Un significativo contributo al processo di unificazione nazionale
fu dato dal patriota canicattinese Vincenzo Macaluso.
Nacque a Canicattì nel 1824 dall’avvocato Angelo. Dopo aver
compiuto gli studi nella città natale, e quindi a Girgenti e a Catania, nel
1847 si laureò in legge a Palermo, ove iniziò ad esercitare la professione di
avvocato. L’anno successivo prese parte a Palermo ai moti rivoluzionari del 12
gennaio e, passato a Messina col grado di capitano di artiglieria della
Batteria Trinacria, difese valorosamente quella piazza. Partecipò quindi alla
spedizione calabro-sicula, difendendo con eroismo le bandiere tricolori issate
in un pianoro vicino a Bagnara Calabra, meglio conosciuto come i Piani della
Corona.
A seguito della sconfitta del movimento rivoluzionario, si ritirò
a Messina dove fu a capo di un battaglione di artiglieria mentre la città era
assediata dalle truppe borboniche e, per questa impresa, fu decorato di
medaglia d’argento. Fu nominato dal ministro del governo di Ruggero Settimo,
Giuseppe La Farina, capitano comandante del Castel San Giacomo di Licata e,
poco dopo, capitano di artiglieria a Termini Imerese, fino all’aprile del 1849.
Dopo la restaurazione fu escluso dall’amnistia concessa da Ferdinando
II, poiché il provvedimento riguardava i soli fatti di Sicilia e non era
estensibile ai fatti politici compiuti da siciliani nelle Calabrie. Due i
grandi esclusi: Martino Alessi da Messina e Vincenzo Macaluso che, divenuto
latitante, fu condannato a morte in contumacia. Salvato da una nuova amnistia,
grazie all’intervento dello zio Gioacchino La Lomia, ministro di Grazia e
Giustizia e del Culto del governo borbonico, nel 1851 poté tornare ad
esercitare in Palermo la professione di avvocato.
In tale veste animò una forte campagna contro il ministro di
polizia Maniscalco che accusò di abusi e soprusi. Fu arrestato con l’accusa di
preparare una nuova insurrezione e fu condannato a morte per la seconda volta.
Lo zio Gioacchino La Lomia ottenne un Sovrano Rescritto che lo confinava a
domicilio coatto a Girgenti, ove rimase per circa otto anni.
Mantenne costanti relazioni con Rosolino Pilo, Giuseppe Mazzini e
Francesco Crispi; nel 1859, d’intesa con Pilo e Crispi, organizzò nell’Agrigentino
una rivolta di picconieri di Comitini, Grotte, Racalmuto, Castrofilippo e
Favara, con l’intento di estenderla a Palermo. Il 3 luglio, di buon mattino,
issava sul Calvario di Aragona e sul vicino Monte La Pietra, nel territorio di
Comitini, il tricolore italiano. Era la prima volta che tale gesto simbolico
avveniva nel territorio agrigentino, mentre lo stesso patriota il 12 gennaio
del 1848 aveva innalzato il tricolore a Palermo.
Fallito, ancora una volta, il movimento rivoluzionario, Vincenzo
Macaluso fu arrestato e condannato a morte il 20 maggio del 1860; e proprio
mentre era rinchiuso nelle terribili camere serrate del carcere della Vicaria a
Palermo, in attesa dell’esecuzione capitale, fu liberato, il 27 maggio 1860, da
Garibaldi, giunto con i suoi Mille nella capitale dell’isola.
Con la vittoria definitiva di Garibaldi e la cacciata dei Borbone,
Vincenzo Macaluso fu nominato commissario generale della provincia di Girgenti
da Gaetano La Loggia, segretario di Stato durante la dittatura garibaldina in
Sicilia ed in seguito membro del Consiglio straordinario di Stato, un organismo
creato dal Mordini per discutere i limiti dell’autonomia di cui la
Sicilia avrebbe potuto godere nell’ambito dello Stato Unitario.
