LUIGI FICARRA, Placido Rizzotto e la nostra memoria storica

Torna a parlarsi di Placido Rizzotto, il dirigente della Camera del Lavoro di Corleone, socialista, ucciso dalla mafia il 10 marzo 1948 e buttato in una foiba. Oggi, dopo tanti anni dal ritrovamento del suo cadavere da parte dell’allora Maresciallo Carlo Alberto Dalla Chiesa, la sua identificazione a mezzo del dna è certa, ed il suo corpo è stato restituito al movimento operaio, di cui fu un coraggioso e combattivo esponente: avrà così una degna sepoltura, che tutti potranno onorare.
Ho vivo, come fosse ieri, il ricordo della madre vecchia e dolente al congresso di Napoli del 1959 del PSI, cui poi allora aderii seguendo la componente bassiana.
Nasce Placido Rizzotto a Corleone il 2 gennaio 1914, undici mesi prima dell’assassinio, per mano della mafia, di uno dei massimi dirigenti del grande movimento dei fasci dei lavoratori siciliani del 1892-1894, Bernardino Verro, consumato il 3 novembre 1914, poco dopo la sua elezione a Sindaco di Corleone con una strepitosa maggioranza. Un’esecuzione di un uomo simbolo di lotte di liberazione, la cui memoria non poteva essere facilmente cancellata.
Qui, parlando di Placido Rizzotto, va ricordato che, convocata da Verro e dal Comitato centrale dei fasci, nell’estate del 1893 si svolse a Corleone una conferenza dei delegati dei fasci dei principali centri agricoli di tutta la Sicilia, e venne redatto il modello dei contratti agrari per braccianti, mezzadri e affittuari che fu poi presentato ai rappresentanti della grande proprietà terriera. Proclamato uno sciopero generale dopo il rifiuto di questi ultimi a firmare il contratto, si giunse, sotto la direzione di Verro, alla firma dei c.d. Patti di Corleone, considerati dagli storici come il primo esempio di contratto collettivo in Italia.
La forza del movimento di classe a Corleone negli anni ’40 non nasce quindi certo dal nulla, ha una sua storia ed affonda le radici nei Fasci dei lavoratori di fine ‘800. Il fascio di Corleone contava 6.000 associati e, come detto, era diretto da Bernardino Verro, poi divenuto dirigente di primo piano, come scrive Adolfo Rossi in “L’agitazione in Sicilia”, di tutto il movimento siciliano, forte di circa 350.000 soci. Verro, dopo lo stato d’assedio proclamato in Sicilia dal protofascita Crispi il 3 gennaio 1894, verrà arrestato assieme a quasi tutti i membri del comitato centrale dei Fasci, e condannato con i suoi compagni a duri anni di carcere da un tribunale militare che operò fuori dei limiti della stessa legge del tempo.
Con la sconfitta del movimento dei Fasci dei lavoratori si rafforzò e consolidò in Sicilia il sistema di potere politico sociale facente perno sugli agrari e sui proprietari delle miniere ed i loro alleati, potere sul quale si innervava e viveva in simbiosi quello mafioso.
Placido Rizzotto, tornato a Corleone dopo l’esperienza della guerra e della partecipazione, come partigiano, alle lotte della Brigata Garibaldi nel nord Italia, entrò nel vivo e fece parte attiva del vasto movimento di massa sviluppatosi in Sicilia nel secondo dopoguerra, nelle campagne e nelle città. Movimento che lottò duramente per l’emanazione dei decreti Gullo del 1944, che disciplinavano l’assegnazione delle terre incolte dei feudi alle cooperative e non ai singoli braccianti-contadini poveri ed indifesi, ed anche per raggiungere l’accordo sindacale del novembre 1946 relativo alla piena applicazione degli stessi decreti. Contro questo movimento di massa gli agrari e le forze di destra scatenarono il terrorismo politico-mafioso: 36 sindacalisti, una media di due ogni mese, furono assassinati dal novembre ’46 all’aprile 1948, fra i quali Accursio Miraglia, a Sciacca, il 4.1.1947, e Placido Rizzotto, a Corleone, il 10.3.1948. La repressione fu accentuata al massimo dal governo centrale De Gasperi-Scelba, sotto pressione USA, dopo la vittoria strepitosa del fronte popolare nelle elezioni regionali del 20 aprile 1947. I comunisti ed i socialisti furono estromessi dal governo e la svolta, come scrive lo storico siciliano Renda, incoraggiò gli agrari siciliani nella loro “strategia della tensione” tendente a bloccare col terrorismo l’ascesa del movimento contadino e del movimento operaio nel suo insieme, sino alla strage del 1° maggio 1947 di Portella della Ginestra. Altro che le lotte pacifiche di oggi dei coraggiosi cittadini della Val di Susa. Fu scatenato  allora in Sicilia un vero e proprio terrorismo politico-mafioso e statuale. La strage di Portella della Ginestra, in cui caddero uccisi tanti lavoratori inermi, fu compiuta con la partecipazione dei servizi USA (CIA) e dei fascisti della Decima Mas di Valerio Borghese, e con la copertura politica del ministero degli interni: fu la prima strage di Stato, ed in merito ritengo siano esaustivi gli studi compiuti dallo storico Giuseppe Casarrubea.
