SALVATORE VAIANA, Un viaggio alla ricerca di ignote radici


Il romanzo Cento anni d’amore di Giovanni Samperisi racconta la vicenda di un uomo che da una misteriosa condizione di solitudine interiore ai limiti dell’alienazione, da un «desiderio di niente» che si rivelerà desiderio inconscio di ciò che gli mancava, arriva, alla fine di un viaggio à rebours nel tempo, a una riconciliazione con se stesso che lo rende «appagato e compiuto». Quest’uomo è all’anagrafe Roberto Parola.
Alle pagine del «diario di viaggio» di Roberto l’autore affida la memoria del tempo perduto; a un narratore esterno e onnisciente impegnative riflessioni filosofico-esistenziali suggerite dalle vicende raccontate e anche spazi descrittivi, specialmente di paesaggi illuminati, variopinti e profumati della materna terra di cui Alberto vuole «scoprire gli aspetti più intimi e nascosti» per recuperarli alla sua scrittura.
Nel romanzo d’amore, con venature psicologiche ed esistenziali, s’aggirano due forze contrastanti e complementari dell’esistere: l’una, eros, che schiude l’effimera esistenza di ogni individuo, l’altra, thanatos, che la chiude inesorabilmente. Entrambe sono presenti con un’intensità coinvolgente nell’incipit, nel cuore e nell’explicit della narrazione.
Apre il romanzo l’agonia di Carmela Cortese, madre di Alberto. L’avvertimento del trapasso spinge la moribonda a un’estrema riappacificazione con se stessa rivelando al figlio un segreto remoto: Alberto non è suo figlio naturale.
Ora Alberto inizia a prendere coscienza del «senso di colpa» che accompagna la madre e della carenza affettiva del padre Ninu «condannato alla paternità putativa» e, inconsciamente, forse per questo «duro e freddo» con Alberto che lo crede «cattivo» e arriva ad «odiarlo» («In silenzio le carezze del suo papà gli sarebbero state care. Invece Ninu era fatto così. O chissà… chissà»). Forse la memoria fetale di Alberto e di certo quell’incancellabile e disturbante peccato di origine dei coniugi Parla sono la spiegazione dell’altrimenti incomprensibile disagio esistenziale di Alberto: «Casa e lavoro e viceversa, questo è tutto!... per il resto ho vagato in un limbo perenne»; «Solo e vagabondo come un cane randagio», questo dice di sé.
Ora nell’animo di Alberto, assieme al dolore per la madre che lo lascia, si agita un sentimento nuovo, il «desiderio» di scoprire le sue radici più profonde, abbarbicate nella «terra materna» e nel grembo materno.
Il cammino catartico inizia con il viaggio dalla residenza torinese a Catania, e da qui verso un innominato paese dell’agrigentino, ma individuabile nella fulgentissima Naro.
Nel paese natio incontra Margherita, sorella di Carmela, e Mariano e Nazareno,  fratelli di Ninu. Da loro viene a conoscenza di tasselli rilevanti della sua storia, annotata meticolosamente nel diario della sua autocoscienza.
Ma l’incontro sconvolgente è con Vittoria, la madre naturale, figlia del commerciante don Gerlandino Fuzzo e di Hamina, una principessa libica: in gioventù due donne bellissime e discretamente corteggiate in un ambiente culturalmente arcaico.
È di Vittoria che Alberto riporta con flashback dettagliati il racconto del breve ma intenso e definitivo amore per William Joseph Dotti, un giovane tenente e giornalista documentarista statunitense con ascendenze venete ed ebraiche sbarcato il 10 luglio del 1943 sulle coste siciliane nel corso dell’operazione militare delle forze alleate anglo-americane.
Condotto gravemente ferito in casa di Vittoria, il tenente Willy viene curato dalla ragazza con una calda attenzione che sarà fatale per entrambi.
In un tempo di morte segnato da una «guerra sciagurata» e dalla rivolta del 10 gennaio 1945 dei «Nun si parti» (sostiene il narratore che «fu incoraggiata dai fascisti, la vollero i separatisti e venne sostenuta dai comunisti locali»), il loro amore genererà una nuova vita. Il narratore,  guardando da un immaginario buco della serratura l’unione contrastata fra Vittoria e Willy, descrive la rivolta dei sensi e del sentimento con una delicatezza che per il calore e l’intensità sfiora la liricità: «[…] Il fuoco si spense, ma fu ancora amore finché un rauco e insonnolito cinguettio di passero non accompagnò il loro riposo.»
Alberto viene concepito nella fase più cruenta della «rivoluzione per la Sicilia libera»: negli scontri muoiono cinque rivoltosi e un sottotenente dei carabinieri; e si spegne anche, d’infarto, don Gerlandino.
In un funereo crescendo perisce, infine, Willy: inviato il 16 ottobre del ‘44 dal comando americano a Palermo per documentare il malessere sociale che spinge il popolo a manifestare contro il carovita e la mancanza di generi alimentari (la protesta culminerà nella cosiddetta “strage del pane” del 19 ottobre»); morirà poi nella caduta dell’aereo che lo stava portando a Milano per la celebrazione della Liberazione, il 25 aprile 1945. Viene seppellito a Boston. Ad ottobre nasce Alberto.
In questa situazione tragica e compromettente per l’onore della famiglia Fuzzo, la zia paterna, sovvertendo una legge di natura, costringe Vittoria a cedere il neonato all’infertile coppia Parola che, per sfuggire alle taglienti dicerie e alla opprimente miseria, emigrano a Torino. È così che il laconico Ninu “Mezza” Parola, in paese costretto a lavorare «prono sulla terra a spaccarsi le ossa sulle zolle ostili dei padroni per un pezzo di pane amaro», nella fabbrica torinese può guadagnare il necessario, «facendo gli straordinari e accettando i turni di notte perché meglio pagati», per mantenere dignitosamente la famiglia e far studiare quel figlio amato in segretezza di sentimenti: diventerà, per «un imperscrutabile capriccio del caso», giornalista come il padre naturale.
La derubata mamma, invece, sprofonda in un’infelice esistenza da cui si riprenderà solo ritrovando il suo Alberto: «Per lei fu come mettere al mondo quel figlio dopo averlo portato in grembo per sessant’anni».
Anche Alberto si sente rinato una seconda volta: «Per lui fu la sua metempsicosi, la rinascita da un grembo nuovo».
Il sortilegio del nuovo parto, esito della recherche, ristabilisce l’equilibrio iniziale sovvertito.
Ora Alberto, guarito da quel nichilismo esistenziale, potrà ritornare a Torino con l’identità e la vitalità conquistate e con il proposito di portare a Boston i fiori sulla tomba del padre, «eroe sconosciuto che ha vissuto con intensità e pienezza cento anni d’amore».

Canicattì, 31 dicembre 2013

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