GIUSEPPE NATIVO, “Gatti della mia vita” di Emanuele Schembari. Tra narrazione e autobiografia

“Anima che accarezzo a sera”, scrive Alda Merini dedicando una poesia al proprio amico a quattro zampe. Pensiero che viene rafforzato da Giorgio Manganelli quando afferma “chi ha gatti cade in una forma di dipendenza che non conosce disintossicazione”. La letteratura di ogni tempo si è sempre mostrata attenta al mondo degli animali. Spesso, però, gli animali sono solo un espediente letterario per presentare i vizi e, qualche volta, le virtù degli esseri umani.

Ciò emerge nel recente volume del giornalista, scrittore e poeta Emanuele Schembari, figlio degli iblei, che nelle intense ed articolate 188 pagine racconta i “Gatti della mia vita” (Ismecalibri, 2015).
“Penso che i gatti – confessa l’autore – mi abbiano insegnato ad essere più umano ed è per loro merito che cerco di capire anche le persone”. I gatti hanno trasformato la sua vita; le sue azioni e il suo comportamento sarebbero stati diversi, senza di loro.
E di gatti Emanuele Schembari ne ha incontrato veramente parecchi, tanto da poterne illustrare le abitudini, le passioni, le tristezze, l’allegria, l’intelligenza, le nevrosi, le scontrosità, le affettività. Poiché ognuno cerca di attribuire ai gatti che ha incontrato qualcosa di se stesso, dei propri ricordi e delle proprie esperienze, “parlare dei gatti diventa un modo di parlare di sé”.
Le non poche curiosità citate nel libro portano il lettore in una dimensione familiare intrecciata e intersecante l’intero percorso esistenziale di Emanuele Schembari il cui iter narrativo inizia, quando ancora bambino di circa quattro anni, con l’incontro dei primi gattini presso la nonna paterna “decisamente scorbutica un po’ con tutti, tranne che con me”. Una nonna come quelle di una volta e con quindici figli sulle spalle, “cinque al limbo, cinque in paradiso e cinque all’inferno”. Quest’ultimi erano quelli rimasti in vita. E poi la nonna materna, nel quartiere popolare dei Cappuccini, che abitava in un paio di stanze a pianterreno provviste di “u jattaluoru” (gattaiola), piccola apertura sul muro in basso, accanto all’ingresso della casa che consentiva di far entrare e uscire la gattina senza nome nutrita con bucce di provola o pane bagnato.

Molteplici i capitoli dedicati ai numerosi gatti che hanno incrociato la vita dell’autore: da Polidoro, che “esprimeva la sua affettuosità con discrezione”, affetto da narcisismo in quanto amava guardarsi allo specchio, a Matteo che gradiva tanto la sarda fresca bollita da emettere un mormorio di soddisfazione, a Lillino “il gatto rimasto bambino” amante della compagnia a tal punto da trovare posto in una sedia per poter stare accanto alle persone, e poi Ciro che cercava di prendere il pallone nel video del televisore durante le partite di calcio, infine Timmy e Teddy, “persiani dal mantello color topo”.
Giuseppe Nativo

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