RUDERI DELLE TERME DI VITO SOLDANO |
Tutto ciò nell’immaginario collettivo
canicattinese ha sviluppato numerose leggende plutoniche, legate appunto alla
presunta presenza di un tesoro sotterraneo la cui scoperta dovrebbe portare al
riscatto dell’intera Sicilia. Molte di queste leggende sono altresì collegate
alla saga di Carlo Magno e dei suoi paladini, così come avvenuto, con analogie
a volte davvero sorprendenti, anche in altri comuni del territorio nazionale.
Vito Soldano coincideva, fino ai primi decenni
del Novecento, quasi con l’intero territorio di Canicattì, comune allora primo
per popolazione dell’intera provincia di Girgenti, ma con un territorio assai
piccolo e circondato da quello ben più esteso di Caltanissetta, Girgenti e
soprattutto della vicina Naro, già città demaniale e sede di una importante
Comarca. Solo nel 1923, con Regio Decreto del 25 marzo, Canicattì, "città
opulenta" secondo Vito Amico (1) e "città laboriosa e industre"
per Francesco Nicotra (2), vide riparato, ma solo in parte, il torto subito ed
ebbe riconosciuta l’estensione della sua giurisdizione sugli attuali 9142
ettari di territorio. L’allora capo dell’ufficio tecnico comunale, ingegnere
Luigi Portalone, completò nel 1934 i necessari sopralluoghi.
La zona di Vito Soldano, delimitata idealmente
dal Castello di Naro, dal Monte Castelluccio di Racalmuto, dalla Serra Puleri e
da Monte Bardaro sulla direttrice per Caltanissetta, era da tutti considerata
fonte di benessere per la fertilità e per la ricchezza di acque: il fiume Naro,
le sorgenti Giarra, Balata dei Russi, Gulfi di Trabia, Calice di San Francesco,
Granci e le acque piovane di Grotticelle, Aquilata, Andolina e Cazzola.
Le vicende legate al sito di Vito Soldano ed il suo stesso nome sono
stati oggetto in passato, e lo sono ancora oggi, di accese discussioni tra gli
storici e gli archeologi.
Lo storico De Burigny (3) afferma con assoluta convinzione che Vito
Soldano non sarebbe altro che l’antica Mozio, la fortezza greca di cui parla
Diodoro Siculo nella sua Biblioteca
Storica e che fu fiorente ai tempi del capo dei siculi Ducezio (459-440
a.C.). Secondo Biagio Pace (4) invece Vito Soldano sarebbe stato un "borgo
romano-bizantino". Adolfo Holm (5), Filippo Cluverio (6) e Giuseppe Picone
(7) sostengono che Mozio sorgeva con certezza nel territorio agrigentino,
mentre l’identificazione con Vito Soldano non sarebbe dimostrata. Anche Vito
Pugliese (8) ed il canicattinese Diego Corbo (9) sono convinti della
identificazione di Mozio con Vito Soldano. Vito Amico ritiene invece senza
alcun dubbio che l’antica Mozio sorgesse dove oggi si trova la città di Naro.
Per Sandro Policastro (10) in località Vito Soldano sorgeva l’antica
"Kakyron" fondata dai Greci nel III sec. a.C., quindi occupata da
Romani e Bizantini e, infine, distrutta dagli Arabi.
Al di là della attribuzione di un nome certo,
è da ritenere che in località Vito Soldano sia esistito un insediamento greco,
che tuttavia avrebbe avuto maggiore sviluppo nel periodo romano-bizantino, come
confermato dagli scavi archeologici. Al tempo della conquista araba l’antica
città avrebbe assunto la denominazione di Vito Soldano con riferimento ad un
importante dignitario musulmano. Secondo altri invece, ad esempio il Calvaruso (11),
non si tratterebbe del nome di una persona ma di un toponimo, beyt soltan, che significherebbe
"casa del sultano". L’antica città era in posizione strategica lungo
la via che congiungeva Agrigento con Catania attraverso Caltanissetta ed Enna.