Fu, in seguito, consigliere di prefettura a Girgenti, ove si
impegnò nella lotta alla mafia e ai funzionari ad essa asserviti. Memorabile, a
tal proposito, un suo intervento: “La provincia più desolata in tutta Italia è
quella di Girgenti: perché è l’unica provincia ove sonosi perpetrati
assassini su esemplari sindaci, zelanti magistrati, coraggiosi avvocati;
assassini di cui mai la giustizia è arrivata a processare gli autori, nel
mentre il popolo designa le persone e racconta tutti i particolari delle
terribili tragedie! In nessuna provincia d’Italia – che io mi sappia – si è
avuto lo spettacolo di vedere assumere l’autorità di funzionario pubblico da un
grassatore, da un assassino di alta scuola, e valgan per tutti, il non
amnistiato Giuseppe Lavinaro di Comitini e il pugnalatore Giuseppe
Geraci Matrona di Castrofilippo. Quasi tutti i prefetti che sono venuti a
sfamarsi o a prendere il battesimo di fratellanza in Girgenti sono stati
portati sugli scudi da coloro ai quali fumano ancora le mani di sangue invendicato”.
Accettato l’incarico, in quaranta giorni di sua residenza a
Girgenti Macaluso fu il terrore dei delinquenti. Una notte impedì una strage
minacciando l’autorità di Pubblica Sicurezza di telegrafare al governo e
scoprire pubblicamente la trama, se si fosse lasciata prendere la mano.
L’indomani invece venne telegrafato l’ordine della sua destituzione. Macaluso
allora cominciò a pubblicare il periodico "La Pietra" nel quale
denunciò tutta la vicenda delinquenziale.
Fu aperta un’inchiesta e, riassunto in servizio, fu assegnato con
lo stesso incarico a Noto. Era il 1862 e l’animo rivoluzionario di Vincenzo
Macaluso si ribellò al governo di cui era funzionario, all’annunzio
dell’arresto di Giuseppe Garibaldi dopo l’infausta conclusione della spedizione
dell’Aspromonte. Dimenticando il suo ufficio e tornando semplice cittadino, in
un pubblico comizio, nella sede di una società operaia, protestò contro
l’ingratitudine dei Savoia che avevano voluto offendere, nell’arresto e nel
ferimento di Garibaldi, il sentimento di tutti gli italiani. Naturalmente venne
destituito.
Tornato a fare l’avvocato a Palermo fece in tempo a prendere
parte, insieme all’avvocato Antonino Morvillo, al processo contri i funzionari
che avevano torturato con 354 bruciature di ferro rovente il sordomuto Antonio
Cappello, del quale pubblicò la vita e le sofferenze.
Da Palermo passò a Torino, dove scrisse e pubblicò un opuscolo
sulle condizioni della Sicilia e poi si trasferì a Firenze ove fondò la loggia
massonica “Rosolino Pilo”, della quale fu Venerabile. Della massoneria fu
“Gran. Isp. Gen. Gran 33” e delegato straordinario nella Valle del Tevere,
a Roma.
Nel 1866 partecipò, al seguito di Garibaldi, alla battaglia di
Bezzecca.
Nel 1867 fu nominato prefetto a Lagonegro, ove si distinse per la
lotta al brigantaggio – eseguendo personalmente delle perlustrazioni in testa
alle truppe regolari e alla Guardia Nazionale - e per aver riattivato, a sue
spese, due fontane cittadine. Disattendendo la politica anticlericale in vigore
in quegli anni, permise lo svolgimento della processione del "Corpus
Domini", dichiarando a quanti lo criticavano ed, in particolare, al
governo che chiedeva spiegazioni: “Se il rispetto alle opinioni e ai sentimenti
degli altri è delitto, io mi dichiaro il più colpevole… Io ho fatto per
spontaneità, quanto voi avreste fatto per vigliaccheria. Destituitemi”.
Naturalmente fu destituito.
Una posizione, questa, che rientrava nell’atteggiamento di assoluto
equilibrio manifestato dal Macaluso in tante questioni, come l’introduzione
della leva obbligatoria e il censimento dei beni ecclesiastici che si voleva
realizzare in vista di una eventuale confisca.