Era allora un fatto rivoluzionario la rottura del sistema feudale e del blocco sociale degli agrari, dominante nell’era liberale: 1861-1922, e poi in quella fascista. L’assegnazione diretta delle terre, come richiesto dal movimento di massa, alle cooperative, non al singolo contadino, come tale isolato e facilmente attaccabile, costituiva una minaccia mortale  per la sopravvivenza economica (i gabellieri ed i  campirei) della mafia,  e pure politica, per il controllo del territorio. Per questo, conniventi e mandanti, come detto, gli agrari e le forze politiche moderate e di destra, si scatenò il terrorismo politico-mafioso. Placido Rizzotto venne ucciso un mese prima delle elezioni del 18 aprile 1948, proprio perché dirigeva la lotta dei braccianti e dei contadini poveri per l’occupazione di un feudo, secondo la legge Gullo. Il capo mafia di Corleone, Michele Navarra, per bloccare il movimento, ne ordinò l’assassinio al suo braccio destro Luciano Liggio, poi assolto dal Tribunale di Palermo. Va al riguardo ricordato che tutti gli assassini compiuti nel dopoguerra dalla mafia restarono impuniti: non si sono voluti  ricercare i colpevoli, come, ad esempio, è evidente e chiaro come il sole nel caso di Accursio Miraglia. La connivenza piena  della magistratura col potere politico durò sino agli  anni ’60. I vertici giudiziari continuarono, sino ad allora, ad essere occupati da magistrati compromessi col vecchio regime fascista. Giuliana Saladino in “Romanzo civile”, narra che il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo negli anni ’50 – primi anni ’60 passeggiava quasi ogni sabato pomeriggio in via Ruggero VII, in pieno centro di Palermo, assieme al capo della mafia, perché tutti sapessero dove stava il potere di comando della società, e si adeguassero. In molti Comuni siciliani, scrive lo storico Salvatore Vaiana, marescialli dei carabinieri, commissari di pubblica sicurezza, mafia, banditi e forze conservatrici locali erano in combutta fra di loro. Quella che viene erroneamente, per ignoranza, chiamata omertà era la lucida consapevolezza che denunciare un crimine ai carabinieri significava allora farlo sapere subito alla mafia ed essere fatto fuori.
"Mi sento come uno che vuole prendere tutte le stelle del cielo e stringerle nel pugno. Si può?", dice Placido Rizzotto, in un passaggio del film di Pasquale Scimeca, guardando un incantevole cielo stellato. E un recensore del film giustamente commenta: “anche per questo era nato: perché quei contadini, privati dalla mafia del loro coraggio di alzare la testa riuscissero a guardare anch'essi in alto, verso il cielo stellato, dopo essersi riappropriati della loro dignità strappata dalla mafia”.
In un suo scritto di qualche anno fa Raul Mordenti dice giustamente che Gramsci insegna che attorno al “senso comune” si svolge la lotta egemonica fra le classi: è egemone chi gestisce il discorso sulla storia di cui è stato partecipe anche come subalterno, ed in quel momento, prendendone coscienza, cessa di esserlo, e si dispone a rendere il proprio punto di vista come “senso comune, cioè egemone. È giunto il momento – dice sempre Mordenti - che i rivoluzionari assumano il problema della costruzione del senso comune come il più decisivo dei problemi. Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare rispetto a quello del potere, almeno nei termini della capacità di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi. Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per l’autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità. È il gesto, se ci riflettiamo, meraviglioso, da cui origina ogni liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del padrone (cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il “fardello dell’uomo bianco” sia solo un racconto che serve per caricare ogni fardello sulle spalle dell’uomo nero e della donna nera; è il gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta giovanili, etc. E’ il gesto che compì consapevole e cosciente Placido Rizzotto contro gli agrari e la mafia, sì che egli continua oggi a vivere in noi a differenza di tanti, tantissimi cadaveri ambulanti.
Il “filosofo” contadino di Canicattì, Salvatore Giordano, di cui Adolfo Rossi ne “L’agitazione in Sicilia” ci ha lasciato indelebile ricordo, aveva cominciato a prenderne coscienza, dicendo “noi abbiamo subito finora i loro patti [agrari]: oggi dobbiamo cambiare. I padroni fanno i conti sui loro tavoli ed oggi noi cominciamo a farli sui nostri fasci”. … “La nostra è la causa della civiltà”.

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