Molti,
specie a sinistra, si chiedono spesso, dubbiosi, come mai Napolitano, ex
dirigente di primo piano del Pci, si faccia oggi sostenitore di un governo
benvoluto dai centri di potere, interni e internazionali, del capitalismo
finanziario ed industriale. E non pochi sospendono il giudizio, speranzosi in
un suo "ravvedimento".
Non
ricordano i più anziani ed i più giovani ignorano che Napolitano, quale primo esponente della corrente di destra del Pci, i c.d.
"miglioristi", fu l'avversario principale della svolta radicale per
l'alternativa di sinistra che Berlinguer, superata-abbandonata criticamente la
linea del compromesso con la D.C. di Andreotti e Forlani e suoi alleati,
propose e lanciò col famoso discorso di Salerno del 1980.
Egli
si contrappose a Berlinguer, sostenendo che andava perseguita l'unità col Psi
di Craxi, con colui, cioè, che si fece artefice della normalizzazione
capitalistica a livello politico dopo la vittoria padronale alla Fiat del 1980.
E per gestirla con forza riprese, applaudito da Fini, la proposta della
Repubblica Presidenziale, che comportava la riduzione-limitazione dei poteri
del Parlamento, della rappresentanza democratica e dei partiti. Proposta che
per primo aveva lanciato Almirante, grande ammiratore della svolta autoritaria
della V Repubblica presidenziale di De Gaulle
Quando,
poi, Berlinguer, nel luglio 1981, rilasciò a Scalfari la famosa intervista con
la quale condannava la spartizione fra partiti di ogni carica direttiva nelle
Usl ed in tutti gli altri enti pubblici - (un "vero e proprio
mercimonio", disse, che investiva in particolare il Psi di Craxi oltre
alla Dc e suoi alleati) -, e nella quale sostenne con grande energia che la
questione morale era essenzialmente questione politica, concernendo la
salvaguardia della democrazia costituzionale, Napolitano lo attaccò duramente
sui giornali, tacciandolo di moralismo - argomento forte di Giuliano Ferrara -
e dicendo che in tal modo venivano tagliati i ponti di una possibile alleanza
anche col Psi.
Napolitano,
per la sua formazione politica, ricevuta come vedremo, per sua stessa
ammissione, da maestri di destra, si è mosso sempre, anche nel periodo del suo
passato stalinista, in una logica di mera gestione del potere esistente, mai
ponendosi il problema della sua trasformazione rivoluzionaria. Questo spiega la
sua grande amicizia politica con Lama, specie dopo la svolta a destra compiuta
da quest'ultimo col comizio dell'Eur. Quel Lama
che egli sostenne quando nella Direzione del Pci votò contro la giusta proposta
di Berlinguer per il referendum abrogativo del decreto Craxi, che costituiva un
argine a difesa dei salari. E detta comunanza di idee politiche, morto
Berlinguer nel 1984, gli manifestò ancora proponendolo, in alternativa a Natta,
quale nuovo segretario del Pci.
Pochi
conoscono il cimento di Napolitano col noto libro di Lenin "Contro
l'estremismo". Curandone per gli “Editori Riuniti” l'introduzione,
egli svolse delle osservazioni critiche nei riguardi del grande rivoluzionario
per la spiegazione da questi data del fenomeno dell'estremismo, causato -
diceva Lenin - dalla linea moderata e
rinunciataria di parti consistenti e maggioritarie del movimento operaio
occidentale. Spiegazione che da parte di Lenin non voleva essere, e non era,
una giustificazione, ma una corretta individuazione della genesi del fenomeno,
sì da poterlo combattere, risolvendolo in modo politico corretto e da sinistra.
Napolitano, invece, in linea con tutta la politica del vecchio Pci dell'era
stalinista, criticò la suddetta spiegazione, ritenendola una giustificazione da
rigettare in ogni caso.
Questo
è stato ed è Napolitano, al di fuori di ogni agiografia.
D'altronde,
è stato egli stesso a spiegare a tutti la sua formazione culturale,
essenzialmente di destra, sia a livello storico che filosofico.