Dell’antica città greca e del successivo insediamento romano e bizantino
sono affiorate alcune strutture, grazie soprattutto ad un breve saggio di scavo
realizzato nel 1956 dalla Sovrintendenza alle Antichità di Agrigento sotto la
direzione dell’archeologa canicattinese Maria Rosaria La Lomia, che se ne
occupò successivamente in un fondamentale articolo, Ricerche archeologiche nel territorio di Canicattì: Vito Soldano,
pubblicato nel 1961 sulla rivista Kokalos
diretta da Eugenio Manni. Maria Rosaria La Lomia partecipò alla campagna di
scavo per incarico del sovrintendente Pietro Griffo.
L’articolo è assai interessante per le
osservazioni di carattere storico e soprattutto per la minuziosa descrizione
dei luoghi e dei reperti affiorati durante gli scavi. L’archeologa ritiene poco
attendibili le affermazioni del Corbo relativamente al soggiorno di cartaginesi
e poi di saraceni e normanni nel sito di Vito Soldano e "fantastiche e
confuse" alcune citazioni da Cicerone. Plausibile invece l’ipotesi dello
stesso relativamente alla esistenza di un tempio, probabilmente dedicato a
Cerere, sul colle a mezzogiorno: "Sopra di un colle a mezzogiorno, si
vedono gli avanzi di un tempio di Cerere, perché al confine della città. Fuori
della medesima nelle rupi si osservano grandiosi sepolcri e stanze mortuarie
piene di ossame" (12). Esatta l’indicazione del ritrovamento di monete del
periodo degli imperatori Adriano, Claudio II il Gotico e Costanzo II.
La campagna di scavo portata avanti
dall’archeologa canicattinese ha consentito l’individuazione di resti di terme
romane risalenti al III-IV secolo d.C. ed ha avvalorato l’opinione di quanti
identificano il sito di Vito Soldano con Corconiana (tra gli altri Filippo
Cluverio e Vito Amico), una delle otto stationes
o mansiones dell’itinerario Catina-Agrigentum (91 miglia), a sua
volta uno degli otto grandi percorsi indicati nell’Itinerarium Antonini redatto al tempo di Caracalla (211-217
d.C.). La rete di stationes o mansiones, ossatura portante del cursus publicus, cioè del servizio
postale romano, garantiva ai viaggiatori una sicura assistenza con stalle,
osterie, servizio veterinario, granai e personale di polizia. Tra una statio e
la successiva esistevano le cosiddette mutationes,
vere e proprie stazioni di posta minori, che distavano 10 o 15 miglia l’una
dall’altra.
Queste strade, che furono poi inserite anche
nella Tabula Peutigeriana,
collegavano ville, masserie e latifondi; Corconiana, collocata dall’Itinerarium Antonimi a 13 miglia da
Agrigento, svolgeva certamente un ruolo importante nel contesto economico,
sociale e politico della Sicilia Romana.
Maria Rosaria La Lomia, d’accordo con quanto
sostenuto da Cluverio e Amico, scrive che "è legittimo pensare che la statio esistente nel sito di Vito
Soldano faccia parte di quelle menzionate nell’Itinerarium Antonimi e che si possa fare un tentativo
d’identificazione con Corconiana" (13). Fa altresì riferimento ai
ritrovamenti di resti di epoca romana (monete di vari imperatori, pezzi di
tegole lisce o striate, frammenti di conci, manici in terracotta di vasellame,
frammenti di lucerne, avanzi di colonne e di mura) e descrive, con dovizia di
particolari, due ambienti termali dell’età romana imperiale ed una vasta
necropoli paleocristiana. Le terme di Vito Soldano non sono sontuose e ricche
come altre ma, pur nella loro semplicità, indicano il ruolo importante che la mansio Corconiana rivestiva in Sicilia
dal punto di vista economico e politico.
