ANGELO LO VERME, Effetto valanga, come fu che l’economia e la finanza si sostituirono alla politica e all’economia reale


Un venerdì sera, esattamente alle 19.30 del 12 maggio 1974, un operaio licenziato, il Sig. Marvin Sellers di Tucson, Arizona, mentre faceva i suoi conti domestici comprese che la spesa del nuovo surgelatore appena comprato era superflua e non più sostenibile, e dice alla moglie che devono restituirlo. A Phoebe, la moglie, dispiace, giacché quello vecchio, seppur funzionante, ce lo avevano ormai da quattro anni ed era pure di colore bianco, non più di moda.
Marvin però non desiste, e lo riporta al negozio di elettrodomestici. Da quel gesto si innesca una grave crisi economica, poiché il negozio chiude, così pure tanti altri, gli USA vanno in recessione e così pure tutto il mondo.
  Questa storia tanto paradossale quanto, purtroppo, profetica, è narrata nel romanzo fantasy “Effetto valanga” dello scrittore americano Mack Reynolds (“Depression or dust, 1974” il titolo originale). Essa anticipa in un modo apparentemente bizzarro ma oggi abbastanza realistico, la crisi economica cominciata sul finire degli anni ’80, poi esplosa con maggiore micidiale evidenza nel 2008 e vissuta oggi nei suoi tragici effetti, ma principalmente sulla pelle delle fasce più deboli della popolazione di tutto il globo. Nel romanzo di Reynolds si ha un lieto fine, dove un agente in missione top secret va a trovare il Sig. Sellers: “… E gli consegnò un fascio di banconote con l’ordine di andarsi a riprendere il surgelatore. … E fu così che il negozio riaprì, riaprirono le fabbriche, il Signor Sellers ritornò a lavorare e l’economia americana finalmente ripartì. Il mondo fu salvo.” Oggi non sembra che ci sia un agente segreto che consegni banconote ai disoccupati per incentivarne i consumi e riavviare l’economia, anzi, avviene tutt’altro: si comprimono sempre più in un non decifrabile (quantomeno in un quadro logico) disegno politico-economico, dove non solo già è un dramma acquistare nuovi surgelatori, ma alla lunga anche i beni di prima necessità, e di ciò ne abbiamo molte avvisaglie nella proliferazione e il sovraffollamento delle mense dei poveri europee. Se alla fine la popolazione sarà messa nella triste condizione di non potere più acquistare i beni prodotti, quale sarà lo sbocco? Le crisi economiche o Grandi Depressioni degli anni 1873-1895 e degli anni ’20 culminata nel crollo di Wall Street del 29 ottobre del 1929 (martedì nero) e nella depressione degli anni ’30, portarono infine come estrema “soluzione” alle due guerre mondiali. Si spera che l’attuale non porti dritto alla Terza.
  In sintesi, quali furono le cause? In entrambe le crisi, all’aumento della produttività dei vari settori dovuta al progresso tecnologico e all’aumento del numero dei Paesi industrializzati, non corrispose un proporzionale aumento del potere di acquisto dei redditi della popolazione, che comportò la saturazione dei beni, la chiusura di molteplici attività, disoccupazione e povertà. All’opposto dell’ancien régime, quando le crisi significavano carestie per  sottoproduzione, le crisi moderne sono causate dalla sovrapproduzione. In più, l’anomalia del sistema finanziario privo di regole aveva prodotto innumerevoli attività speculative negli anni ’20, il cui interesse era gonfiare artificialmente i titoli di borsa con fraudolente dichiarazioni ottimistiche, che invece non corrispondevano più a un effettivo aumento della produzione e della vendita dei beni. I detentori di tali titoli gonfiati erano la media borghesia che in breve anch’essa perse i suoi risparmi e il suo potere d’acquisto, cosa che aggravò ulteriormente il crollo progressivo della domanda dei beni di consumo. Proprio quello che sta accadendo oggi, dove il ceto medio praticamente è scomparso.
  La conseguenza politica della prima grande crisi fu il colonialismo. I dazi doganali erano stati la risposta istintiva dei governi per rimediare alla concorrenza e alla caduta dei prezzi. Le imprese capitalistiche credettero così che trovare nuovi mercati in Paesi non industrializzati potesse risolvere il problema della sovrapproduzione, ma in realtà questi erano mercati poco significativi e le colonie servirono soprattutto per la fornitura di materie prime e la manodopera a basso costo (oggi si chiama semplicemente delocalizzazione e sfruttamento delle risorse, principalmente energetiche, dei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo). Così, le tensioni economiche combattute con i dazi, sfociarono nella prima guerra mondiale. Senza di questa la crisi del ’29 sarebbe giunta prima. Quella che però sembrò la soluzione alla prima crisi, portò alla seconda, dato che anche i mercati coloniali arrivarono al punto di saturazione, solo che la situazione internazionale non era tale da scatenare una seconda guerra, ma iniziata la depressione economica alla fine la si cercò.
