GIOVANNI TESE', La rivolta dei “non si parte” a Naro e Camastra

Chiesa di San Francesco, dalla piazza antistante,
l'11 gennaio 1945, mentre parlava C. Petrolino,
partì la scintilla della rivolta dei "Nun si parte".
Il Cavaliere Salvatore Baldacchino, apprezzato studioso locale e stimato pubblicista, rivisitando storicamente gli avvenimenti che per tre lunghissime e convulse giornate, dall’11 al 13 gennaio del 1945, coinvolsero e sconvolsero le comunità di Naro e Camastra, riapre sicuramente una di quelle pagine dimenticate, ma soprattutto controverse e tormentate, della nostra Sicilia.




Sono passati ormai oltre sessantacinque anni dai fatti insurrezionali di quel “gennaio del 1945” che caratterizzarono non soltanto la microstoria di tante comunità siciliane, tra le quali appunto Naro e Camastra, ma costituirono e costituiscono sicuramente un segmento non trascurabile della storia siciliana.
Dall’estate del 1943 e fino alla primavera del 1945 la penisola italiana e in gran parte anche la Sicilia divennero teatro dello scontro anglo-americano da una parte e nazi-fascista dall’altra.
In quello stesso periodo tantissimi avvenimenti segnarono la Sicilia e il resto d’Italia.
La notte tra il 9 e il 10 luglio del 1943 gli alleati anglo-americani, vincendo una flebile ma dignitosa resistenza opposta da un esercito senza guida e da una popolazione desiderosa solo di pace e di normalità, sbarcarono a Gela e Licata e ben presto, man mano che avanzarono per occupare la Sicilia, furono accolti dalla gran parte della popolazione come “liberatori”.
Il 25 luglio del 1943, in seguito al voto del “Gran Consiglio” che destituì Benito Mussolini e tutti gli altri organi istituzionali, fu sancito sostanzialmente il crollo del fascismo.
Il 3 settembre di quello stesso anno a Cassibile in provincia di Siracusa il Generale Castellano e il Generale Walter Bedell Smitt firmarono l’armistizio tra l’Italia e gli alleati anglo - americani.
 «Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza».
Con queste precise parole, lette in un drammatico messaggio radiotrasmesso l’8 settembre del 1943, il maresciallo Pietro Badoglio, che era stato nominato dal Re Vittorio Emanuele III capo del Governo al posto del destituito Mussolini, annunciò la resa italiana e rese noto l’armistizio voluto dal governo italiano già siglato a Cassibile con gli alleati anglo-americani.
Da quel momento e fino al 1945 l’Italia si spaccò in due.
Nel Nord, occupato dai nazisti e sotto il governo di Mussolini che nel frattempo aveva fondato la “Repubblica di Salò” sostenuta da Hitler e da alcuni nostalgici che si erano abbandonati all’illusione di una rinascita del fascismo, si sviluppò la lotta di resistenza contro il nazi-fascismo con il contributo eroico dei partigiani e coordinata dai comitati di liberazione nazionale ove confluirono tutti i partiti antifascisti.
Era comunque di tutta evidenza che dopo il 25 luglio del 1943 nessuno avrebbe potuto risuscitare il fascismo colpevole per la gran parte degli italiani, profondamente antifascisti, di avere trascinato il Paese in un’avventura catastrofica e disumana costata al mondo intero un immane tributo di sangue: più di cinquanta milioni di vite umane! 
La situazione nel Nord per tutto il 1944 e fino al 25 aprile del 1945, che sancì la definitiva liberazione del Paese, fu caratterizzata da aspri combattimenti, da stragi contro gente inerme e da feroci rappresaglie.
Al Sud, invece, “liberato” dalle armate anglo-americane, fu avviato un tentativo, con ovvie e comprensibili difficoltà, di far nascere libere istituzioni democratiche.
A Salerno, nell’aprile del 1944, fu formato il primo governo di unità nazionale con la partecipazione della democrazia cristiana, dei social-comunisti, dei repubblicani, dei liberali, degli azionisti e dei democratici del lavoro, vale a dire di tutti i partiti dichiaratamente antifascisti, e fu presieduto dal maresciallo Badoglio.
Intanto, all’indomani della liberazione di Roma da parte degli Alleati avvenuta il 4 giugno del 1944, il Re Vittorio Emanuele III decise di ritirarsi dalla vita politica e nominò il figlio Umberto II di Savoia luogotenente generale del regno. Mentre Ivanoe Bonomi, che il 18 giugno del 1944 succedette a Badoglio, formò un nuovo governo cui parteciparono tutti i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale e rimase in carica fino al 21 giugno del 1945.