Atteggiamento ben argomentato in "Rimostranze al
governo" del 1861, un documento ritenuto dal critico letterario
Pietro Mazzamuto “fra i testi più rappresentativi di tanta cultura
siciliana impegnata nella critica contro i sistemi piemontesi del governo
nazionale e nella difesa dei diritti siciliani”. (Pietro Mazzamuto,
"La mafia nella letteratura", in "Nuovi Quaderni del
Meridione", Palermo, 1964). Vincenzo Macaluso si poneva il problema della
gradualità nella politica delle riforme, per non determinare pericolose reazioni
da parte del popolo in quei tempi assai legato alla Chiesa.
Rimosso dall’incarico di prefetto di Lagonegro, Vincenzo Macaluso,
nel 1868, fu nominato consigliere di prefettura a Caltanissetta e consigliere
comunale nella stessa città. Istituì in Sicilia la prima Cooperativa di
Consumo, che visse finché egli rimase a Caltanissetta. In quell’anno la
provincia fu infestata da cavallette ed egli si recò nelle zone colpite dalla
malaria per seguire direttamente gli opportuni interventi.
Subito dopo un’altra destituzione senza che se ne conoscessero i
motivi..
In quegli anni fu anche consigliere comunale a Canicattì, impegno
da cui si sentiva particolarmente appagato. Su sua proposta fu realizzato in
città il primo molino a vapore d’Europa. In seno al Consiglio, Vincenzo
Macaluso portò avanti una dura contestazione nei riguardi del segretario
comunale, Pietro Cupani, che, per accuse relative alla sua gestione
amministrativa, fu destituito con decreto del Consiglio Comunale il 5 novembre
1871. Il Cupani tentò di difendersi ma il Macaluso lo attaccò con maggiore
durezza, parlando di “lorde recriminazioni di un colpito della legge” e di
“ultimi latrati del Cupani”, affermando altresì che “in Sicilia, l’Algeria
dell’Italia, la giustizia è parola di contrabbando”.
Nel suo atto d’accusa contro il Cupani, Vincenzo Macaluso fece
queste nobili considerazioni: “Dai Municipi deve sortire la scintilla delle
vere riforme se vogliamo moralizzare governi e popoli; i Municipi sono le
famiglie dello Stato, come gl’individui gli elementi delle famiglie, e quando
un uomo non è giusto e morale verso la propria famiglia è impossibile che possa
esser mai un buon funzionario: con cattivi cittadini impiegati noi avremo
sempre pessimi governi. Lo Stato non è che la sintesi di tutti gli ordini
sociali e delle famiglie in specie”. (Vincenzo Macaluso, "Un primo saggio
di esemplare punizione – La destituzione del segretario Pietro Cupani",
Girgenti, 1872,).
Vincenzo Macaluso fu anche un brillante giornalista: fondò e
diresse "La Pietra - Giornale per tutti-Meno immoralità, meno ingiustizie,
meno dispotismo", pubblicato prima a Girgenti, a partire dal 1866, e
quindi a Torino, Firenze e Roma, divenute successivamente capitali del Regno
d’Italia. Dal 1885 diresse a Roma, in sostituzione di
Pietro Sbarbaro imprigionato e poi esiliato, "Le forche
caudine", un giornale che arrivò a stampare ben 130.000 copie.
Tentò più volte, senza successo, l’elezione alla Camera dei
Deputati nei collegi di Girgenti, Canicattì, Modica e Lagonegro. Francesco
Crispi gli offrì la commenda in riparazione dei numerosi torti subiti ma
rifiutò sempre. A Roma costituì e diresse una società cooperativa di
consumo.
Morì nella capitale il 27 dicembre 1892, nella sua casa al n. 4 di
piazza della Libertà. Fu sepolto nell’Ossario della Cappella del Sangue Sparso
in Campo Verano.