  L’economista canadese John Kenneth Galbraith (1908-2006), individuò almeno cinque fattori di debolezza nell’economia americana responsabili della seconda crisi: cattiva distribuzione del reddito; cattiva struttura o cattiva gestione delle aziende industriali e finanziarie; cattiva struttura del sistema bancario; eccesso di prestiti a carattere speculativo; errata scienza economica (perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e quindi assenza di intervento statale considerato un fattore penalizzante per l’economia). La Scuola austriaca invece afferma il contrario, e cioè che fu l’eccessivo intervento statale nell’economia, a partire dagli anni ’10 con il presidente Woodrow Wilson, a causare la Grande Depressione. Secondo il maggiore esponente di tale scuola, l’economista statunitense Murray N. Rothbard (1926-1995), la causa principale sarebbe stata la politica monetaria inflazionistica della Federal Reserve, creata nel 1913; anche se c’è da dire che, come molte altre Banche Centrali, essa è un organismo indipendente dal governo. In pratica Rothbard sostiene che la continua dilatazione del credito attraverso tassi mantenuti artificialmente bassi e il loro successivo inevitabile rialzo, causò il crollo di Wall Street.
  Comunque, la prima tesi sembra quella che più si attagli quantomeno alla crisi odierna, dato che l’intervento degli Stati nell’economia è solo un ricordo del lontano passato, a parte la perversa dilatazione del credito che purtroppo è ridivenuta attuale. E’ bene ricordare che la controrivoluzione antikeynesiana rappresentata da quarant’anni anni di applicazione della teoria iperliberista elaborata dalla Scuola di Chicago di Economia, ha determinato l’attuale disparità sociale, dove l’equa distribuzione della ricchezza è solo un miraggio. Secondo tale teoria, fra le altre esigenze di un capitalismo puro, svincolato da qualsiasi intervento statale e che si autoregoli secondo leggi di natura che mantengono il giusto equilibrio tra domanda e offerta, c’è anche la libertà di applicare i prezzi giusti e non imposti: quindi anche la riduzione dei salari se necessita. Il guaio è che tale riduzione è solo funzionale al massimo profitto immediato; infatti, l’iperliberismo non contempla affatto saggi e lungimiranti autocorrettivi salariali (data l’assenza di interventi statali, anche se, quando si tratta di salvare le Banche, essi sono necessari nella perversa logica della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite) che si accontentino ogni tanto di minori profitti per mantenere costantemente acceso il motore economico. Motore che a un certo punto, quando la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni diventa critico, si spegne e arriva la saturazione dei beni prodotti, cioè, la vera crisi in un sistema economico così concepito, i cui capisaldi sono la deregolazione (o deregulation o il laissez-faire in economia), le privatizzazioni e i tagli consistenti alla spesa sociale.
  Purtroppo sembra che i sostenitori della teoria iperliberista non abbiano le idee molto chiare su come risolvere questa crisi economica che senza dubbio è sistemica, dato che portano avanti le stesse ricette che l’hanno provocata, e a cui pare che i governi non sappiano opporsi, accanendosi nelle misure di austerità solo sulle fasce più deboli della popolazione. Se i governi attuano solo rigore privo di equità e soprattutto non badano alla crescita, la recessione già in atto è destinata ad aggravarsi. Da qualche tempo però anche la Merkel sembra molto timidamente volere invertire la rotta parlando di crescita e non solo ossessivamente di rigore, poiché anche l’economia tedesca rallenterà se destina l’area mediterranea dell’Europa alla recessione. Ciò anche in seguito alla  vittoria in Francia del socialista Hollande che soprattutto sull’obiettivo della crescita ha fondato la sua campagna elettorale, e ora qualcosa in tal senso sta facendo. Deve essere così, altrimenti alla lunga ci sarà una totale e scellerata svolta autoritaria del potere finanziario e un ritorno, senza esagerazione, all’ancien régime, dove non so a che serviranno gli immensi profitti accumulati da pochi in un mondo depauperato nelle sue risorse naturali e fortemente inquinato, destinato solo al decadimento sociale, culturale e pure scientifico e tecnologico, se pochi accederanno alla conoscenza.