In Sicilia, nel frattempo fu nominato Alto Commissario il socialista Francesco Musotto, cui succedette il 17 luglio del 1944 Salvatore Aldisio che, con non poche difficoltà ma con grande pragmatismo e intelligenza politica, mantenne il difficile incarico fino al marzo del 1946; nel periodo sicuramente tra i più convulsi e complessi della storia siciliana del secolo scorso.
Ad Aldisio, che si era dimesso per partecipare quale candidato alle elezioni per l’Assemblea Costituente, succedette il repubblicano Giovanni Selvaggi.
La situazione complessiva del Paese era pertanto gravissima sia dal punto di vista politico che sociale ed economico.
Nel Sud e in Sicilia in particolare, ove dal settembre del 1943 si ebbe l’errata percezione che la guerra fosse sostanzialmente finita, la situazione era disastrosa: non c’era famiglia che fosse stata risparmiata da sofferenze, disagi, rovine e lutti inferti dall’orribile conflitto mondiale, peraltro non compreso né tampoco condiviso dalla popolazione.   
La Sicilia di quegli anni era non solo esausta per la fame e la miseria, ma anche logorata, specie nell’estate del 1943, dai martellanti bombardamenti subiti che costringevano le famiglie ad abbandonare le case e sfollare verso le campagne per cercare di salvare la vita in improvvisati rifugi.
I centri urbani più importanti della Sicilia, da Palermo a Catania, da Messina ad Agrigento, da Castelvetrano a Marsala, da Gela a Licata, da Porto Empedocle a Canicattì, solo per ricordarne alcuni, furono colpiti dalle terrificanti incursioni aeree, “tedesche” e “alleate”, che causarono morti, feriti, mutilati, invalidi e distruzione.
Anche ai naresi, la mattina del 12 luglio 1943, toccò patire la sconvolgente esperienza dei bombardamenti.
Un diffuso senso di sfiducia misto a rabbia e disperazione caratterizzava lo stato d’animo della gran parte dei siciliani esasperati per la situazione presente e per i torti e le vessazioni patiti in oltre ottanta anni di vita unitaria italiana. Unità  che i siciliani, nonostante “lo strappo storico” subito, perseguirono e vollero fortemente.
Invero i siciliani, autonomisti e unionisti, chiesero al prodittatore Antonio Mordini di indire per il 21 ottobre 1860 le votazioni per eleggere democraticamente un’Assemblea che avesse il compito di stabilire i tempi e i modi dell’adesione della Sicilia alla nuova realtà costituzionale unitaria. Le legittime richieste dei siciliani furono immotivatamente disattese anche per espresso volere di Cavour e di contro fu imposto un “plebiscito” il cui quesito obbligava gli elettori a un’adesione “incondizionata”.
I siciliani, tuttavia, il 21 ottobre del 1860 parteciparono alle votazioni e mettendo da parte ogni legittima aspirazione e rivendicazione, anche se con non poco risentimento, con il voto quasi unanime dei pochi aventi diritto, si espressero a favore dell’Italia “una e indivisibile”.
Il popolo siciliano, però, non è mai stato e non lo è tutt’oggi ripagato dai governi centrali con lo stesso slancio e con lo stesso amore sociale.
Già all’indomani della costituzione del Regno d’Italia furono attuati provvedimenti legislativi molto gravosi per la Sicilia: i primi atti del governo unitario furono, infatti, quelli di imporre un’iniqua e assurda pressione fiscale e di ordinare un’ingiustificata coscrizione militare obbligatoria che per i giovani siciliani significò l’inevitabile abbandono delle loro famiglie nella misera.
Non meno danni provocarono ai siciliani la soppressione delle corporazioni religiose e la confisca del loro patrimonio a seguito della legge Corleo del 1866 che estese al Regno d’Italia la legge eversiva Siccardi vigente in Piemonte sin dal 1850.
I proventi della vendita del patrimonio ecclesiastico in Sicilia, che ovviamente non furono spesi in Sicilia, servirono per pareggiare il bilancio statale dissanguato per industrializzare, bonificare e realizzare infrastrutture nel Nord del Paese.
Ai siciliani in gran parte disoccupati rimase soltanto l’unica strada possibile: emigrare in ogni parte del pianeta per trovare un dignitoso lavoro e condizioni di vita migliori.
Anche il governo fascista alla Sicilia non lasciò che piccole briciole.
