Sull’origine dell’Accademia del Parnaso esistono opinioni
divergenti. Secondo il barone Agostino La Lomia l’Accademia sarebbe stata
fondata - al tempo della venuta in Italia di Carlo V – da due gentiluomini
giunti nel 1537 al suo seguito: Gian Maria e Gian
Francesco Collon o Collion. Forse spagnoli o forse portoghesi.
Il barone canicattinese avanzava questa ipotesi in chiave ironica ove si tenga
conto della pronunzia alla spagnola dei due cognomi: Coglion e
quindi Cogliones.
Secondo l’opinione più comune tra gli
storici, e certamente più corrispondente alla realtà, l’Accademia avrebbe avuto
inizio, con ogni probabilità nel 1922, in una taverna annessa all’albergo di
don Ciccio Giordano, sito nella piazza Palma di Canicattì, nelle immediate
vicinanze dell’ex Palazzo Casucci. La piazza prese nome da una palma messa a
dimora nel 1886 e sostituita con una nuova nel 1965.
L’origine dell’Accademia sarebbe da
collegare ad una gara poetica estemporanea tra don Ciccio Giordano e il
farmacista Diego Cigna che, per superare l’avversario, recitò malamente delle
poesie in latino. Il Giordano insinuò che le poesie sarebbero state scritte dal
professore Alfonso Tropia e dal filosofo Angelo Sacheli. Ne seguì una lite
furibonda anche perché il farmacista Cigna osò affermare che le salsicce del
poeta-cuoco don Ciccio erano più gradevoli delle sue poesie.
La serata tuttavia si concluse “a
tarallucci e vino” e tutti si abbracciarono proclamandosi “fedeli amici delle
Muse”. Il gruppo di amici si riuniva nell’osteria del Giordano o, più
frequentemente, nella farmacia di Diego Cigna in corso Umberto.
Si unirono poi al sodalizio
gli arcadi avv. Salvatore Sanmartino, padre Diego Martines, dottor
Gaetano Stella, avv. Francesco Macaluso, Peppi Paci, barone Agostino La Lomia
ed altri.
Il barone Agostino La Lomia volle che
il suo Palazzo di via Cattaneo fosse la sede onoraria dell’Accademia del
Parnaso, un vero salto di qualità ove si pensi che l’inaugurazione ufficiale
del sodalizio era stata officiata nel 1924 nel Castello dei Bonanno, ma in un
vano terrano adibito a deposito delle carrozze funebri.
Il barone incarnò la figura
del parnasiano sempre ironico, anche e soprattutto di se stesso e a
volte perfino sfottente e dissacratore di tutto e di tutti. Era solito
inginocchiarsi davanti al crocifisso quando terminava il rito dell’amore e
rendeva grazie per l’avvenuta conferma della virilità. Faceva il segno della
croce nei momenti più importanti della giornata e una volta confidò ad un
giornalista: “Lo faccio sempre, anche quando una donna mi onora”.
La sua visione della vita era davvero
particolare: “La virtù è propria delle bestie, mentre degli uomini sono propri
i vizi… Il movimento è amore e l’imprevisto la vita…L’amore è più forte perfino
della patria, dell’onore e della vita… Chi si innamora è un eletto… Dove c’è da
godere mi ci butto”. Giuseppe Fava ne "I Siciliani" parlò giustamente
della “dolce vita del barone”.
L’Accademia del Parnaso è stata una
simpatica e vivace espressione della vasta gamma di attività e realtà sociali di
Canicattì. I suoi personaggi rappresentavano il meglio e il peggio della città:
un farmacista e un noleggiatore di mignotte, un professore universitario e un
analfabeta, una ricca principessina e un ammalato cronico, un avvocato e un
cantastorie con cartellone, un sacerdote e un mediatore piazzista di veneri
vaganti.
Tutti potevano far parte
dell’Accademia. Vi entrarono in tanti ad eccezione dell’asina di padre Martines
che, appunto per questo, divenne il simbolo del Parnaso. Durante una cerimonia
ufficiale, alla presenza delle autorità fasciste e di molti intellettuali,
si cercò di introdurre la "scecca" che però si rifiutò con
profonda convinzione. Al che l’avv. Sanmartino commentò: “Questa è la prima
volta che un somaro si rifiuta di entrare in un’Accademia".
L’asina, raffigurata con ali, divenne
nei documenti ufficiali il simbolo dell’Accademia. Il suo motto-epitaffio fu
"terra mihi non sufficit" (la terra non mi
basta). La scelta dell’asina a emblema dell’Accademia fu così giustificata da
Francesco Macaluso (in arte fra Neccolò Musasca):
Sì, lu sceccu,
pirchì si
lu sceccu è sceccu,
è sceccu di nicu,
è sceccu di ranni,
e mori di sceccu.