  Milton Friedman (1912-2006), economista statunitense e Premio Nobel nel 1976, è stato il maggiore esponente della Scuola di Chicago. Il suo pensiero ha influenzato fortemente le scelte economiche del governo britannico di Margaret Thatcher e di quello statunitense di Ronald Reagan. Le sue teorie di un capitalismo puro si pensava che non fossero applicabili nelle democrazie mature, le quali avrebbero rispedito a casa i politici che avessero voluto adottarle, ma erano benvenute nelle dittature di destra. Infatti, nella metà degli anni ’70 il Ministero dell’Economia del Cile di Pinochet, presieduto dal tecnico José Pinera, le adottò avvalendosi dei consigli dello stesso Friedman e assumendo i “Chicago boys” (economisti cileni formatisi alla Scuola di Chicago), provocando disoccupazione e miseria. La Thatcher però dimostrò che tali teorie potevano essere applicate anche in una democrazia occidentale, sfruttando un momento di grave crisi politica come la guerra nelle Falkland (1982) e lo sciopero dei minatori (1985). Ciò diede la stura alle teorie iperliberiste e inaugurò un nuovo tipo di capitalismo: quello dei disastri. Per chi lo volesse approfondire consiglio il saggio di Naomi Klein “Shock Economy”. Inoltre, la regola di politica monetaria di Friedman, incentrata sul controllo della crescita della massa monetaria, è ancora adottata dalla Federal Reserve e dalla BCE.
  Come risposta alla crisi del ’29 che aveva messo in ginocchio diverse Banche, il Congresso degli Stati Uniti nel 1933 varò la legge bancaria Glass-Steagall Act; ma nel 1999, con la promulgazione della legge bancaria Gramm-Leach-Bliley Act da parte dell’allora Presidente degli USA Bill Clinton, essa viene abolita. In tal modo si avviò lo stesso micidiale meccanismo finanziario speculativo deregolato di allora, che è sfociato nell’attuale crisi. La Glass-Steagall Act introduceva misure che limitavano la speculazione degli intermediari finanziari, separando nettamente le attività bancarie tradizionali e quelle di investimento (cioè una Banca poteva essere solo Commerciale o d’Investimento), e i panici bancari, cioè la corsa agli sportelli, con l’istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation. Una volta abrogata si costituirono gruppi bancari che al loro interno permettono, seppur con alcune limitazioni, di esercitare sia l’attività bancaria tradizionale che l’attività di investimento bancario e assicurativo. Ciò determinò le disastrose bolle speculative dei primi anni del 2000, che insieme alla politica del credito con bassi tassi d’interesse (variabile, che poi s’impenna tragicamente) per stimolare la cosiddetta “economia del debito” e soprattutto con la proliferazione dei “subprime” (prestiti concessi a debitori con pregressi problemi di solvibilità e quindi ad alto rischio d’insolvenza), sfocia nella grave crisi economica del 2008, con il fallimento di importanti Banche statunitensi che trascinarono nella crisi il mondo intero, dato l’avanzato stato di globalizzazione dell’economia. Ree di tutto ciò anche le agenzie di rating che dovrebbero fornire dati reali sull’affidabilità o meno di ciò che ruota attorno al mondo finanziario, assegnando invece la tripla A (massima affidabilità) ai titoli tossici sui mutui americani responsabili della crisi.
  A quanto pare il mondo s’è ridotto a un enorme e micidiale intreccio di conflitti di interessi privati, che di fatto hanno svuotato il nobile concetto di democrazia del suo reale significato. L’ambiguo ruolo delle Banche Centrali ne è un esempio, con la loro totale indipendenza dai governi sulle politiche monetarie da attuare, specie quello della BCE che grazie al suo statuto, che è un vero mostro giuridico, insegue unicamente l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi per evitare fenomeni d’inflazione; cosa che riduce drammaticamente la liquidità in circolazione. La BCE poi lascia l’onere della crescita alle politiche fiscali dei singoli Stati, accomunati dall’euro ma non da una politica fiscale, i quali, per avere liquidità sono costretti ad aumentare i prelievi fiscali e il Debito Pubblico. Saranno dei validi motivi, ma una Banca Centrale che non ha ingerenze statali e per di più indirizza, o detta tramite letterine ai governi (magari costituiti da tecnici con un passato di banchieri) le politiche economiche, di fatto inficia le democrazie. Le Banche Centrali indipendenti sono nate, o tali si sono trasformate, per limitare la discrezionalità degli Stati di creare moneta, specie quelli politicamente più instabili, che abusandone potevano determinare pericolose inflazioni o iperinflazioni. Tale rischio si palesò dopo l’abbandono del sistema aureo classico, quando la creazione di denaro era vincolato dalla quantità delle riserve auree in possesso dello Stato, non più sostenibile con l’aumento dei volumi di scambio delle merci; abbandono seguito alla Conferenza di Bretton Woods del 1944, nella quale si istituirono l’FMI e la Banca Mondiale, ratificati da un certo numero di Paesi nel 1946.