Maria Rosaria La Lomia ha individuato due
ambienti termali che si presentano in buono stato di conservazione; uno, per la
sua forma absidata, è chiamato dai contadini del luogo l’Ecclesiastra, "nome che starebbe a suggerire l’ipotesi di un
riadattamento, in età bizantina, dell’edificio primitivo a chiesa
cristiana". L’ambiente absidato, realizzato in laterizi, è alto circa un
metro: vi sono stati trovati mattoni, tegole, orci, anforette fittili. Le terme
di Vito Soldano avevano quattro strutture principali: Tepidarium (ambiente A), Calidarium
(B), Ipocausto (C), Praefurnium (D).
I due ambienti A e B sono sottostanti rispetto
al piano circostante, come due ampie vasche. Al di sotto del pavimento esistono
delle aperture che mettono in comunicazione i vari ambienti per la circolazione
dell’aria calda. L’ampiezza della necropoli rende plausibile l’esistenza di un
importante centro abitato, appunto una delle mansiones ricordate nell’Itinerarium
di Antonino.
Dentro l’ambiente A sono stati
trovati frammenti di orci, cocci di terra sigillata chiara, tegole e mattoni,
frammenti di coccio pesto e molte anfore fittili. Nella parte absidata, a
terra, è stata scoperta una buca profonda circa m. 1,50 e, al suo interno, una
scala realizzata con grossi blocchi squadrati. Accanto all’ambiente termale B
si trova un grosso phitos le cui
pareti sono spesse da 5 a 7 centimetri e che era con tutta probabilità
utilizzato come recipiente di olio o acqua. "Durante il lavoro di pulitura
dell’ambiente B, si ritrovarono anfore fittili ma, cosa fondamentale, si rivelò
l’esistenza di suspensurae. Si
rinvennero in loco, murati lungo la base delle pareti, o al centro del piano di
fondazione, dei mattoni bessali, alcuni murati fra loro, altri sparsi lungo il
pavimento" (14).
A nord dell’ambiente B è venuta alla luce una
sala composta da due vani, C e D. All’interno del vano C, con pavimento in
terra battuta, un cunicolo largo m. 0,40, alto m. 0,90 e lungo m. 3,60. Dal
cunicolo dell’ambiente C si raggiungeva l’ambiente D che fu trovato pieno di
cenere per uno spessore di cm. 30.
Rosaria La Lomia scrive che oltre il vano D
esiste un altro ambiente, più grande, al cui interno sono presenti pezzi di
mosaico bianchi e neri. A sud degli ambienti A e B esiste un grosso muro
realizzato con blocchi di pietra squadrata e martellata, delle dimensioni di m.
1,20 di lunghezza ed uno spessore di m. 1,80.
I vari ambienti sono stati nel tempo
gravemente danneggiati per l’ignoranza dei contadini e soprattutto per
l’incuria delle autorità competenti: gli spazi sono stati addirittura
utilizzati come recinto per la custodia degli animali e nel vano A i contadini
hanno praticato una buca profonda un metro e mezzo alla ricerca di un ipotetico
tesoro. Il Corbo narra di un proprietario che, allo scopo di liberare il
terreno dalle pietre per impiantare un vigneto, cedette gratuitamente a chi
glieli richiedeva blocchi squadrati e altro materiale. Molte ville e casalini
della zona sono stati costruiti con reperti dell’età classica e
romano-bizantina.
Il 24 aprile del 1971 si ebbe un autorevole e
fermo intervento del sovrintendente alle Antichità di Agrigento, professor
Ernesto De Miro, volto a porre un freno al degrado ed alle ruberie nel sito di
Vito Soldano. Nella denuncia De Miro segnalava lo spianamento della collina detta
La Montagnola con conseguente danneggiamento
di "colonne, architravi, tombe bizantine risalenti al IV secolo d.