Nella
famosa intervista del 24 dicembre 2011 al Corriere della Sera, curata da Marzio
Breda, e rilasciata per un bilancio delle celebrazioni per i 150 anni
dell'Unità d'Italia - non a caso dirette
sotto l'egemonia della storiografia di destra -, Napolitano, alla domanda del
giornalista «su quali studi aveva formato le proprie
idee», rispose che «era ripartito da libri che aveva letto e conservato.
Da i libri di Giustino Fortunato sul meridionalismo, alle diverse storie
di Benedetto Croce, agli scritti di Silvio Spaventa ed alla
"Vita di Cavour" di Rosario Romeo».
Circa
i primi due, Fortunato e Croce, assunti come suoi maestri di pensiero, ricordo
che Gramsci, che Napolitano avrebbe pur dovuto conoscere, in uno dei
suoi saggi più importanti, Il Mezzogiorno e la rivoluzione socialista, scrive
che «al di sopra del blocco agrario funziona nel Mezzogiorno un blocco
intellettuale che praticamente ha servito finora ad impedire che le
screpolature del blocco agrario [medesimo] divenissero troppo pericolose
e determinassero una frana. Esponenti di questo blocco intellettuale sono
Fortunato e Benedetto Croce, i quali, perciò, possono essere giudicati
come i reazionari più operosi della penisola». Benedetto Croce, scrive
sempre Gramsci, con argomentazioni di elevato livello e difficilmente
confutabili sul piano logico-filosofico, «ha compiuto una altissima funzione
nazionale: ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno
dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea,
e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e
quindi dal blocco agrario».
Tenuto
presente il consenso acritico di cui ancora oggi gode, pure da parte di molti
progressisti, Giustino Fortunato, ricordo che questo grande intellettuale,
ammirato da Napolitano, nel suo libro Badie feudi e baroni della Valle di
Vitalba (Editore Lacaita 1968, con introduzione di Tommaso Pedio), ha, come
diremo meglio più avanti, anteposto i suoi personali interessi di grosso
agrario ad una possibile soluzione, pur'anche riformista, dei residui feudali
allora ancora esistenti nel Mezzogiorno. Egli difende contro tutti la proprietà
di diverse migliaia di ettari di terreno nella valle dell'Ofanto che, assieme
al fratello, aveva ereditato dai suoi avi, i quali, dopo l'eversione della
feudalità, li avevano illecitamente ottenuti sotto i Borboni ad un prezzo
stracciato, nel 1843 circa. Non c'è dubbio che Giustino Fortunato vada
annoverato per le sue opere fra i maggiori storici italiani; ma «non basta
- scrive Pedio - aver denunziato la debolezza e la corruzione della classe
dirigente e richiamato l'attenzione del paese sulla inferiorità sociale ed
economica del Mezzogiorno d'Italia e sulla necessità di affrontare e risolvere
la "Questione meridionale" [...] per fare di uno scrittore (come
lui) l'antesignano delle più avanzate correnti politiche». Egli, in
realtà, pur avendo individuato le cause sostanziali della miseria in cui
versava la popolazione del Mezzogiorno, non propone la soluzione che avrebbe
dovuto, sol perché - come spiega lo storico Pedio - «non riesce a
posporre ad interessi maggiori i propri, quelli della sua famiglia e quelli dei
suoi elettori». «Per lui - continua Pedio , che concorda in ciò
col giudizio dato da Gramsci - non esiste altro problema all'infuori della
costituzione di una sana forza media che sia posta, sostanzialmente al servizio
dei grossi proprietari terrieri». Ai quali soltanto - dice Fortunato - deve
essere affidata, assieme alla ricca borghesia capitalistica, la direzione dello
Stato. Con la mentalità del grosso agrario Fortunato manifesta totale
sfiducia nei riguardi dei contadini, che sostanzialmente disprezza. Neppure
ipotizza, ovviamente, una riforma agraria a loro favore. Anzi, in Badie
feudi e baroni della valle di Vitalba, espressamente la esclude, arrivando
a sostenere la "necessità" del latifondo, che "giustifica"
facendo appello al clima ed alle cattive condizioni idrogeologiche del
territorio. - Egli fu in realtà, insieme a Sonnino e Franchetti, tra gli
artefici della fusione tra latifondo e borghesia agraria nel Mezzogiorno, e tra
blocco agrario e borghesia industriale del Nord.