  Così facendo però si è passato da un rischio ad altri, che è quello che sta avvenendo in Europa ma non solo. Uno dei rischi è che la stabilizzazione dei prezzi possa essere funzionale più a interessi privati che collettivi, cioè dei detentori di enormi capitali, visto che per scongiurare il rischio dell’inflazione si sta deprimendo viepiù l’economia a vantaggio di pochissimi, mentre per le famiglie il potere d’acquisto si riduce inesorabilmente. Un altro è che, giacché il reddito da signoraggio (differenza tra valore nominale e intrinseco della moneta) viene ridistribuito alle Banche Centrali Nazionali in proporzione della rispettiva quota di partecipazione, che appartiene in gran parte ai privati, è pure legittimo sospettare un qualche conflitto d’interessi. Si può obiettare che il loro interesse semmai sarebbe di creare più denaro per incassare più signoraggio. Si può allora rispondere che a loro tanto può bastare, fino al limite oltre il quale si rischia l’inflazione e quindi la perdita di valore del denaro posseduto. La quota di partecipazione della Banca d’Italia per esempio è del 12,5 %, che a sua volta è costituita da un capitale partecipativo che per il 94,33 % appartiene a Banche e Assicurazioni Private italiane: Intesa San Paolo e Unicredit ne posseggono più del 50 %. Quando poi controllori e controllati coincidono, cioè quando i membri dei vari Enti di vigilanza sui meccanismi bancari e assicurativi possiedono svariate azioni o poco prima della nomina facevano parte dei consigli di amministrazione di Banche o Assicurazioni Private, il conflitto d’interesse è più che un sospetto. E comunque il mondo politico, economico e finanziario non si può reggere sul sospetto o sulla fiducia incondizionata che si agisca sempre in buona fede e nell’interessi di tutti; è pretendere troppo, visto che si tratta di esseri umani fallibili. Tutto invece si deve reggere sulla certezza che non ci sia nemmeno l’ombra del conflitto d’interessi, e ciò può avvenire introducendo regole certe, almeno fin quando l’essere umano non si eleverà a vette spirituali più consone, e non sbagli più non per l’effetto deterrente delle leggi ma per acquisita illuminazione.
  Tutto quanto detto sopra possiamo dire che costituisce l’atto finale di una mutata strategia economico-finanziaria iniziata nella metà degli anni ’80, quando, dopo il boom economico degli ’60, ’70 e primi anni ’80, si giunge ancora una volta al livello di saturazione dei beni, di cui s’è già parlato a proposito delle precedenti due grandi crisi, stavolta dovuta anche all’invecchiamento della popolazione e alla riduzione della natalità nei Paesi ricchi, i quali sono i consumatori ideali. Inoltre la fascia sociale che consuma di più non sono i pensionati ma i giovani. La soluzione per fortuna non fu cercata in una Terza guerra mondiale (che se combattuta col nucleare, probabilmente non sarebbe rimasto nessuno per raccontarla), ma nello spostamento degli investimenti. Il capitale per sopravvivere ha bisogno del profitto che non poteva più provenire interamente dagli investimenti nell’economia reale, cioè nella produzione di beni, data l’ennesima saturazione. Diventa conveniente spostare gli investimenti nel campo finanziario, quindi in Borsa e nell’acquisto di Buoni del Tesoro, cioè i Debiti Pubblici degli Stati. Questa economia costituita non da beni ma da semplice, freddo e spesso virtuale denaro (ormai basta un click di mouse per crearne dal nulla) finalizzato principalmente alla propria infinita automoltiplicazione, vale 20 volte il Pil mondiale che è di 74 mila miliardi di dollari. Provate a moltiplicare questa cifra per 20: una normale calcolatrice non può contenerla. E poi, siamo sicuri che le varie criminalità organizzate del mondo non abbiano spostato buona parte delle loro attività nella più che redditizia speculazione finanziaria? Si sa che ora i figli dei boss sono laureati ed esperti di economia e finanza.
