostre linee di destra e di sinistra, alle quali
non era ancor arrivato il fatal colpo”.
La caduta di Garibaldi era un’idea che non
poteva entrare nei cervelli dei suoi soldati che lo ritenevano invulnerabile e
invincibile: “Quando il vedemmo e più volte lo guardammo abbattuto, ci parve
che un mondo si perdesse in lui; ci sembrò rimaner soli nel caos. Vestimmo il
lutto d’Italia. Egli intanto, circondato da moltissimi ufficiali e da meglio
che quattrocento di noi, stavasi in terra seduto al limitare del bosco,
tranquillo negli atti e collo sigaro in bocca. Che cosa non darei io per sapere
ciò che passasse allora in quel cuore, quali pensieri tumultuassero in
quell’anima, mentre le labbra non cessavano di ripetere con voce non
infiacchita dal dolore: Cessate il fuoco! Abbasso le armi!”.
Giunse intanto “un ufficialetto dello Stato
Maggiore regolare” che si presentò al Generale intimandogli la resa. Arrivò poi
il colonnello Pallavicino “con tutti i segni esteriori di una sentita
venerazione. Egli piegò il ginocchio a terra per favellare a voce bassa
all’orecchio di Garibaldi, ed accolse le parole del ferito con deferenza e
rispetto”. Garibaldi dapprima rifiutò di arrendersi al Governo; poi chiese la
libertà per i suoi volontari e, per sé, la possibilità di “ritrarsi su un
naviglio inglese e lasciare l’Italia”. Pallavicino rispose che in merito avrebbe
interpellato il Governo. Garibaldi chiese ai suoi ufficiali “se i nostri
avrebbero accettato la resa a discrezione. Un silenzio più eloquente della
parola gli rispose. Lui ferito, che cosa ci restava altro a fare?”.
“Tutt’intorno intanto andavano raccogliendosi
i fucili, i revolvers, le sciabole dei garibaldini: agli ufficiali frugavasi
indosso un po’ per far bottino del meglio che possedevano, un po’ per curiosità
di trovar carte che svelassero la nostra complicità col partito mazziniano.
S’intende che, in fuor di qualche orologio e di qualche rara borsa ben fornita,
non trovaron nulla”.
“Verso le sei del pomeriggio il triste
corteggio prese la via di Scilla. Garibaldi stava sopra una barella, coperto di
un mantello, fasciato il capo d’un fazzoletto. Gli ufficiali e le guide del suo
Stato Maggiore lo portavano, cambiandosi ogni mezz’ora; altri precedeva onde
procurare di togliere dalla via ogni ostacolo ai portatori e cansare la minima
scossa al ferito”. Il Generale pernottò alla Marchesina, il misero casolare
d’un pastore: “Improvvisatogli un letto con un monte di cappotti egli aspettò
colà il mattino, fra le cure dei medici Ripari, Basile, Albanese, e guardato da
alcuni ufficiali trasognati e quasi istupiditi dalla sciagura che li abbatteva.
Li altri accampavan fuori, sotto una pioggia minuta che un vento agghiacciato
pareva volesse cacciar loro nelle ossa”.
Il 30 agosto mattina, a Scilla, il colonnello
Pallavicino comunicò a Garibaldi la risposta del Ministero giunta per
telegrafo: “Il Governo voleva Garibaldi imbarcato sul Duca di Genova e tradotto in un forte; i suoi volontarii
prigionieri, ma divisi da lui, cui non potean seguire che alcuni fidi”. Il
Generale salì subito sulla nave che era diretta a La Spezia. “A Garibaldi,
steso sopra un letto da campo nel naviglio regio, giunsero dalla spiaggia gli
addii pieni di lagrime de’ volontarii. “O Roma! O morte!” Fu il saluto de’
prigionieri e deve esser arrivato all’orecchio del ferito come un suono di
speranza e come una promessa”.
Dal 31 agosto l’Italia, il Venezia ed un
altro legno di guerra trasportarono a Reggio e a Scilla i prigionieri che
avrebbero poi raggiunto le fortezze di Bard, Genova, Fenestrelle.
