Gaetano Augello, VITA CIVILE E FEDE NEL CULTO DELL’IMMACOLATA

Il culto dell’Immacolata, introdotto in Sicilia sotto la dominazione normanna, si diffuse ancor di più a Canicattì, come in tutta l’isola, a seguito del voto solenne emesso dalla città di Palermo nel 1624 come ringraziamento per essere stata liberata dalla peste. Il voto, proposto dal Pretore della Città e accettato da un’assemblea popolare il 27 luglio, fu emesso solennemente in Cattedrale il 25 agosto, alla presenza dell’arcivescovo cardinale Giovanni (Giannettino) Doria e Del Carretto (1608-1642), della nobiltà, del Senato e del Capitolo. Il voto, cui era connesso il giuramento di fedeltà alla Madonna e al suo immacolato concepimento, fu confermato dal viceré il 16 novembre e ratificato dal Senato Palermitano il 23 dello stesso mese.

Da allora tutti i viceré che si succedevano nel governo della Sicilia, prima di iniziare la loro attività, emettevano il voto nella chiesa di San Francesco, officiata dai padri conventuali. Il viceré don Rodrigo De Mendoza, duca dell’Infantado (1651-1655), volle che la devozione si estendesse in tutta l’isola.
A Canicattì, per la contemporanea presenza dei frati minori nel convento dello Spirito Santo e dei conventuali in quello attiguo alla chiesa di San Francesco, la devozione per l’Immacolata si diffuse rapidamente. Si deve però soprattutto ai conventuali lo sviluppo dell’antico culto, grazie anche all’istituzione in città dell’associazione mariana dal titolo Compagnia dell’Immacolata, che seguì di pochi anni la prima, istituita a Palermo nel 1575 dal frate Giuseppe Mandria. Queste associazioni, oltre alle finalità primarie di tipo religioso, svolgevano anche un impegno nel campo sociale, creando legati per favorire i matrimoni di ragazze povere e per assistere carcerati e bisognosi.
L’Immacolata a Canicattì, ab immemorabili, è onorata con due feste: quella liturgica dell’otto dicembre ed una festa primaverile che si celebra nella domenica in albis, la prima successiva alla Pasqua.
Per meglio prepararsi spiritualmente alla festa, il sette dicembre in passato era giorno di digiuno per tutti, anche per gli animali, ma a pranzo si potevano gustare i muffuletti ‘nciminati, conditi con olio e acciughe, pesce sott’olio o ricotta. Questa tradizione continua ancora oggi, mentre sono scomparse da tempo altre due consuetudini, anch’esse tipiche della vigilia: la processione delle pentole e la processione delle scope con successiva scopata.
Grazie alla prima usanza, un gran numero di pentole, ricolme di minestra e abbellite in vari modi, erano portate alle carceri del Castello e nelle case dei più poveri. Davvero singolare l’altra tradizione: la vigilia dell’Immacolata a ventun’ora (ore 15) tanti ragazzi e tante ragazze (in particolare quelle prossime al matrimonio), al suono delle campane di San Francesco, lu triunfu di la Madonna ‘Maculata, uscivano di casa recitando il rosario e, portando scuparini adornate di nastri variopinti e fiori, si recavano a San Francesco e, in onore della Madonna, pulivano la chiesa per la festa dell’indomani. La tradizione della scopata, sempre nella festa dell’Immacolata, era presente anche in altri centri siciliani: in particolare a Caltanissetta e a Caltagirone ove, con una variante singolare, erano preti e seminaristi intenti a scopare la cappella dell’Immacolata; a Bronte invece la scopata si effettuava la vigilia della festa del Corpus Domini.
Poiché la festa era patrocinata dai governanti, a mezzogiorno del sette dicembre, nella chiesa di San Francesco venivano trasportati e deposti, in un apposito padiglione, i ritratti del re e della regina. Dopo il 1860 i ritratti dei Borbone furono sostituiti con quelli dei Savoia ma il clero canicattinese, ancora fedele in gran parte ai Borbone, preferiva esporre il quadro del pontefice regnante. La sera della vigilia era illuminata da li vamparotti, falò realizzati in vari quartieri e sulle colline più vicine alla città, grazie soprattutto alle offerte raccolte dai ragazzi per le strade. Nei primi anni Cinquanta, per non danneggiare l’asfalto che incominciava a livellare le principali arterie della città, i falò furono consentiti solo nelle strade sterrate. Con l’avvento della metanizzazione li vamparotti sono scomparse quasi del tutto.
La mattina dell’otto dicembre gli amministratori comunali partecipavano nella chiesa di San Francesco alla messa solenne; al termine il Sindaco, analogamente a quanto avvenuto a Palermo nel 1624, davanti all’altare maggiore recitava il voto: Conceptam voveo ac iuro sine labe Mariam (faccio voto e giuro che Maria è stata concepita senza macchia). In un apposito registro venivano raccolte le formule firmate di anno in anno dai capi dell’amministrazione. La formula del voto è stata rintracciata in un registro dell’Archivio Comunale datato 1707; in un Registro Giuratale in data 1° maggio 1761 è trascritta, sotto forma di distico, una formula di giuramento analoga:

Sanguine defendam primaevum Virginis instans
Defende extremum, tu bona Virgo, meum.

(Difenderò col sangue il primo momento della Vergine; difendi tu, buona Vergine, il mio ultimo).
Da quest’antica devozione deriva l’omaggio floreale del Sindaco alla Madonna, in piazza IV Novembre, durante la processione dell’otto dicembre.
La festa raggiungeva la massima espressione con la processione del pomeriggio cui partecipava tutta la città e che si snodava, talora con difficoltà, attraverso strade dirupate e disagevoli. Sfilavano per primi i confrati in sacco bianco e mantellette di vari colori; erano preceduti da lunghi stendardi e dai tamburinai e reggevano bastoni professionali a raggera o a forma di croce (bacchetti). Seguivano le croci astili e gli stendardi degli ordini religiosi e quindi le cappe bianche e nere dei domenicani, le tonache nere dei conventuali, le tonache di colore marrone, pur con diverse gradazioni, dei minori osservanti e dei carmelitani dell’Antica Osservanza; quindi i dodici mansionari della Chiesa Madre in almuzio ed i cavalieri della Maestranza in giacca lunga, calzoni al ginocchio e calze bianche.
Avanzava quindi, sotto un grande baldacchino, il simulacro della Madonna ricco di oro e argento (corona, aureola stellata e altri gioielli) e avvolto da un manto finemente ricamato. Dietro, i Magnifici Giurati dell’Università (il Comune) accompagnati dai due Mazzieri e, successivamente, sindaci e assessori. Le donne s’inginocchiavano, al passaggio della Madonna, tra il dolce suono delle cornamuse e l’assordante rumoreggiare dei tamburi.
Per alcuni anni seguirono la processione anche i Cerei, portati dai Ceti. L’istituzione del primo Cereo nel 1720 da parte di alcuni pecorai fu dovuta proprio alla devozione per l’Immacolata. L’anno seguente si presentarono alla processione con un loro Cereo i bordonari, allora assai numerosi; la precedenza spettava ai pecorai, per la loro primogenitura nell’iniziativa, ma i bordonari, facendo leva sul loro numero, “si misero in brio” per sopraffarli. I pecorai allora tennero conto saggiamente della loro minorità numerica e, pur affermando i propri diritti, preferirono ritirarsi.
Ma la festa più importante in onore dell’Immacolata e, in assoluto, la più significativa in città, per la presenza di riferimenti non solo religiosi ma anche civili, era quella della domenica in albis. La festa fu istituita nel 1640 dal re di Spagna e di Sicilia Filippo IV che, stanco delle continue guerre, ordinò che per otto giorni, a partire dalla domenica in albis, in tutte le città del suo regno fossero indette delle preghiere, alla presenza di tutto il Senato, per ottenere la pace e l’incolumità della famiglia reale. A Palermo si stabilì che al termine della messa si svolgesse una processione all’interno della Cattedrale; negli otto giorni seguenti ogni mattina una diversa comunità di frati doveva recarsi in Cattedrale portando in processione un’immagine della Madonna accompagnata dal canto delle litanie.
Questa consuetudine rimase in vigore fino al 1866 e cioè fino alla soppressione degli ordini monastici; nel 1874 la tradizione fu ripresa stabilendo che la domenica in albis, in tutti i paesi, un’immagine della Madonna fosse portata nella Chiesa Madre per dare inizio ad una novena di preghiere per la pace. A Canicattì, per tale rito propiziatorio, fu naturalmente scelta l’Immacolata di San Francesco.
Ebbe così inizio, arricchendosi sempre più, la solenne processione della domenica in albis che, partendo da San Francesco, terminava alla Chiesa Madre ove l’Immacolata, come abbiamo già detto, sarebbe rimasta per otto giorni, per essere trasferita, la domenica successiva, alla chiesa dello Spirito Santo, ove sarebbe rimasta fino alla festa del Crocifisso del 3 maggio.
La processione dell’Immacolata della domenica in albis era l’ideale continuazione di un antico rito che si svolgeva, dal tempo della dominazione normanna, nelle strette vie del Piano Castello: la Madonna bizantina in pietra trovata a Vito Soldano lasciava l’antica chiesetta del Purgatorio e percorreva tutte le vie dell’antico borgo fino a raggiungere, sopra Borgalino, la chiesa di S. Maria di Gesù. La processione era guidata dal Capitano e dallo squadrone dell’antica Confraternita che indossava elmi e corazze dell’armeria del conte Ruggero. “Seguiva la sfilata di li burgisi, a cavallo di muli parati con stoffe dai colori smaglianti, che portavano le offerte alla Signora consistenti in bisacce di grano ed agnellini dai nastrini multicolori” (Antonio Vinci, Una storia nella storia – Canicattì tra storia e leggenda, Palermo, 1988).