Napolitano,
che è di buona cultura, sa con certezza tutto ciò ed anche, in particolare, che
nel gennaio del 1927, quando i contadini poveri di Lavello si rivolsero al
Prefetto di Potenza per ottenere i terreni incolti della tenuta di Gaudiano,
circa 240 ettari, non, per giunta, in proprietà ma con l'impegno di
corrispondere un canone, Don Giustino si oppose con tutte le sue residue forze,
facendo appello al diritto assoluto e sacro della proprietà privata, la cui
libertà doveva essere per lui assolutamente incondizionata.
Dell'altro
maestro di pensiero di Napolitano, Silvio Spaventa, indubbiamente un
grande intellettuale, non possiamo non ricordare che, quale esponente della
destra liberale, sedette nel primo parlamento dopo l'Unità e, sostenendola nel
dibattito, votò nell'agosto del 1863 una delle leggi più reazionarie e
liberticide della nostra storia, la legge Pica. La quale, legittimò lo stato d'assedio
deciso nell'estate 1862, e cioè il potere militare assoluto nelle province
meridionali definite «infette», e quindi anche l'ordinanza militare
della primavera del 1863 sul blocco della transumanza, diretta contro il mondo
dei contadini e dei pastori, sospettati di essere tutti dei potenziali
"banditi". Una legge, la Pica, voluta per la repressione manu
militari del c.d. brigantaggio, che altro essenzialmente non fu che una
rivolta di massa dei contadini poveri contro l'oppressione dei vecchi e dei
nuovi dominatori, una pagina dura della lotta di classe nel nostro paese.
Napolitano
certamente saprà che mentre il suo maestro Silvio Spaventa approvava senza
batter ciglio questa repressione, che autorizzava, senza neppure l'ombra di un
processo, la fucilazione immediata di chi era anche solo sospettato di essere
partigiano della rivolta, il Senatore G. Ferrari del partito democratico
definiva giustamente l'introduzione e la gestione dello stato d'assedio una «guerra
barbarica», dicendo, rivolto ai banchi del governo : «state
sguazzando nel sangue».
Egli,
essendo uomo di buone letture, sa pure che, come ben spiegato dal Geymonat,
Silvio Spaventa perseguì il progetto ideologico di importare in Italia la
filosofia idealistica hegeliana, contrapponendola a quella spiritualista e
retriva del Gioberti, e ciò in funzione della unificazione culturale degli
intellettuali del blocco moderato e dell'inglobamento in esso anche di parte di
quelli democratici, portandoli a supportare, come lui, la soluzione monarchico
moderata. Come, ad esempio, farà il Crispi.
Nella
succitata famosa intervista al Corriere del dicembre dell'anno scorso, al
giornalista che gli chiede di citare un libro sul Risorgimento che egli ritenga
di particolare importanza, Napolitano indica l'opera di Rosario Romeo Cavour
ed il suo tempo. Che è indubbiamente un lavoro storico di altissimo
livello, ma che si colloca nettamente a destra nella storiografia del nostro
paese. Rosario Romeo, discepolo di Gioacchino Volpe, e di scuola e formazione
crociana, fu un liberale anche sul piano politico per l'adesione data al
partito di Malagodi. Egli, specie con l'opera Risorgimento e capitalismo,
si contrappose ad Antonio Gramsci nell'analisi ed interpretazione sia del
processo di unificazione che della fase postunitaria. Gramsci, come noto,
sottolineò la scelta negativa della classe dirigente di non creare, durante il
processo di unificazione nazionale, un'alleanza con le classi rurali. Risultato,
questo, dovuto anche al fatto - disse sempre Gramsci - che il Partito d'Azione,
non rappresentando un gruppo sociale omogeneo, e non avendo quindi una sua
autonomia di classe, fu succube di quello moderato, venendone diretto e
sostanzialmente utilizzato. Ed osservò - in ciò concorde con Gobetti - che
motore dell'unità del paese furono il Piemonte, la dinastia Savoia e la piccola
minoranza di intellettuali, grandi agricoltori ed imprenditori del partito
moderato (Cavour); non, quindi, un processo rivoluzionario dal basso, ma una «conquista
regia».
