Gli intellettuali della borghesia si pongono seriamente il problema della
grave questione meridionale, perché essa pesa come un macigno sulla agognata
ripresa dello sviluppo dell’economia di mercato che la gravissima crisi
capitalistica ha bloccato.
Da parte nostra occorrerebbe affrontare la questione dal punto di vista di
classe opposto, su come utilizzare la gravissima ed in parte esplosiva
condizione sociale delle masse popolari ed in particolare giovanili in tema di
reddito, casa, lavoro, per affrontare la questione centrale del potere.
Circa un anno fa, in uno studio sulla
politica del PCI negli anni ’50, specie in Sicilia – pubblicato da “La Città
Futura” e da qualche sito, scrivevo nelle conclusioni che di fronte al
declino storico del capitalismo europeo, che in Italia si traduce in una
pesante stagnazione e regressione, c’è un Sud non più da tempo
funzionale (con l’emigrazione di lavoratori nelle fabbriche del nord) neppure allo sviluppo
capitalistico del paese, essendo la sua forza lavoro non più competitiva
rispetto a quella degli africani e dei cittadini dell’est Europa. In esso la
condizione giovanile, che raggiunge punte di disoccupazione oltre il 50%, è
tragica; ed il destino di tutto il territorio meridionale è di trasformarsi nel
recinto di quella che Marx chiamava ”sovrappopolazione stagnante”.
Si coglie al massimo in questa situazione
la disfatta del M.O., i risultati di quella politica del vecchio PCI di bassa
compartecipazione in Sicilia e altrove, specie nel Sud, alla gestione del
potere borghese – (politica di cui il milazzismo fu l’espressione massima e peggiore). Politica che oggi si
manifesta tramite un suo vecchio rappresentante storico, Napolitano, che plaude
alla bestia trionfante del capitalismo alla Marchionne e al suo sodale, Renzi,
che sta portando a termine l’opera di Berlusconi e Monti di distruzione delle
difese del M.O., delle sue casematte: Statuto dei Lavoratori,
c.c.n.l., e libere rappresentanze sui luoghi di lavoro.
La strada da proporre alle
nuove generazioni non è certo la rivolta disperata, come quelle di “Alcara Li
Fusi” e di “Bronte” del 1860 e-o come quella indistinta di Licata del 5 luglio
1960, ma quella di un ripensamento profondo delle cause che hanno portato a
questa disfatta politica e che faccia quindi i conti, anche e soprattutto a
livello teorico, col passato riformista del M. O. Un ripensamento che recuperi
in particolare in Sicilia la memoria storica del movimento dei Fasci dei
Lavoratori Siciliani del 1893 - 94; delle lotte per l’occupazione delle terre
del primo dopoguerra e quelle del ‘44 - ’50. Movimento, quest’ultimo, politicamente
sconfitto dalla riforma agraria del dicembre 1950, definita dalla sinistra di
allora una <<controriforma>>, il cui progetto di legge, è bene ricordarlo, fu elaborato
dall’agrario on. Milazzo. Una vera controriforma, il cui attore principale fu
il mercato, consentendosi e comunque non impedendosi che i grandi proprietari,
anticipando l’applicazione della legge, vendessero direttamente a terzi,
contadini compresi, le superfici migliori oltre il limite consentito di ben
duecento ettari e realizzarono in tal modo, dice Renda, circa trenta miliardi: una
vera manna, una sorta di piano Marshall che mise a disposizione della borghesia
agraria ingenti capitali, destinati in parte alla trasformazione capitalistica
delle sue terre.
Luigi Ficarrahttp://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_21/governo-sud-che-non-c-e-74ba6972-a7ac-11e5-927a-42330030613b.shtml
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