Non si può non ricordare, solo a titolo esemplificativo, per ossequio alla verità e ben lungi da ogni polemica, che su milleottocento chilometri di acquedotti, in Sicilia ne furono realizzati solo quindici.
Nonostante tutto, i siciliani rimasero autonomisti e fortemente unionisti e risposero sempre e prontamente agli appelli dell’amata Italia.
Basti pensare che i siciliani versarono un copioso tributo di sangue sia durante la guerra del 1866, sia nelle campagne d’Africa del 1895 e del 1899, come pure nella prima e nella seconda guerra mondiale.
L’insofferenza atavica nei confronti di vecchi e nuovi colonizzatori alimentata dalle distruzioni, dalla povertà, dalla miseria, dalla mancanza di lavoro, dal razionamento di viveri e di generi di prima necessità, dallo sbandamento e dall’assoluta mancanza di fiducia e di speranza per il futuro, generò, però, in diverse comunità isolane uno spirito di ribellione che sfociò in numerose rivolte; in un primo momento episodiche e circoscritte e tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 in vere e proprie insurrezioni.
La Sicilia ben presto divenne un vulcano in eruzione.
I problemi e le lacerazioni che caratterizzavano la situazione sociale ed economica siciliana erano indescrivibili e sembravano insanabili.
Si acuirono problemi vecchi e ne sorsero nuovi, aggravati da fenomeni post bellici come banditismo, brigantaggio, rapine, estorsioni, abigeati, furti, sequestri di persone e violenze di ogni genere.
Nel frattempo cominciò a riaffiorare quello spirito separatista che per non pochi siciliani, benché lasciato in letargo, non si era mai sopito.
L’idea di separarsi dal resto d’Italia, alimentata da tante ingiustizie e dai torti subiti nonché incoraggiata dal Movimento per l’indipendenza della Sicilia guidato dall’On. Andrea Finocchiaro Aprile, cominciò a diffondersi in larghi strati della popolazione.
Anche le lotte sociali e le agitazioni agrarie per la concessione delle terre incolte e mal coltivate alle cooperative contadine, guidate prevalentemente dai social - comunisti, si diffusero rapidamente in tutta l’Isola.
Non mancarono tentativi finalizzati alla riorganizzazione del partito fascista, da parte di gruppi che speravano in un ritorno all’ormai scomparso regime.
 La tensione sociale toccava punte elevatissime.
A Palermo, in via Maqueda, innanzi al palazzo Comitini, attuale sede della Provincia regionale, il 19 ottobre del 1944, un giovedì freddo e piovigginoso, si consumò la prima grande tragedia dell’Italia liberata: una spontanea manifestazione di popolo che rivendicava salari più equi, pane, pasta e lavoro fu repressa brutalmente dal plotone di fanteria del 139° reggimento della Divisione Sabauda del Regio Esercito Italiano. Fu una strage. Un eccidio che provocò la morte di ventisei esseri umani, in gran parte giovani, e centocinquantotto feriti.
Tuttavia per i siciliani - nonostante la fame, la miseria e le repressioni perpetrate in loro danno - l’idea che la guerra fosse finita con l’armistizio di Cassibile, con la conseguente scomparsa di ogni pericolo di dovere lasciare ancora una volta le famiglie per andare a rischiare immotivatamente la vita, riusciva a placare gli animi esacerbati.
Anche questa certezza, però, diventò ben presto un’altra illusione e cocente delusione.
Il Governo Centrale con la motivazione di dovere sferrare l’attacco finale ai tedeschi che si erano attestati lungo la così detta “linea gotica”, che attraversava l’Appennino tosco - emiliano, disponeva ancora una volta la chiamata alle armi dei giovani appartenenti alle classi dal 1914 e fino al primo quadrimestre del 1924.
Preliminarmente fu ordinato un censimento in tutta la Sicilia dei giovani, compresi sbandati e disertori, appartenenti alle classi del 1922, del 1923 e del primo quadrimestre del 1924, vale a dire anche i ragazzi di venti anni, per chiamarli immediatamente alle armi.
I bandi del 23 novembre 1944 e il relativo recapito ai destinatari nei primi di dicembre, di quelle cartoline “color rosa” contenente l’invito a presentarsi «… in nome di S.A.R. Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno... entro dieci giorni, al distretto militare di... » e di portare «… gavetta, cucchiaio e coperta... », per i giovani siciliani suonarono come l’ennesimo atto di vessazione e di soverchieria.
Molti in Sicilia non riuscivano a comprendere quell’ordine di dovere riprendere le armi.