C." e stigmatizzava "lo scempio perpetrato e la indiscriminata
distruzione dei reperti archeologici…; una grave perdita, consumata a danno del
patrimonio archeologico nazionale". In data 11 dicembre 1973 il pretore di
Canicattì, dottor Antonio Pallotta, condannava gli autori dello scempio.
Nei primi anni Settanta nel sito di Vito Soldano un breve saggio di
scavo ha portato alla luce, nei pressi dell’edificio termale, ulteriori avanzi
dell’abitato tardo-romano: di particolare importanza un blocco di architrave
con epigrafe in latino riutilizzato per la costruzione di un muro a secco. In
anni più recenti si è avuto qualche altro intervento assai limitato e di cui peraltro
non sono stati ancora resi noti in forma ufficiale i risultati. La finalità
delle nuove campagne realizzate dalla Sovrintendenza alle Antichità di
Agrigento è quella di riportare alla luce altri ambienti che si sviluppano,
verosimilmente, attorno alle terme.
Le campagne di scavo fin qui realizzate hanno consentito il ritrovamento
di reperti assai importanti: numerose colonne quasi sempre in frammenti; grossi
blocchi di pietra squadrati e lavorati con perizia; un oscillum fittile della seconda metà del IV secolo a.C. con figura
di volto femminile; molti frammenti di lucerne coralline; un disco fittile con
una interessante decorazione figurata: un orante presso l’ingresso di una
tomba; frammenti di vasi, coppe, unguentari di vetro; una matrice di lucerna di
argilla grigia; una lucerna di argilla arancio a recipiente tondo con la
decorazione a destra di un vitello di profilo ed una testa nel prospetto;
frammenti di ceramica di età bizantina.
A Vito Soldano sono state trovate, tra le
altre, le seguenti monete: un grande bronzo di Adriano con la testa
dell’imperatore laureata di profilo a destra; un piccolo bronzo di Claudio II
il Gotico con la testa dell’imperatore sormontata da stephane radiata; un piccolo bronzo di Costanzo II; una contromarca
di Eraclio ed Eraclio Costantino.
La riutilizzazione delle terme di Vito Soldano
in epoca bizantina è dimostrata dal ritrovamento di altri reperti: un disco di
terracotta in cui è raffigurato un uomo in preghiera davanti all’ingresso di un
sepolcro, un anello di rame, alcune lucerne di età romano-imperiale, diverse
monete del periodo bizantino.
La scoperta di così numerose monete ha sviluppato, nella fantasia
popolare, le cosiddette leggende plutoniche che tuttavia, a giudizio di Alfonso
Tropia (15), potrebbero trovare origine e spiegazione anche nella natura del
sottosuolo, ove esistono grotte ricche di cristalli di gesso e stalattiti.
Intraviste al lume delle fiaccole da audaci esploratori, queste grotte avrebbero
determinato sogni di ricchezza e leggende. Si favoleggiava dei tesori dei
saraceni, uomini ca si cruvicavanu vivi
pi nun perdiri li ricchizzi.
Leggende analoghe, riguardanti la presenza di
tesori favolosi e incantati, sono narrate in altri paesi della Sicilia e sono
sempre riferite a località abitate in tempi più o meno remoti. Queste le più
significative: la fiera di Barbarà ad Alia; la grotta del cavallo a Sabucina,
nel territorio di Caltanissetta; la fiera di fra Rosario a Lercara Friddi; la
fiera del lavatore a Montedoro; la leggenda della fontana di Serradifalco,
quella di Calafarina a Pachino e della grotta del Monaco ad Augusta.
Giuseppe Pitrè (16) e Mattia Di Martino (17),
che pubblicarono sull’argomento autorevoli articoli, ebbero come fonte
principale, diretta o indiretta, un barbiere di Canicattì, tale Vincenzo Lumia,
che seppe fondere, in un fantasioso racconto, molti elementi delle leggende e
delle tradizioni popolari pagane e cristiane: il toro di Falaride e la crudeltà
dei saraceni, il paladino di Francia Orlando e l’eroe delle saghe paesane
Ruggero il Normanno, il re Vitusullanu
di Canicattì e il re Fluri di Naro,
l’origine della città di Ravanusa e il biblico "fermati, o sole!" di
Giosuè, il rito cristiano del battesimo, il culto dell’Immacolata ed il
leggendario ritrovamento in ogni comune di statue della Madonna, la tromba di
Orlando e la sua strepitosa durlindana in grado di spezzare perfino le rocce.