Seguivano la statua il parroco del Purgatorio, i monaci di S. Maria di Gesù ed i monaci agostiniani che i Palmeri facevano giungere da Naro; quindi “i pochi nobili, le loro consorti con figli e figlie già da marito a 12 anni e, pertanto, abbigliate alla maniera dell’ultima moda ruggeriana, che suggeriva: vestito di seta colorato munito di larghe maniche ai gomiti e guarnito con perline sparse qua e là, capelli acconciati verso l’alto e sostenuti da fili d’oro e d’argento, calzari di pelle lavorata, monili d’oro ai nudi polsi e un cortissimo camelotto foderato di martora adagiato sulle spalle. Appresso ai padroni vi erano gli ospiti dei paesi vicini, la famiglia del castellano, gli scribi, i vassalli, i razionali e, infine, il popolo” (Antonio Vinci, ibidem).
Alla processione della domenica in albis conferiva speciale solennità la partecipazione dello squadrone della Real Maestranza. Lo squadrone, costituito all’interno della Real Maestranza, era guidato da un Capitano e portava in processione, al suono del tamburo accompagnato da spari di bombe e mortaretti, le armi di tutte le epoche raccolte nei vani terrani del Castello Bonanno. Lo squadrone era costituito da mastri, ossia da operai appartenenti alle maestranze che, al momento dell’iscrizione, erano chiamati artiglieri.
Uno dei mastri svolgeva il compito di Superiore col nome di Capitano: era un’istituzione assai importante e, tra gli altri privilegi, poteva liberare nelle due feste dell’Immacolata (otto dicembre e domenica in albis) un prigioniero dalle carceri baronali di Siculiana; per i soci che si fossero rifiutati di partecipare o che avessero creato particolari problemi il Capitano poteva disporre (solo nel giorno della festa) perfino l’arresto. D’intesa con i frati conventuali, la Maestranza eleggeva ogni tre anni quattro Deputati che dovevano sovrintendere alla festa: tra essi era eletto ogni anno il Procuratore che aveva il compito delicato di gestire le offerte dei fedeli in oro, argento e animali vivi e il ricavato della questua che veniva effettuata in maniera capillare sia in paese che nelle campagne. I quattro Deputati erano collaborati da due rappresentanti del Ceto Civile.
La presenza delle armi del Castello durante la processione della domenica in albis era legata a diverse tradizioni e leggende. La più importante narrava del Conte Ruggero che, dopo la vittoria contro gli Arabi a Monte Saraceno, avrebbe inviato al Castello di Canicattì, su un carro trainato da buoi, le armi sottratte ai nemici. Tale decisione sarebbe stata presa come atto di gratitudine verso l’Immacolata che, accogliendo le preghiere dello stesso Ruggero e dei suoi soldati, si sarebbe materializzata nel campo di battaglia e avrebbe fermato il sole nel suo corso fino alla sconfitta dei saraceni. Secondo un’altra leggenda le armi sarebbero state trovate da alcuni contadini che avrebbero chiesto all’Immacolata di fermare il sole per consentirne il recupero.
Lo squadrone della Real Maestranza interveniva in vari momenti della festa. Il sabato antecedente, il Capitano e gli artiglieri, al suono del tamburo, giravano per le vie del paese invitando tutti i membri della corporazione a partecipare alla processione della domenica. Durante la notte gli artiglieri in vari punti del paese sparavano delle bombe augurali. All’alba della domenica gli artiglieri sparavano delle salve d’apertura da un cannoncino che tenevano nella vanedda di lu cannuni (oggi via Risorgimento) e lanciavano alcuni petardi (mascuna) davanti alla porta di casa di ciascun mastro. Intorno alle ore 10 tutti i soci della Maestranza e i confrati di Maria SS. degli Agonizzanti, al suono speciale della campana della chiesa omonima, si riunivano nella piazza antistante la chiesa (oggi piazza XXIV Maggio) per dare inizio al gioco della bandiera.
Apriva il corteo un tamburinaio che suonava una caratteristica cadenza; si formavano quindi due file di confrati, ciascuno con la propria divisa, e di mastri elegantemente vestiti, con cappello a cilindro e giammeria, preceduti dagli artiglieri che avanzavano con bastoni lunghi e biforcati nella punta; nel mezzo delle due file il Gonfaloniere e il Capitano che, vestiti in frac, reggevano lunghe lance e picche di latta; a seguire i giocatori che sollevavano una bandiera, gialla e senza punta all’estremità superiore, recante il monogramma della Vergine ricamato in viola e le stelle ricamate in seta celeste.