«Perché i giovani devono ripartire se la Sicilia è occupata e la guerra è finita?». Questo era l’interrogativo che in quei giorni convulsi si posero non soltanto i giovani interessati alla chiamata alle armi ma anche le mamme, le mogli, le famiglie. A questi angoscianti interrogativi nessuno riusciva a dare una risposta plausibile e convincente.
Quella chiamata alle armi fu considerata la classica goccia che fece traboccare il vaso.
La reazione non tardò a farsi sentire: come per incanto, in un battibaleno, si diffuse la convinzione di ribellarsi all’ennesima chiamata alle armi.
Se a tutto questo si aggiunge la povertà, la mancanza di lavoro e di sicurezza, la paura di dovere ancora una volta abbandonare le famiglie, peraltro nella fame e nella miseria, il rischio di dover perdere la vita senza sapere né per chi, né per cosa, allora è agevole dedurre che gli ingredienti per manifestare in modo energico il disagio e il dissenso c’erano tutti.
Alle proteste contro l’ammasso del grano, la mancanza di viveri e la carenza di trasporti, quindi, si aggiunse la protesta contro l’ultima e mal digerita chiamata alle armi che passò alla storia come la protesta dei “non si parte”.
«Nun si parti, nun si parti!!!» fu la parola d’ordine che spontaneamente si diffuse tra tutti i giovani siciliani.
L’insurrezione antimilitarista dei “non si parte” di quelle settimane coinvolse tutta l’isola.
Tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, infatti, in tutte le provincie della Sicilia scoppiarono proteste e tumulti che in almeno ventiquattro città degenerarono in vere e proprie insurrezioni. Sarebbe davvero impossibile riportare in questa sede, seppur per cenni, tutte le rivolte e le insurrezioni che scoppiarono in quei giorni.
Credo doveroso, comunque, ricordarne almeno alcune tra le più note.
A Regalbuto in provincia di Enna, il 27 maggio del 1944, durante gli scontri verificatisi nel contesto di una manifestazione separatista fu ucciso dai Carabinieri Santi Milisenna, sindacalista e segretario della federazione del Partito Comunista.
 Il giorno successivo a Licata, in provincia di Agrigento, una vivace protesta popolare fu repressa molto energicamente. Il bilancio fu di tre morti e diciotto feriti tra i manifestanti, gli arrestati furono centoventi.
Il ventinove settembre dello stesso anno a Partinico, in provincia di Palermo, una manifestazione contro il carovita e contro gli accaparratori di grano, finì nel sangue: persero la vita un minorenne, Lorenzo Pupillo, ucciso da un sottufficiale dei Carabinieri e il maresciallo dei Carabinieri Benedetto Scaglione.
Sempre a Licata, nell’ottobre del 1944, durante una manifestazione, i Carabinieri uccisero due persone e ne ferirono diciannove.
A Catania, dall’11 al 15 dicembre del 1944, la popolazione protestò energicamente contro la chiamata alle armi.
Ben presto la protesta si trasformò in un vero e proprio tumulto; i manifestanti al grido di “abbasso la guerra”, dopo avere devastato il Municipio e l’esattoria, tentarono di assaltare anche il Distretto Militare. I militari reagirono e un giovane, peraltro estraneo agli ambienti politici e sindacali, Antonio Spampinato, rimase ucciso.
Anche a Naro già dall’inizio del mese di novembre, come si legge in alcuni atti ufficiali, « … si propagava, fra le masse, specie le meno abbienti, vivo malumore …». La popolazione, infatti, manifestava un profondo malessere originato in gran parte dalle gravi condizioni alimentari.
In quelle settimane numerosi furono gli atti d’intolleranza e le proteste incontrollate e il 14 dicembre del 1944 culminarono con la devastazione del “Circolo Progresso” considerato nell’immaginario collettivo il luogo simbolo della “nobiltà” locale; tant’è che, ancora oggi, è conosciuto e chiamato “circolo dei nobili”.
Fu assalito anche il circolo degli agricoltori, noto come “circolo di’ burgisi” e quindi simbolo dei proprietari terrieri.
Sempre in quello stesso giorno ci fu un tentativo di saccheggio del molino “S. Agostino”. Fortunatamente non si registrarono vittime, ma le rivolte di quei giorni rappresentarono, sicuramente, le “prove generali” di quel che sarebbe accaduto nei giorni successivi.
Il 17 dicembre del 1944, a Vizzini, in provincia di Catania, i Carabinieri, per sedare una delle tante rivolte di protesta per il richiamo alle armi, uccisero due dimostranti.