I cantori francigeni ed i loro discepoli ed
emuli italiani diffusero qua e là in Italia varie tradizioni leggendarie su
Carlo Magno e su altri eroi del ciclo franco. Canicattì si inserisce in questo
contesto con numerose affinità e corrispondenze, in alcuni casi davvero precise
e sorprendenti. A Canicattì Orlando, dovendo superare una montagna per
raggiungere Vito Soldano, aprì un varco con la sua spada così come aveva fatto
sul colle Polito, nella catena dei monti pisani; analogamente l’isola Orlandina
fu staccata dallo stesso paladino da un monte cadente a picco sul mare
Adriatico fra Parenzo e Rovigno; sulla cima del monte Cucco, in Umbria, si
trovano cinque fenditure profonde, quasi verticali, create sempre da Orlando
con cinque colpi di fendente della sua spada.
Numerosi altri riferimenti alle imprese del paladino si trovano a Sutri
(una grotta naturale, detta la grotta d’Orlando), a Perugia (la vecchia chiesa
di Sant’Angelo era detta il padiglione d’Orlando), ad Osimo (il bosco di
Roncisvalle), a Firenze (nella chiesa di Santo Stefano è raffigurato il ferro
del cavallo d’Orlando); a Roma c’è il vicolo della spada d’Orlando, a Susa il
sasso d’Orlando, a Gaeta la torre d’Orlando, a Messina il capo d’Orlando, ad
Aidone la sella d’Orlando, a Sant’Elpidio il casino Orlando, a Pavia sotto le
mura il sasso d’Orlando e nel Duomo la lancia d’Orlando.
Più di un riferimento al grande paladino
troviamo a Spello, in Umbria. Vicino Porta Venere una casetta appoggiata ad una
torre porta il nome di prigione d’Orlando mentre in una iscrizione sulla chiesa
di Santa Ventura si fa riferimento al fallo di Orlando; nel muro c’è un foro
alto da terra 0,65 centimetri che sarebbe stato prodotto da Orlando ictu mingendi: dalle dimensioni e
dall’altezza del foro si può calcolare la misura del corpo del paladino, come
suggerisce una iscrizione in latino:
Orlandi hic Caroli Magni metire nepotis
Ingentes artus cetera facta docent.
Vogliamo adesso accennare alle leggende
più significative collegate direttamente o indirettamente al sito di Vito
Soldano. A prescindere da qualsiasi ricostruzione di carattere storico più o
meno documentata, nell’immaginario collettivo Vito Soldano sarebbe stato un
feroce sultano che, a capo del suo potente esercito, avrebbe occupato e
distrutto un’antica città romana e bizantina, imponendo su tutto il territorio
il suo tirannico dominio. Era solito ammazzare i suoi sudditi rinchiudendone
uno al giorno dentro un vitello di bronzo. Per non avere l’imbarazzo della
scelta della quotidiana vittima sacrificale, il tiranno conservava in un
casciunieddu dei biglietti, li puositi, ove erano scritti i nomi dei sudditi ed
ogni giorno ne estraeva uno. Tutto andò liscio finché un giorno arrivò il turno
di una ragazza, figlia di un arzillo vecchietto che non tollerò l’amaro destino
della propria creatura e decise di andare a protestare direttamente a Parigi,
alla corte dell’imperatore Carlo Magno.