  Oggi le Banche Commerciali praticamente non svolgono più il loro compito che è prestare denaro alle imprese che producono beni, né tantomeno alle famiglie per acquistare case o altri beni, dato l’alto rischio di generali insolvenze, ma da tempo si sono dedicate prevalentemente alla speculazione finanziaria priva di regole e/o controllo politico efficace in grado di scongiurare criminali speculazioni ai danni dei Debiti Pubblici degli Stati, ora davvero non più sovrani. E’ evidente che tutto ciò si sta perpetrando ai danni della popolazione che subisce le misure di sempre maggiore rigore dei governi, specie europei, senza che questi abbiano ancora attuato parallelamente reali e adeguate politiche di crescita. Austerità che i detentori di Debito Pubblico, per gran parte le Banche (in Italia è in loro mano per l’87 %, e per la metà sono straniere), pretendono con metodi ricattatori dai governi divenuti troppo consenzienti, specie se composti da tecnici, affinché lo stesso Stato non vada in default e quindi sia in grado di restituire capitale e interesse promesso. Il braccio armato di tale ricatto è divenuto lo spread (differenziale di riferimento più virtuoso tra i tassi dei Debiti Pubblici), il quale, chi possiede ingente Debito Pubblico, è in grado di fare alzare in maniera strumentale, senza rischiare nulla in caso di default dello Stato, giacché esiste uno strumento finanziario, il CDS (Credit Default Swap) col quale l’investitore in Titoli di Stato si assicura proprio sul rischio di default. La sottile mostruosità di tali derivati fra l’altro è che consente speculazioni anche a chi non ha investito nulla, quindi, per intenderci, è una sorta di assicurazione sull’incendio della casa altrui; pertanto questo atipico e fortunato contraente ha tutto l’interesse affinché la casa bruci per intascarne il premio.
  Nel luglio scorso (2012) in Europa è entrato in vigore l’ESM (European Stability Mechanism), un fondo di salvataggio europeo che presterà denaro, con l’appoggio delle Banche Private, ai Paesi in difficoltà, ma a condizione che attuino misure economiche molto severe, come l’FMI che ad esempio non dà prestiti ai Paesi che non privatizzano l’acqua. Ora, per fugare ogni sospetto di conflitto d’interessi, l’ESM e l’FMI dovrebbero lasciare gli Stati liberi di decidere le loro politiche economiche, e non obbligarli ad applicare sempre e comunque ricette iperliberiste, visti i disastri economici e sociali che hanno provocato, cominciando con discuterle piuttosto che assumere atteggiamenti negazionisti, adducendo fantasiose e fin troppo soggettive se non interessate altre motivazioni. I Paesi europei sembrano lanciati sull’orlo della bancarotta, per cui nell’interesse di tutti è necessaria un’inversione di rotta. Gli Stati, essendo composti da persone pensanti e non da freddi numeri, possono auto-salvarsi con ricette alternative, se gli si lascia la possibilità di esprimere i loro talenti, le loro capacità e creatività innovative in un mercato globale che muta costantemente e che non può essere gestito con rigide e discutibili soluzioni, specie se si rivelano fallimentari. Insistere è patologico. E’ essenziale che finalmente la politica si riappropri del proprio ruolo in una normale e reale dialettica democratica, e non permetta più che siano le cosiddette leggi naturali dell’economia e quindi il troppo libero mercato a decidere i destini degli uomini.
  Solo in fisica o in altre scienze le leggi sono naturali, immutabili e indiscutibili, ma in economia (la cosiddetta scienza triste: sicuramente lo è per chi la subisce) sono gli uomini a farne le leggi e a determinarne i sistemi, rendendola quindi, se scienza si deve chiamarla, una scienza inesatta e dunque perfettibile, come tutti i fenomeni dove prevale il fattore umano. Cosicché, invece che produrre troppi “surgelatori”, si può sfruttare meglio l’intelligenza e la creatività umana per produrre nuovi beni e servizi, istruzione e cultura sempre più elevati, affinché facciano realmente progredire il genere umano, a cominciare dal suo lato spirituale che è la migliore ipoteca per prevenire qualsiasi abuso e prevaricazione, al di là di ogni legge umana.
  
Angelo Lo Verme

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