Caratteri veru, ‘un cangia cu
l’anni,
ma avi un pinseru,
fidili, custanti,
ca l’omu ‘mportanti
di certu nun ha.
La "scecca" di
padre Martines era vergine per statuto. Il fatto che fosse molto prolifica e
frequentasse assiduamente e con visibile profitto la locale stazione di monta
non aveva per i parnasiani alcuna importanza. La verginità – dicevano –
più che una condizione fisica è una categoria dello spirito.
Lo stemma dell’Accademia fu deliberato
nella seduta del 2 luglio 1925. Si decise di affiancare all’asina un leone.
Bisognava però andare a Palermo da uno zincografo (a Girgenti allora non ce
n’erano) perdendo tempo prezioso e soprattutto dovendo pagare. Nessun problema:
tra i vecchi cliché ce n’era uno che raffigurava un cane e lo si utilizzò
apponendo l’avvertenza: “Questo cane è leone, a norma del decreto N. 34256 del
2 luglio 1925”.
Come tutte le accademie che si
rispettino il Parnaso aveva un Presidente, una sede, anzi due, anzi tre, un
motto, carta intestata, moduli per l’ammissione dei nuovi soci, un eroe-simbolo
e, soprattutto, uno statuto.
Presidente fu nominato il poeta-oste
don Ciccio Giordano, anche perché era l’unico fra gli arcadi ad
essere iscritto al Partito Nazionale Fascista. Don Ciccio adempì
scrupolosamente alle sue funzioni, la più importante delle quali era quella di
non parlare mai. Nel 1930 morì e durante i pubblici funerali, naturalmente fascisti,
risuonò il rituale appello del federale di Agrigento: “Camerata Ciccio
Giordano…” ed i presenti risposero con l’altrettanto rituale: “Presente!”. Il
viaggiatore-piazzista Sanmartino commentò: “Se il Presidente da morto risponde
che è presente, allora non è morto e dunque è immortale”.
Il Parnaso aveva tre sedi: la prima –
Sede urbana con acqua corrente – in città. La seconda – Sede rurale con annesso
orto – in contrada Coda di volpe. Una terza sede, in epoca successiva, fu messa
a disposizione per il periodo estivo dall’arcade Agostino La Lomia
nell’isola di Capo La Croce nel mare di Taormina.
Il motto dell’Accademia del Parnaso
capovolge l’esortazione incisa sul frontone del tempio di Apollo a Delfo e
fatto proprio da Socrate: “Conosci te stesso”. Il Parnaso invece ammonisce:
“Guardati dal conoscere te stesso: non ci guadagneresti altro che vergogna!”.
Simbolo del Parnaso fu Pinco Pallino,
incarnazione dell’anti-eroe.
Ogni nuovo associato, prima di
partecipare a pieno titolo ai lavori della Secolare Accademia, si sarebbe
sottoposto ad un battesimo laico nella grande piscina che sarebbe stata
costruita nella periferia di Canicattì, per uso, soprattutto, dei camaleonti,
mestieranti e profittatori politici che cambiano il loro credo al mutare dei
governi. Sul frontespizio sarebbe stata collocata questa epigrafe
dettata dall’arcade sacerdote Diego Martines: "LAVATI, LAVATI,
POSSIBILMENTE ANCHE LE MANI".
Ce ne illustra le modalità Peppi Paci
in un suo breve delizioso componimento: "La piscina di lu Parnasu":
Lu “Parnasu” ha già bella ed appruntatu
‘na capaci e magnifica piscina,
in modu c’ogni novu assuciatu,
dàssi a lu corpu so’ ‘na lavatina.
Appena ca si trasi c’è ‘st’avvisu:
“Lavati, amicu, ca diventi sanu!
Lavati beni, corpu, testa e visu;
lava, possibilmenti, anchi li manu.
Ma il vero capolavoro dell’Accademia
del Parnaso è il suo Statuto. Ne ricordiamo gli articoli più significativi:
Art. 1 - Il Parnaso è.
Art. 2 - L’Accademia è composta
di arcadi maggiori e arcadiminori. Sono maggiori i non minori e
viceversa, perché le cariche si attribuiscono a ritroso.
Art. 8 - Le deliberazioni
dell’Accademia, per essere valide, debbono essere prese a maggioranza assoluta.
Le deliberazioni prese all’unanimità sono nulle.
Art. 16 - L’asina alata di
“patri Decu Martines”, nomata “la Sapienza”, è dichiarata immortale,
casta e pura, per statuto, se pur… sforna un asinello all’anno! Nelle riunioni
assembleari sarà ammantata lussuosamente di nero, com’è prescritto per le
camicie dei convenuti: e, ornata di alloro, sarà cavalcata unicamente
dall’Incommensurabile Presidente.