L’imperatore lo
ascoltò, promise tutto il suo aiuto e ordinò ad Orlando di prendere con sé
l’esercito e raggiungere in Sicilia il luogo ove governava un tiranno così
malvagio. Orlando con soli due cavalieri partì seguendo l’itinerario indicato
dal vecchio. Il paladino, i due cavalieri e il vecchietto, che intanto fu
battezzato col nome di Fortunato, raggiunsero la Sicilia ma, per arrivare a
Vito Soldano, fu necessario superare una montagna. Orlando tirò fuori la spada
e colpendo la cima riuscì ad abbassarla, con la potenza di Dio prima e poi con
la sua spada famosa chiamata durlindana. Da allora quel luogo fu chiamato la
Portella d’Orlando. Il paladino chiese quindi a Fortunato quanto mancasse per
giungere alla meta: mancava poco, ma era già buio e si pensò bene di aprire
tende e padiglioni per trascorrere lì la notte.
Nel frattempo il re
Vito Soldano, ansioso per uno strano presentimento, convocò un mago suo suddito
che gli predisse che un giorno sarebbe venuto un certo Orlando, mandato per
virtù di Dio, che avrebbe ucciso tutti i saraceni. L’indomani Orlando chiamò
Fortunato dicendogli: "Va’ da quel re saraceno e chiedigli se vuole essere
battezzato: in caso contrario sarà aggredito da Orlando con la sua
durlindana". Fortunato eseguì l’ambasciata ma Vito Soldano non accettò la
proposta, anzi fece inseguire dai suoi il povero vecchio che tuttavia,
correndo, si mise in salvo. I saraceni, saputa la notizia, cominciarono a
tremare. Fortunato raggiunse Orlando che ordinò ai suoi compagni di restare
nelle tende e da solo, dando fiato al suo corno d’avorio - l’olifante - andò
incontro ai saraceni, uccidendone in combattimento una quantità tale che dal vallone sottostante cominciò a scorrere
un fiume di sangue. Verso sera Vito Soldano uscì dal suo minimientu, la grotta dove abitava, e si presentò ad Orlando che
con un colpo di spada gli recise un braccio. Il re saraceno, atterrito,
cominciò a correre e si buttò dentro una grotta ca nun sinni sappi né nova né vecchia.
Orlando pensò di
tornare tra i suoi e, dopo tre giorni di festa, decise di levare le tende e di
rientrare a Parigi.
Un’altra leggenda
narra che ad un uomo, mentre dormiva, apparvero due fantasmi che gli dissero:
"Stanotte devi andare da solo a Vito Soldano; dall’altra parte della
montagna c’è una grande pietra, lì accanto devi scavare con la zappa; sotto una
balata troverai un callaruni, un pentolone pieno di monete;
puoi prenderle e portarle via a condizione che tu sia solo". L’indomani il
contadino, invece, confidò ad un suo compare il sogno. Il compare gli propose
di andare a Vito Soldano per trovare il tesoro e così fecero: trovarono la balata e il pentolone ma, quando lo
sollevarono, si accorsero che era pieno di scorci
di vavaluci.
Le leggende relative
a Vito Soldano narrano di un tesoro arcano, dal cui ritrovamento deriverebbe la
prosperità dell’intera Sicilia. Così avrebbe detto un giorno il Gran Turco,
mitico abitatore della contrada, a un contadino che era andato a trovarlo. Al
contadino il Gran Turco chiese se fosse stato disincantato lu minimientu di Vitusullanu. Alla risposta: Nun si l’ha pigliatu nuddu, pirchì nuddu ha avutu ancora ssu coraggiu!
il Gran Turco rimase un momento in silenzio e quindi replicò: Si nun si piglia lu trisoru di Vitusullanu,
povira Sicilia! (18).