La notizia fu data a Canicattì dal sindaco Vincenzo Falcone, il 2
gennaio successivo, durante una seduta del Consiglio Comunale: “Con la morte di
Vincenzo Macaluso la famiglia ha perduto un fratello, la nostra Città uno
strenuo difensore del proprio diritto, la Patria un figlio devoto che tutto
sacrificò per essa”. ("Giornale di Sicilia", Palermo 3 gennaio
1893).
Nella stessa seduta fu deliberato di intitolare al grande patriota
un’importante piazza della città: fu scelto l’ampio spazio davanti alla
stazione ferroviaria, allora chiamato piazza della Libertà. La scelta era
significativa perché proprio Vincenzo Macaluso si era battuto perché, in
sostituzione della stazione ferroviaria di Canicattì di contrada Madonna
dell’Aiuto, ne fosse realizzata una nuova nell’immediata periferia della città.
Era stata sua l’idea di disertare in massa l’inaugurazione della prima stazione
ferroviaria, facendo trovare sul posto solo lo scemo del villaggio, Masi
Latona, "cu cilindru e guanti", a cavallo di un’asina
bardata a lutto.
I nemici di Macaluso boicottarono l’iniziativa di intitolargli la
piazza della stazione: “L’ira nemica visse anche dopo la morte e chi avesse
vaghezza di conoscere viemeglio la ingratitudine e l’improntitudine degli
uomini potrà riscontrare all’Archivio Municipale i verbali della prima seduta
dell’anno 1893 che rappresentano la sintesi del proditorio e della scorrettezza.
Il verbale è rimasto in bianco”. ("La Pietra – Eco dell’Irlanda
d’Italia", Canicattì 29 giugno 1909). Col termine "L’Irlanda
d’Italia" si indicava in quegli anni la Sicilia; l’espressione fu usata
dall’economista Francesco Ferrara il quale sosteneva che l’accentramento che si
sarebbe realizzato con l’unità d’Italia avrebbe spinto la Sicilia a rivendicare
la sua autonomia, così come aveva fatto l’Irlanda.
Nel 1907, su proposta del sindaco socialista Gaetano Rao, il
Consiglio Comunale ripropose la deliberazione del 1893, ma l’intitolazione
effettiva della nuova piazza a Vincenzo Macaluso sarebbe avvenuta solo nel
1910, nel cinquantenario dei fatti del 1860 ricordati con manifestazioni in
tutta Italia.
Paolo Scrimali, il 29 maggio 1910, così commentò l’evento:
“Ben fatto! E’ la Pasqua di Resurrezione per questo eroe combattente contro
tutte le oppressioni e che amò sino alla morte la patria sua senza averla mai
tradita. Della sua bontà, dell’ingenuità dell’animo suo, della sua indipendenza
e del suo carattere resterà indelebile il ricordo fra quanti lo conobbero. Sia
spento, ora che egli da tanti anni è morto, il rancore di coloro che furono da
lui bollati e che vivendo fra la prepotenza si sono vendicati col voluto oblio:
e serva la vita attiva e fattiva di quest’uomo che tutto sacrificò per amore
della patria, di esempio alla nostra generazione infrollita e mancante, più che
altro, di carattere. Onore a Lui!”. (Scrimali Paolo, "Vincenzo
Macaluso", Licata, Stabilimento Tipografico De Pasquali, 1910).
Non fu invece rispettata la volontà espressa dai cittadini di
collocare in piazza Vincenzo Macaluso questa lapide assai significativa e
verace:
PER I VERI MARTIRI
DELLA INDIPENDENZA ITALIANA
CUI
I PIRATI POLITICI E GLI EROI DEL VI GIORNO
TOLSERO
LA GLORIA DI AVER FATTA L’ITALIA
A
V I N C E N Z O M A C A L U S O
ANIMA INTEMERATA E FIERO LOTTATORE
PERSEGUITATO DAL BORBONE
E DAL GOVERNO CHE SI DICE ITALIANO
PERCHE’ ETERNA DURI
LA MEMORIA DI LUI
FRA I CITTADINI DI CANICATTI’
INGRATI E DIMENTICHI
SINO AL 1909
("La Pietra – Eco dell’Irlanda d’Italia", Canicattì 29
giugno 1909).
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