Rosario
Romeo, al contrario, sostenne che un'eventuale rivoluzione agraria avrebbe
ostacolato il processo di accumulazione e, quindi, lo sviluppo del capitalismo.
Scrive, però, dando con ciò indiretta ragione a Gramsci, che «la conquista
del potere da parte della borghesia nel Risorgimento coincide con una fase di
accentuato antagonismo fra città e campagna, fra borghesia e contadini. Fase
che - riconosce - era stata oltrepassata dalla Francia nell'età della
Rivoluzione (1789 - 1795) e proprio per questo la borghesia aveva
[lì] potuto impegnarsi a fianco dei contadini contro la proprietà feudale».
Senza, osserviamo noi, alcun ostacolo per il processo di accumulazione. Ciò
spiega come mai il Romeo e con lui tutti gli storici di destra non siano
riusciti a vedere, nella scelta reazionaria della borghesia, diretta allora dal
Crispi, di reprimere invece di "utilizzare" il movimento dei Fasci
dei lavoratori siciliani - (che fu il più grande movimento di massa a direzione
socialista dell'800 dopo la gloriosa Comune di Parigi) -, una grande occasione
storica perduta per portare a positivo compimento ed in modo avanzato il
processo di reale unificazione del paese.
Come
scrive Gramsci, fu questo limite intrinseco al Risorgimento italiano (mancata
alleanza della borghesia capitalistica con i contadini), la causa del suo
sostanziale fallimento, origine della successiva involuzione autoritaria del
paese. Prima col proto-fascista Crispi (stato d'assedio in Sicilia il 3.1.1894
con pieni poteri al generale Morra di Laviano e repressione manu miltari
del movimento di contadini, operai ed artigiani organizzati nei Fasci dei
lavoratori siciliani; repressione con l'esercito delle lotte dei lavoratori del
marmo in Lunigiana; scioglimento, nel giugno 1894, della Sezione italiana del
Partito dei lavoratori; chiusura del Parlamento nel luglio 1894; messa fuori
legge del Psi nell'ottobre dello stesso anno). Poi con la svolta reazionaria di
fine '800: strage di operai in sciopero per il pane, operata nel 1898 da Bava
Beccaris a Milano, e successiva incoronazione di quest'ultimo, con una
particolare medaglia al valore, da parte del vile Umberto di Savoia; e infine
con la dittatura fascista, con cui la borghesia concluse la prima fase del
processo unitario. Dittatura che Croce, il quale votò in Parlamento a favore di
Mussolini sin dopo il delitto Matteotti, interpretò poi, prendendo le distanze
dopo il gennaio 1925, come una "parentesi" della storia della
libertà, e non come la conclusione necessaria di un processo reazionario. Così
come ebbe a definirla il liberale Gobetti ne La rivoluzione liberale,
autore che Napolitano non indica fra i suoi maestri.
Rosario
Romeo condivide invece la tesi di Croce, dicendo nell'intervista sul suo libro Cavour
ed il suo tempo, rilasciata allo storico Guido Pescosolido e da questi
pubblicata per le edizioni "Il
Salotto di Clio", nel 2010, che «il fascismo [...]
germinò da tronchi politico-culturali chiaramente distinti da quello liberale».
Nella stessa intervista a Pescosolido si spinge a sostenere da autentico
liberale di destra, che «la repubblica per Cavour significava quello che in
sostanza - egli commenta - aveva significato per tutti coloro
[aristocratici voleva e doveva dire] che avevano vissuto l'esperienza di
fine settecento, la ghigliottina e l'ascesa [dice con una punta di
razzismo] delle classi inferiori». La Repubblica - continua
Rosario Romeo - «avrebbe comportato la ripresa della marcia della
rivoluzione, intesa come sovvertimento politico e sociale»; con riferimento
indiretto da parte sua alla gloriosa Repubblica romana del 1849, ovviamente
esecrata. «Il reale progresso della società - dice ancora il Romeo
attraverso il suo Cavour - doveva essere garantito dalla conservazione del
potere politico da parte dei ceti fondiari».
Questo
è il Rosario Romeo esaltato da Napolitano nella citata intervista del dicembre
2011, ed è naturale, perché ebbero entrambi comuni maestri in Croce, Fortunato
e Spaventa, non certo in Gramsci, teorico della rivoluzione comunista in
occidente.
