Gaetano Augello, CANICATTÌ - ​"LA PINTALORA DI LA BATIA"

Nel quartiere della Badia, un vero crocevia per l'intera città di Canicattì e un tempo assai popolato e vivace, visse e operò una donna di costumi non eccessivamente spirituali, detta “la Pintalora”.
La povera donna viveva nel "mondo" ma non godeva di alcuna delle possibilità da esso offerte. Di contro, accanto alla sua modesta abitazione, si ergeva un grandioso convento delle monache benedettine canossiane attiguo alla splendida chiesa barocca dei Santi Filippo e Giacomo, voluta dai principi Bonanno Colonna e da tutti conosciuta come la "Batia".
Nel grandioso monastero vivevano numerose esponenti delle famiglie nobili di Canicattì come i Gangitano, i Testasecca, i Sammarco, i Corbo, i Notarstefano, i La Lomia, i Lombardo, i Safonte, i Bordonaro ed altre. Ogni monaca, durante il suggestivo rito della vestizione, aveva emesso voto di povertà, dichiarando di rinunciare "al mondo e a tutte le sue pompe". Dei beni terreni, invece, le benedettine erano le prime in città a godere. Basti pensare che il monastero era l'unico edificio pubblico a poter usufruire, per un privilegio baronale che risaliva alla fondazione, di una condotta d'acqua proveniente, per caduta, da una derivazione di una sorgente di Borgalino, la parte alta della città.
Le monache godevano di tanti altri privilegi e la loro "rinuncia al mondo" era soltanto formale. Il monastero, tra gli altri beni, possedeva la tenuta di Fruscola nel feudo di Graziano, estesa venti salme, la tenuta e fiumara di Fabrizio e, a partire dal 1748, le terre dette "lu Cugni dell'Ogliaro" nel Demanio di Naro. La ricchezza del monastero si ampliava sempre più perché ogni nuova suora portava con se' una dote che col tempo si ricapitalizzava.
Era tale l'afflusso delle novizie che, nel 1703, il vescovo di Girgenti, Francesco Ramirez - un nobile spagnolo di Toledo appartenente all'ordine dei domenicani - dispose che nello stesso monastero non potessero essere presenti più di due sorelle. La selezione era assicurata anche da un'altra disposizione: le suore erano tenute a leggere e scrivere, cosa assai rara in quei tempi.
Il grado di nobiltà determinava la gerarchia nella vita monastica: badessa, priora, maestra delle educande e delle novizie, rotara (rispondeva alle persone che parlavano al di là della ruota), bursaria (cassiera), cillararia (economa per i viveri), spaziala ((dolciera), cucinera e, infine, sagrestana e purtunara. Era assicurato alle suore un regolare servizio medico e ciascuna di essere godeva di un confessore personale cui nelle feste donava i dolci di mandorla tipici del monastero.
Attorno alla monumentale chiesa, imponenti e ricchi palazzi nobiliari facevano contrasto con minuscole abitazioni che, spesso, al di là della porta di ingresso, erano soltanto delle grotte ove i poveracci dividevano gli spazi angusti col mulo e col somaro che sopportavano con loro le fatiche della vita quotidiana.
La casa della "Pintalora", al centro della via che sale al monastero, consisteva in un piccolo vano terrano, dotato però della "gelosia", una finestra che consentiva alla donna di controllare i "visitatori" in arrivo; a sinistra una piccola alcova ove era collocato un letto, primario strumento di lavoro. La casa, costruita col contributo di un maturo amante, diventava con gli anni malmessa e poco accogliente.
Nelle ore libere la donna se ne stava da sola e rifletteva sulla triste vecchiaia che l'aspettava, versando spesso lacrime silenziose e amare. Il suo corpo, fonte primaria di sostentamento, sfioriva di giorno in giorno, facendo intravedere giorni amari di solitudine e povertà. “La Pintalora” corse ai ripari come poté. Si allestì una specie di guaina felpata - detta la “pilusedda” - che rinchiudeva quasi tutto il corpo, con alcune aperture strategiche. Costretto in tale guaina, il corpo della matura etera riuscì ad adescare ancora qualche ingenuo. 
Ma la situazione precipitava e, nonostante la buona volontà e l'intraprendenza della povera donna, i visitatori si diradarono ed essa visse caparbiamente la sua povertà, non assoggettandosi ad alcuno, fino alla fine. In punto di morte rifiutò viatico ed estrema unzione, suscitando la reazione dei preti e del fanatismo popolare. 
Solo un vecchio pecoraio, innamoratissimo di lei in gioventù e al quale non si era mai data perché povero, venne da un quartiere periferico sul far della sera e accese una lampada di creta - comperando l'olio sul momento - per non fare morire al buio la donna che aveva amato.
Alla sventurata non fu consentito di essere sepolta sotto il pavimento di una chiesa, come si usava allora. Il fanatismo collettivo si accanì sui suoi miseri resti.
Una gran folla, guidata dall’arciprete, irruppe nell’abituro della “Pintalora”; i più animosi e fanatici sollevarono i due “trispi” che reggevano la salma e trascinarono il cadavere per due chilometri fino alla contrada Scala, sulla strada per Delia, e lo scaraventarono in un vecchio silos abbandonato che apparteneva al diruto castello del Duca di Ferrandina. Ognuno dei presenti volle scagliare una pietra sul corpo ignudo della donna formando un improvvisato sepolcro. Da allora il popolo chiamò l'antico silos la fossa “di la Pintalora”.
Nessuna misericordia, dunque, per la "Pintalora" come non ve n'era alcuna per i peccatori. E, proprio a pochi metri dalla casa della "Pintalora", a ricordarci questo triste passato, con una rappresentazione visiva, provvede un'edicola votiva dedicata alla "Madonna dei peccatori".  Al suo interno un quadro raffigura un peccatore - con tutta probabilità un bestemmiatore - che porta al collo una specie di canapo - il "libone" - un antico oggetto di punizione e di penitenza.  E, sempre a Canicattì, davanti alla chiesa del Purgatorio, fino a pochi anni fa era conficcato al muro il cosiddetto "collare dei bestemmiatori" incalliti e recidivi.
Tutto ciò in esecuzione di una linea particolarmente dura stabilita, nel novembre del 1703, dal Sinodo della diocesi di Girgenti retta dal vescovo Francesco Ramirez: "Ai bestemmiatori consuetudinari - e lo sono anche quelli che chiamano il diavolo santo - sia compressa la lingua con strumenti mordaci e per penitenza stiano fuori la porta della chiesa a capo scoperto per almeno un'ora, a piedi nudi e con una candela accesa in mano". (Nella foto - di Giuseppe Lo Brutto - la "via della Pintalora".

GAETANO AUGELLO

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