Emendamenti allo Statuto:
Il Presidente, che ha il legittimo
titolo d’Immenso, ha sempre ragione ed è infallibile. E se fra quello che gli
scappa detto e la Verità vi sia discrepanza, è la Verità che dev’essere
corretta, non lui!
Per le iscrizioni delle donne maritate
occorre il consenso, anche presunto, del marito o di chi ne fa le veci.
Per i minori si iscrive (quale
responsabile) il padre noto.
Il Parnaso, Accademia delle Scienze,
Lettere ed Art, non fa ad alcun socio l’obbligo d’essere intelligente…, anzi!
Famose le burle del Parnaso. Ricordiamo
le principali.
Negli anni Trenta infuriò la polemica
sulla vera nazionalità di Cristoforo Colombo: genovese o spagnolo? Alla
questione l’Accademia del Parnaso dedicò naturalmente, a suo modo, dotti
dibattiti. Il tutto fu sintetizzato in una relazione del farmacista Cigna:
“Risulta da un serio esame delle fonti e dalla documentazione che lo scopritore
dell’America era denominato Cristobal Collon; non potevasi dunque
aver dubbio veruno sulla sua “hispanidad” dato il carattere spagnolo
dei Collones”.
I Collones avevano importanti
relazioni con l’Italia in generale e con Canicattì in particolare; erano
probabilmente dei congiunti di Cristobal i due gemelli cui, secondo le
ricerche dell’arcade barone Agostino La Lomia, è da attribuirsi la
fondazione dell’Accademia. La relazione fu inviata ai
con-arcadi dell’Università di Salamanca: “Dai nostri pluricentenari
archivi risulta che tutti noi arcadiabbiamo avuto come fondatori
due Colliòn, venuti in Sicilia durante la dominazione spagnola. La
differenza tra il termine Colòn e Colliòn è da attribuirsi
al vezzo, tutto canicattinese, di dittongare la sillaba tonica (es.
mezzo-miezzu, letto-liettu, anello-anieddu). Vogliate perdonare questi dotti
nostrani che non possono comprendere certe peculiarità lessicali proprie di
Canicattì e di qualche altro centro fortemente ispanizzato, e contate su di
noi, arcadi parnasiani, per dimostrare al mondo intero che tutti
i Colòno Colliòn che dir si voglia, non possono che essere
Spagnoli”.
La relazione fu inviata alle riviste
specializzate e alle accademie dei due paesi. Un autorevole Istituto storico
spagnolo segnalò la relazione come testimonianza di un serio rigore
metodologico.
Un’altra beffa avvenne nel 1929
allorché il regime fascista istituì l’Accademia d’Italia. Non parve vero
ai parnasiani di inviare un beffardo telegramma di saluto: “Questa
Secolare Accademia saluta giovane consorella”. Il professor Tommaso Tittoni,
già presidente del Senato, neo presidente dell’Accademia d’Italia, rispose
ringraziando il Parnaso per il suo alto gradimento: ”Accademia d’Italia salute
illustre e antica consorella di Canicattì”.
Celebre anche la discussione su chi
fosse il più importante poeta italiano. Dopo ampio dibattito i
venticinque arcadi maggiori passarono ai voti. Ognuno di loro ebbe un
voto e pertanto risultarono eletti tutti a pari merito primo poeta
d’Italia. Si votò poi il secondo poeta italiano e fu eletto all’unanimità Dante
Alighieri.
Ironica la suddivisione dei membri dell’Accademia del Parnaso in arcadi maggiori e minori. Erano arcadi maggiori le figure meno importanti come Ciuzzu lu Cardiddaru, Carminu Corbu inteso Squajazza, un certo Falzone detto Taganieddu, Pietro Cretti (un ambulante designato segretario del sodalizio), Giuseppe Bennici, Giuseppe Zagarrì, Luigi Cirami, Pietro Greco. Arcadi minori, invece, furono Luigi Pirandello, Arnoldo Fraccarolo, Marco Praga, Trilussa, Angelo Romagnoli, Angelo Musco, Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Marta Abba, Benedetto Croce, Salvatore Quasimodo e, fra i più recenti, l’attore di origini canicattinesi Ben Gazzara e Leonardo Sciascia, che ricevette il diploma da Giuseppe Alaimo in occasione di uno dei premi di poesia indetti dal quindicinale "La Torre".
Per entrare nell’Accademia era
necessario sottoporsi al giudizio di una ineffabile ed insindacabile
commissione formata dal Presidente, l’immortale don Ciccio Giordano, da una
levatrice in grado di accompagnare e valutare il parto poetico e da un
geometra chiamato a misurare la lunghezza del verso.
Gaetano Augello
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