Anche
il liberista Monti, scelto da Napolitano alla guida dell'attuale governo, ha, pour
cause, gli stessi succitati maestri di pensiero.
Napolitano
si fa primo sostenitore, nel 2011, della guerra neocoloniale in Libia, in
coerenza con l'acritico giudizio positivo – (eccettuata la "parentesi",
tale anche per lui, del fascismo) - che ha dato su tutta la pregressa storia
d'Italia, comprese, quindi, anche le guerre coloniali volute da Crispi, sino
alla sconfitta di Adua del 1896 ad opera dei valorosi resistenti eritrei, e poi
da Giolitti nel 1911.
Napolitano
ama ripetere che egli si pone sempre come garante della Costituzione del 1948.
Ma così non è stato, in coerenza con la sua formazione politico-culturale, per
la difesa dell'art. 11 cost., sostenendo nel 2011, come appena detto, la guerra
in Libia e continuando a sostenere, anche oggi, quella di aggressione contro
l'Afghanistan, nulla opponendo neppure alla recente decisione del ministro Di
Paola e di Monti di dare via libera ai reparti dell'aviazione lì presenti di
bombardare tutti i siti ritenuti strategici, anche, quindi, i villaggi in cui
si sospetti la presenza di partigiani della resistenza afgana contro gli
occupanti Nato.
Napolitano,
dimostrando di essere in realtà un sostenitore dei poteri forti, nulla ha
obiettato contro lo stravolgimento del nostro ordinamento mediante
l'introduzione in Costituzione dell'obbligo del pareggio di bilancio (art. 81
cost.), del quale ha anzi sollecitato l'approvazione. Pur sapendo, da uomo
ripeto di buona cultura, di avallare con ciò la sostanziale abrogazione
dell'art.41, terzo comma, cost., che parla della programmazione economica, e
dell'art. 3, secondo comma, della medesima, che pone alla Repubblica l'obbligo
di rimuovere gli ostacoli di ordine economico- sociale, perché possa realmente
esservi una eguale ed effettiva partecipazione di tutti alle gestione della
comunità.
Egli
ha giudicato un fatto positivo la controriforma del diritto del lavoro compiuta
dal governo Monti, che ha al suo centro la sostanziale abrogazione dell'art. 18
Statuto dei lavoratori; abrogazione che comporta, come egli sa e comunque non
può non sapere, l'abrogazione dell'art. 41, secondo comma , cost., il quale
recita che l'esercizio del diritto di proprietà privata non può svolgersi in
contrasto ed offesa ai valori di libertà, dignità e sicurezza dei lavoratori.
Lavoratori, che la suddetta controriforma ha ridotto a mera merce sempre
monetizzabile, cancellando così le avanzate conquiste degli anni '60 e '70.
D'altronde,
egli stesso non mosse alcuna osservazione d'incostituzionalità, che pur era ed
è palese, nei riguardi del decreto n. 138 varato dal governo Berlusconi
nell'agosto 2011 (poi legge 148/11), il cui art. 8 consente, in materia di
lavoro, di derogare ai CCNL ed anche alle leggi, ed il cui art. 4, di recente
abrogato dalla corte Costituzionale, riproponeva parola per parola le norme
della legge Ronchi-Fitto sulle privatizzazioni dei servizi, che erano state
appena abrogate nel referendum del giugno 2011 a stragrande maggioranza di
popolo.
Questo
è Giorgio Napolitano, attuale Presidente della Repubblica, che ha concorso con
le sue scelte, come ebbe a dire Russo Spena, a realizzare il sogno
dell'assolutismo liberista: una democrazia senza partiti e senza
sindacati conflittuali, ma solo proni e collaborativi nei riguardi di tecnici
esperti ed "onesti", espressione del capitale finanziario ed
industriale. Come, per fare un solo esempio, Passera, che, assieme alla sua
Banca, gestì per conto di Berlusconi nel 2008, nella veste di advisor
(consulente), l'affare Alitalia, ceduta a prezzi stracciati alla Cai, della cui
cordata fece pure parte.
Padova, 2 agosto 2012
Luigi
Ficarra (PRC Padova)
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