La ricerca del tesoro
fu spesso causa di dolore e pianto, come per quella donna, "bella come il
sole" ma vanitosa, che si recò un giorno a Vito Soldano per chiedere al
mago un diamante per la sua gulera, cioè la sua collana. Il mago si fece
portare da uno sgherro il bambino della donna e lo tramutò con la sua bacchetta
magica, così da farne il corpo di smeraldo, i denti di perla, gli occhi di
brillante, le labbra di corallo e i capelli d’oro. Con una catena d’oro appese
il bambino sul petto della madre che era svenuta, ma non poté più uscire dalla
grotta. Ed è sempre là col figliuolo fatto pietra, fuori di sé dal dolore. Il
Gran Turco la strapazza e la scimia,
dileggiandola ironicamente: "Piangi la tua vanità".
Da questa leggenda
Luigi Natoli ha tratto argomento per la sua novella Il Gran Turco e madonna Altruda (19). Alla tragica vicenda Enrico
Cacciato, esponente di primo piano dell’Accademia del Parnaso Canicattinese, ha
dedicato la poesia Il gioiello di Vito
Soldano (20).
Un’altra leggenda
narra che a Vito Soldano ogni sette anni si tiene una fiera di animali esotici, aratri e attrezzi agricoli mai visti,
suppellettili e tante altre meraviglie. La fiera si svolge da mezzanotte alle
sei del mattino. A nessuno però è dato conoscere il giorno in cui essa si
svolge. Una notte a un contadino, al servizio del barone Adamo, scappò una
mucca che, correndo, giunse in una pianura ove tante persone vendevano arance;
il garzone frugò nelle tasche ma trovò soltanto un grano e con quella moneta
poté acquistare solo tre bellissime arance. Dopo appena un’ora la fiera
scomparve in un baleno e il contadino si ritrovò solo, sperduto nella grande
pianura. Dopo due giorni ritornò in paese e raccontò tutto al suo padrone il
quale, viste le arance ed accortosi che erano d’oro, se le fece dare in cambio
di due onze. Il contadino se ne andò felice non sapendo quello che aveva perso.
Di Vito Soldano e
delle leggende ad esso collegate non poteva non occuparsi l’ultimo dei
gattopardi siciliani, il barone canicattinese Agostino La Lomia che, con lo
pseudonimo Fausto di Renda, sul Corriere di Sicilia di Catania pubblicò
nel 1956 un articolo dal titolo: A Vito
Soldano – La trovatura del "Su Vicio Messina”. Vi si narra dei vari
tentativi portati avanti da avventurosi ricercatori per appropriarsi di antiche
monete e oggetti di valore presenti nel sito. Vincenzo Messina, soprastante in
alcuni feudi del territorio, nel 1906, durante dei lavori di sistemazione del
terreno per l’impianto di un vigneto, vide affiorare moltissime monete d’oro.
Armato di doppietta calibro 12, intimò ad uno dei nove operai che aveva trovato
il tesoro di non toccare nulla, in attesa di procedere ad un’equa distribuzione.
Quindi al più giovane ordinò di iniziare la conta ad alta voce. Furono contate
822 monete fior di conio, con l’effige dell’imperatore bizantino Costantino IV
Pogonato (648-685 d. C.).
Vincenzo Messina
impose ai presenti di non divulgare il fatto e fece distribuire le monete in
due mucchietti di 411 pezzi ciascuno. Prese per sé il primo mucchietto e fece
dividere il secondo in 10 parti e cioè in quote di 41 monete. Quindi
all’operaio che aveva trovato le monete assegnò due quote per un totale do 82
pezzi; ad altri sette operai furono consegnate 41 monete ciascuno e, infine, al
ragazzo che aveva fatto la conta fu assegnata la quota di 41 pezzi più la
moneta rimasta dispari (21).
La famiglia La Lomia
possedeva un feudo nel territorio di Vito Soldano (ove oggi si trova Villa
Lanza), in origine di proprietà di un antenato, l’abate Gioacchino. Il barone
Agostino venne perciò in possesso di molte monete d’oro di epoca romana e
bizantina provenienti dagli scavi e proprio queste monete balzarono agli onori
della cronaca nel settembre del 1959. Il barone era ospite fisso in occasione
dell’annuale rassegna cinematografica di Messina-Taormina e della mostra del
cinema di Venezia. Nella città lagunare alloggiava sempre all’Hotel Danieli e
quell’anno, nella camera n. 88, subì un furto di cui parlò tutta la stampa
nazionale, relegando in secondo piano i servizi sui film in concorso. Tra gli
oggetti rubati anelli con pietre preziose incise, medaglioni, spille di grande
pregio, alcune corniole e tra queste una di Cerere, del IV secolo a.C. (22).