Francesco Zappert, invece, fece un suo
particolare percorso intento a sfuggire alle ricerche dei carabinieri e dei regolari
che gli davano la caccia sui monti: “Ma, se io non divisi le loro sofferenze,
ho diritto a protestare con essi contro la selvaggia autorità che le organizzò,
le insinuò, e quando venne il caso, le impose. Più fortunato degli altri io non
subii prigionia… e rividi prima dei compagni la mia terra natale, ma i loro
dolori non erano meno di essi che miei, e vi ebbero giorni nei quali io sentii
più umilianti per me che per loro i maltrattamenti degli aguzzini di Rattazzi.
Io non vidi i poveri disertori dell’esercito tratti fuori dalle nostre file e
coperti di vituperii, io non ebbi a ricever percosse; non mi toccò esser
testimonio dei sogghigni e degli scherni dei vincitori; non subii duri
rimproveri nella marcia; non mi sentii chiamare soldato del fumo; non vidi le
risa ironiche che accompagnavano certi discorsi sulle prodezze dei volontarii
sì facilmente vinti; non fui stipato con altre centinaia entro le mura di una
cappella di Reggio che poteva appena contenere la metà di noi e nella quale si
mancava di tutto, fin dell’aria; non passai lunghe giornate alla Spezia
relegato sui navigli che non si risolvevan mai a gettar sulla riva i poveri
prigionieri; non odorai le tristi esalazioni che infettavano quei pontoni e che
ingeneravan già malattie… non rimasi chiuso a lungo entro stanzoni oscuri, nei
quali la respirazione di quaranta a cinquanta individui rendeva malsano
l’abitare… non vidi gli ammalati privi di cure; non ebbi infine ad aspettare
una grazia data a stento, più a stento ancora applicata, ed oggi, (oggi
incredibile a dirsi dopo cinque mesi!) per qualcuno de’ nostri lettera morta,
vana promessa di libertà!”.
Ma – osserva ancora Zappert – la sconfitta di Aspromonte e la ferita non
sminuirono, ma accrebbero la popolarità di Giuseppe Garibaldi che, a capo di
“mille e duecento affamati” dovette resistere a trentamila uomini in armi: “La
rivoluzione, benché impedita dai dormenti, cammina: il suo lavoro è lento ma
progressivo, e quando la sembra arrestarsi è forse allora che prende nel silenzio
lo stimolo per toccare all’unica sua meta: la libertà”.
Francesco Zappert errò per due giorni interi
sulla montagna; poi, il primo di settembre, fu ospite a Reggio di alcuni
artigiani e, quindi, di una delle prime famiglie della città. Il 2 settembre
giunsero notizie telegrafiche delle dimostrazioni scoppiate a Milano contro i
fatti di Aspromonte e del decreto di Cialdini che intimava la resa immediata a
tutti i garibaldini dispersi nelle Calabrie. Grazie ai suoi ospiti, ottenne un
passaporto per Napoli. Il 4 partì alle 5 del pomeriggio sul vapore mercantile Elba e, alle undici di notte del giorno
successivo, entrava nel golfo di Napoli.
L’otto settembre Zappert s’imbarcava su Lo Zuavo di Palestro alla volta di
Genova; il dieci rientrava a Milano sbattendo i denti per la febbre, “lacero,
sparuto, con mille franchi di meno in tasca e con un disinganno di più nel
cuore: “Mi posi a letto e, quando Dio volle, riacquistai forza e salute. Tanto
che potei finalmente dettare queste memorie, fedeli espressioni del vero, e per
ciò probabilmente noiose a taluno, a tal altro increscevoli. I moderati le
leggeranno e ne diranno plagas. Meglio: sarà una prova irrecusabile che ho
fatto bene a scriverle”.
Francesco Zappert, Da Palermo ad Aspromonte: frammenti,
Milano, G. Redaelli, 1863.
Francesco Zappert – Da Palermo ad Aspromonte – In Garibaldi e i Garibaldini, Raccolta
trimestrale di scritti e documenti inediti o rari diretta da E. Brambilla, D.
Bulferetti, A. Mori. Editore Riccardo Gagliardi, Libraio Antiquario, Como 1910.
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