Il corteo si fermava nelle varie piazze ove si svolgeva, al suono cadenzato del tamburino, il gioco della bandiera: consisteva nel lancio ripetuto e a grande altezza della bandiera che veniva ripresa dal cavaliere diritta sul naso o sulla testa, dopo averla fatta girare in varie fogge attorno al corpo e fra le gambe. La bandiera compiva mille giravolte senza cadere mai per terra tra la gioia dei ragazzini, delle donne affacciate ai balconi e di tutti i presenti, a cominciare dal Capitano che, visibilmente soddisfatto, sorrideva bonariamente tenendo in mano un frustino.
A seguito di quanto accaduto nel 1814 le armi non uscirono più dal Castello. La domenica in albis di quell’anno fu annunciata, come sempre, dal suono festoso delle campane, dopo che nella notte si erano uditi ripetutamente gli spari dei mortai prelevati dall’armeria del Castello. La Corporazione della Maestranza, riunita nella chiesa degli Agonizzanti, aveva stabilito come sviluppare le varie fasi del gioco della bandiera e della processione pomeridiana. Ma, proprio durante una fermata del corteo nel largo di Santa Rosalia per dar vita ad una delle fasi del gioco, il Capitano dello squadrone della Maestranza, mastro Diego Accardo, mentre sostava davanti alla chiesa, fu colpito da un bossolo di mortaio sparato da uno degli artiglieri, dal lato opposto. Ne seguì un grande scompiglio e il gioco fu interrotto. Il Castellano decise allora di non concedere più le lance e i mortai.
I membri della Maestranza sostituirono negli anni successivi i mortai con i mortaretti e le alabarde e altre armi con imitazioni in latta, legno e ferro battuto. L’uso delle armi del Castello non sarebbe stato in ogni caso più possibile dal 1827, quando la legittima proprietaria, Donna Teresa Bonanno e Moncada, ne decise la cessione al Museo di Capodimonte di Napoli da dove, dopo l’unità d’Italia, sarebbero state trasferite all’Armeria Nazionale di Torino, capitale del nuovo Regno.
Nella mattinata della domenica in albis si svolgeva, con modalità in parte diverse da quelle proprie della festa del Crocifisso (lu Tri di Maiu), anche la tradizionale rietina: al suono della banda musicale venivano portati in giro da cavalieri, per le principali vie della città, gli ornamenti dell’Immacolata: lo stellario, la corona, il manto azzurro, il mazzetto e la gistra, cioè il cestino di fiori artificiali del baldacchino della vara. Seguivano carri e cavalli bardati a festa, recanti bisacce ricolme di grano e altri prodotti della terra.
La presenza dei carri siciliani riccamente addobbati nella festa della domenica in albis è strettamente legata alle origini di questi mezzi di trasporto. Dalla prima descrizione letteraria dei carretti, tramandataci dallo scrittore francese Jean Baptiste de Nervo Gonzalve (1804-1897), apprendiamo che nella prima metà dell’Ottocento le ricche raffigurazioni facevano riferimento soprattutto all’immagine della Madonna. Lo scrittore, al rientro da un viaggio in Sicilia compiuto nel 1833, narra di una “specie di piccoli carri, montati su un asse di legno molto alto; sono quasi tutti dipinti in blu, con l’immagine della Vergine o di qualche santo sui pannelli delle fiancate” (Jean Baptiste Nervo de Gonzalve, Un tour en Sicile, 1833, Paris, 1834).
Le finalità sociali legate alla presenza in città della Compagnia dell’Immacolata, di cui abbiamo già detto, sono testimoniate da un’antica tradizione. In passato la domenica in albis era compresa nel periodo proibito per le nozze; si faceva un’eccezione per un solo matrimonio: la sposina era una ragazza povera, preferibilmente di nome Maria, alla cui dote provvedevano talune Opere Pie o la Maestranza.
Nel pomeriggio della domenica lo squadrone si recava a San Francesco per la processione: la Real Maestranza era la prima a partire, seguita da tutte le confraternite cittadine che indossavano i rispettivi abiti; i mastri avanzavano con un cappello a cilindro e reggendo grossi ceri accesi. Seguivano i sacerdoti, i mansionari e i frati così come accadeva nella festa dell’otto dicembre. La vara della Madonna, prefigurando il raccolto ormai prossimo, era adornata da fasci di spighe ancora piccole, mazzetti di fave e rami di mandorlo. La processione era costretta a effettuare continue fermate, per consentire ai fedeli di donare oro e gioielli che, unitamente a tanti biglietti di banca, venivano fissati sul manto della Madonna o ai lati del baldacchino. I burgisi accompagnavano l’offerta dei frutti della terra cantando in coro:

Nui purtammu tanti cosi, tanti sciuri e tanti rosi,
girbiteddi e mandarini e tanti autri cosi fini,
tanti spichi di lavuri pi ludari lu Signuri,
picureddi cu la scocca e puddicini cu la sciocca,
un panaru chinu d’ova e na lampa nova nova
e na lampa, na lampa nova nova.

Il passaggio della Madonna era accompagnato dalle preghiere salmodianti dei fedeli:

Sia ludatu e ringraziatu ogni momentu
lu Santissimu, Divinissimu Sacramentu.
Sia ludata nni li cieli o Maria,
sia ludata in ogni strada e in ogni via.
Viva viva, viva viva ‘Maculata o Maria,
la Rigina di li cieli nui purtammu pi la via,
viva via ‘Maculata o Maria!

(Dal musical Yanalquattà… tra storia e leggenda di Gioacchino. Di Bella)
In tarda serata il tutto terminava con giuochi pirotecnici e concerti in piazza. Il corteo della Real Maestranza si scioglieva quindi in casa del Capitano con la distribuzione di vino e ceci abbrustoliti; l’indomani i soci si riunivano per l’elezione del nuovo Capitano che sarebbe rimasto in carica per un anno.
Le maestranze siciliane furono soppresse nel 1784 per ragioni politiche; furono ripristinate nel 1812 ma nel 1822, per la partecipazione di numerosi loro componenti a movimenti rivoluzionari, furono definitivamente abolite per ordine del re Francesco I di Borbone.

Gaetano Augello

Nessun commento:

Posta un commento