«And
the Cardinal dying and Sicily over the ears -
Trouble
enough without new lands to be conquered...
We
signed on and we sailed by the first tide...».
A. Mac Leish - Conquistador
Il
seguente saggio dal titolo “La mafia, la Sicilia e Leonardo Sciascia”, vuole
essere una breve riflessione sulla Sicilia e una disamina sull’origine della
mafia che purtroppo condiziona ancora, e forse più di prima, in maniera meno
visibile ma ugualmente efficace, la sua vita sociale, economica e politica.
Riflessione e disamina - che nel corso della
stesura hanno assunto autonomamente il carattere di tesi - basate su intuizioni
scaturite dall’analisi personale della cronaca in merito, e in base a
intuizioni derivate dalla mia esperienza trentennale in un tessuto sociale non
facilmente decifrabile dall’esterno.
Soprattutto insisterò sui motivi di ordine
psicologico più ancestrali che possono avere determinato il fenomeno mafioso e
che hanno trovato terreno fertile in un contesto ideale come era la Sicilia in epoca
di dominazioni, con la sua storia più che bimillenaria fatta di continue
colonizzazioni e di guerre fra occupanti per contendersi il ricco territorio,
le cui conseguenze subivano maggiormente le popolazioni indigene. Lo chiamo
“fenomeno mafioso” per comodità; in realtà la parola “mafia” è apparsa per la
prima volta sui documenti ufficiali nel 1868. Nulla però dimostra che nel
parlato siciliano il termine “mafia” non venisse già usato da secoli. Si può
ipotizzare che già in epoca araba si usasse, date alcune derivazioni da questa
lingua, come vedremo più avanti.
Fenici, greci, cartaginesi, romani, vandali,
goti, bizantini, arabi, normanni e svevi, che per fortuna dei siciliani hanno
prodotto molti re illuminati, unico fra tutti Federico II di Svevia; e poi
francesi, spagnoli, inglesi, tedeschi, austriaci, in varie epoche storiche
hanno occupato e spesso depredato un territorio importante come quello
siciliano, che per la sua posizione geografica assumeva un particolare valore
strategico e commerciale nel mediterraneo. Molti occupanti hanno lasciato
preziose testimonianze architettoniche e culturali; testimonianze però che non
rispecchiano l’identità dei siciliani, comunque da sempre mutevole e
difficilmente ricostruibile perché smarritasi nei secoli nella fusione di
diverse culture.
Tutte queste dominazioni nel lungo tempo,
insieme all’eterno strapotere di nobili, borghesi isolani e sgherri che gli
orbitavano intorno, hanno plasmato il carattere del popolo minuto siciliano, il
quale pativa maggiormente, o unicamente, le conseguenze del giogo straniero
come pure quello dell’aristocrazia terriera. Giogo che il popolo ha dovuto da
sempre accettare, volente o nolente, determinandone una certa propensione alla
rassegnazione fatalistica nella dolorosa coscienza della propria impotenza, e
alla diffidenza e di conseguenza al misoneismo, caratteristici del popolo
siciliano. Propensioni che alla lunga si sono trasformate in un particolare
tipo di insofferenza, scaturita dalla naturale fierezza e orgoglio di un qualunque
popolo soggiogato, ma diversa dalle altre per carattere e modi reattivi
tipicamente siciliani, e cioè scaltra, meditata, malandrina e braveggiante, non
espressa apertamente per timore di sicure e incontrastabili ritorsioni, e
perciò mascherata da passività occultamente vocata alla vendetta privata.
Insofferenza però non ancora sospinta da una chiara coscienza del proprio ruolo
sociale di giustiziera e che covava dentro gli animi come un forte risentimento
represso, che si accumulava e periodicamente sfociava in odii e rivolte
sanguinarie, come ad esempio l’insurrezione popolare dei Vespri siciliani nel
1282 contro la tirannica dominazione angioina, in cui miti contadini, almeno in
apparenza, si trasformarono in belve feroci e assetate di sangue contro ogni
francese.
La mia tesi si evolve a partire dalla
seguente considerazione. Il popolo minuto siciliano ha sviluppato nei secoli
questa tipica insofferenza nei confronti delle soverchierie dei potenti, per
evoluzione naturale mutandosi in una mentalità collettiva che intrideva ormai
il tessuto sociale e la cultura popolana, che a questo punto possiamo definire
di tipo mafiosa, intanto per l’acquisita coscienza del proprio ruolo sociale
giustiziera, ma soprattutto perché non più privata e disorganica come la
semplice insofferenza, ma collettiva e organizzata. Molto diversa però da
quella che conosciamo oggi; anzi, era opposta nei fini, per via di quella
caratteristica che va delineandosi sempre più come “arma di difesa” degli
oppressi, arrivando a costituirsi nel tempo in varie sette segrete. Lungo vari
secoli poi, riscontratane l’efficacia difensiva, si è trasformata gradualmente
nell’arma di “attacco” che oggi conosciamo, superando varie fasi, da quella al
servizio dei potenti per sorvegliarne i latifondi e comprimere i diritti dei
contadini, a quella contadina e pastorale, e infine approdando a quella collusa
con le istituzioni, sempre più aggressiva e capace di enormi traffici illeciti,
per via di una sorta di evoluzione naturale che gli è propria.
Insomma, questo è un libro sulla mafia ma che
non parla di fatti di cronaca specifici - salvo rare eccezioni - come fanno
tanti altri libri, molto esaurienti nei loro intenti storici e cronachistici,
bensì vuole essere un’indagine antropologica ed etologica in quanto analisi del
fenomeno mafioso visto dal lato psicologico più intimo e primordiale
dell’individuo, cercando di individuarne motivi e origini. M’accingerò quindi a scandagliare un
fenomeno scaturito da una mentalità divenuta collettiva e che fa presto a
tramutarsi in cultura aberrata. Quella cultura in senso ampio in cui gli
antropologi ravvisano, al di là degli aspetti irrazionali, incomprensibili e
immorali, pur sempre una coerenza di pensiero e di comportamento, che determina
una certa coesione sociale, per quanto anomala e deleteria. Completano, o meglio, hanno fatto da pretesto
al succitato argomento, l’analisi di alcune opere di Leonardo Sciascia e lo
studio del suo pensiero, da cui è sorta l’idea di questo saggio. In tale mio lavoro presterò naturalmente più
attenzione a quell’aspetto del suo pensiero che maggiormente persevera
sull’analisi del fenomeno mafioso e che, per sua natura, si presta a
fraintendimenti, e in buona fede, ma spesse volte in maniera strumentale.
Angelo Lo Verme
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