A queste leggende
relative al sito di Vito Soldano ne sono collegate tante altre ambientate in
numerose contrade del territorio canicattinese.
Si tramanda che molti
tesori siano legati ai sogni e che la trovatura
(il ritrovamento di qualcosa di prezioso) sia propiziata da anime buone che
nei sogni danno precise indicazioni.
Si narra a tal proposito di un tale, lu
zi Filippu Cantalanotti, che sognò di trovare un tesoro ai piedi di un
noce, in contrada Corrice.
Su Casalotti, località
che il Sacheli ha definito "di non dubbia importanza archeologica, tutta
sparsa di antiche vestigia di case, di frantumi di rossi mattoni, fertile di
storia e di trovatura", un po’ meno si è sbizzarrita la fantasia popolare;
anche qui si sono immaginati tesori, ma in particolar modo orrori, come la
mostruosa serpe, l’idra ammaliatrice chiamata biddrina che, nascosta presso le fonti e le paludi, riuscirebbe ad
attirare ed incantare chiunque, passando da quei luoghi, la fissi con gli occhi
(23).
Sulla sommità della
Serra Puleri pare ci sia un tesoro di pezzi
da dodici d’oru, ma non è facile appropriarsene. Ci riuscirà solo chi, con
la bocca piena d’acqua, attinta a li cannuledda
di la Cuba, sarà capace di arrivare fino alla cima della collina senza
inghiottire l’acqua né farla cadere. Se verserà intatto lu vuccuni d’acqua dentro un fosso posto sulla vetta, vedrà la
roccia spaccarsi e comparire il tesoro.
A Canicattì si
troverebbe anche il tesoro di Troia, che non si sa dove sia ma che si può
riscattare ritrovando setti lanni di
assoliu ittati munnu munnu, di cui la prima è pedi Carlinu. Su ogni cassa di latta è stampata una troia ed una
lettera: tutte e sette le lettere formano un nome che indica il luogo dove il
tesoro è nascosto (24).
Sotto le vette del monte
Giummello dicono che esista un altro tesoro, sorvegliato a vista notte e giorno
da un gigante, il terribile Manodiferro, lo stesso che lo avrebbe nascosto lì
in epoca remota, dopo aver spaccato la cima del monte con un pugno e creato i
Pizzi. Chi vuole impadronirsi del tesoro deve portare sulla cima cento quintali
di spoglie di cipolle. Il gigante prenderà allora la bilancia per pesarle ed
ordinerà ai venti di scatenarsi e soffiare con violenza. Se nessuna spoglia
volerà via, la bilancia cadrà dalle mani del gigante, i Pizzi cozzeranno tra di
loro, sgretolandosi, e l’oro apparirà nel suo splendore, mentre Manodiferro in
un lampo si dileguerà. Giummeddu vuol
dire piccolo fiocco (giummo), o può forse derivare dal francese jumelles-gemelle, essendo le due rocce
quasi uguali. Giummeddu potrebbe
essere anche il nome di un personaggio.
Le leggende
canicattinesi, dunque, insistono sempre su un tesoro misterioso in grado di
generare benessere e felicità. E se non fossero solo leggende? Quando la città
sotterranea di Vito Soldano sarà finalmente disvelata nella sua integrità, sarà
chiaro a tutti che il tesoro, da sempre vagheggiato, lì c’è davvero: un bene
artistico di valore incommensurabile che, attraverso il turismo, realizzerà il
sogno atavico di riscatto e di crescita.
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