Il 31 dicembre del 1944 Giacomo Petrotta, giovane dirigente comunista nel frattempo dimessosi dal partito, si pose a capo della gran parte dei giovani di Piana dei Greci, oggi Piana degli Albanesi, e li incoraggiò a rifiutarsi di rispondere alla chiamata alle armi.
Riconosciuto leader del movimento antimilitarista dei “non si parte”, Giacomo Petrotta fondò la cosiddetta “Repubblica contadina” di Piana degli Albanesi, che capitolò il 20 febbraio del 1945.
Oltre cinquantacinque giovani furono denunciati a piede libero; mentre Giacomo Petrotta, Francesco La Russa e Nicolò Mandalà, capi del movimento, furono arrestati e rinchiusi nel carcere dell’Ucciardone.
Oggi non tutti sono d’accordo sul fatto che il Petrotta abbia fondato una vera e propria “Repubblica” e anzi è tacciato d’incoerenza per l’agire politico ondivago e senza un vero e proprio progetto credibile.
Il 4 gennaio del 1945 a Ragusa una giovane madre e sposa, Maria Occhipinti, con caparbietà e determinazione, si mise a capo, in modo del tutto casuale, del movimento spontaneo di resistenza popolare avverso la chiamata alle armi e formato in gran parte da mamme, mogli e giovani.
Noncurante del pericolo Maria Occhipinti, incinta di cinque mesi, si stese supina innanzi alle ruote del camion dell’esercito con dentro i tantissimi giovani precettati alle armi che stavano per essere portati coattivamente al distretto militare, impedendo materialmente con il proprio corpo che il camion avanzasse verso la meta e che i giovani fossero portati in guerra. « … mi ucciderete, ma voi non passerete. I nostri uomini, i nostri giovani, i nostri mariti, i nostri figli non li mandiamo più in guerra … » ebbe a dire Maria Occhipinti, con il coraggio che in tante occasioni le donne siciliane hanno saputo dimostrare, agli Ufficiali dell’esercito che avevano ordinato il rastrellamento.
Fu così che a Ragusa iniziò la rivolta dei “non si parte”.
Nei giorni successivi, dopo che un ufficiale dell’esercito uccise l’inerme sacrestano della Chiesa di San Giovanni, la protesta di Ragusa divenne una vera e propria insurrezione armata e guidata in gran parte da militanti socialisti e comunisti.
Ben presto i moti insurrezionali di Ragusa si estesero nei centri vicini. Il prezzo di vite umane fu elevatissimo: diciannove morti e sessantatrè feriti gravi. Alla fine molti dei protagonisti furono arrestati e deportati nella colonia penale di Ustica, ove furono fatti confluire tutti i partecipanti o presunti tali alle sommosse popolari. Tra questi anche Maria Occhipinti che l’8 marzo del 1945, casuale ma eloquente coincidenza con la festa della donna, con l’aiuto di una confinata di Naro diede alla luce una bambina.
Sempre in provincia di Ragusa, il 5 gennaio, insorse Comiso: uomini, donne, giovani e anziani, di tutti i ceti sociali, espressioni di tutte le professioni e di tutte le arti e mestieri insorsero al grido di “nun si parti, nun si parti!!!”.
I moti, in un primo momento spontanei e frutto di decisioni libere e volontarie, ben presto furono strumentalizzati e politicizzati. La guida dell’insurrezione fu assunta, secondo quanto ci è stato tramandato dalla storiografia ufficiale, dall’ingegnere Lorenzo Carrara; verosimilmente un “agente segreto” venuto dall’Italia del nord. Il 6 gennaio del 1945 fu fondata la “Repubblica autonoma e fascista di Comiso” indipendente dal resto dell’allora Regno d’Italia e dotata di un ordinamento ispirato alla “legislazione” della repubblica sociale italiana.
Appena cinque giorni dopo, l’11 gennaio, il generale Brisotto, dopo avere circondato la città di Comiso e sotto la minaccia di bombardarla a tappeto, ottenne la resa dei comisani che, eccezion fatta ovviamente per i pochi interessati e ideologizzati, nulla avevano a che dividere con ideologie politiche di sorta né tampoco con progetti miranti a restaurare qualsiasi regime d’ispirazione fascista.
Il popolo comisano voleva solo pane, pace, giustizia e libertà!
Il prezzo di vite umane fu rilevante. Furono uccisi diciotto militari e feriti ventiquattro, mentre tra i rivoltosi diciannove persone persero la vita e sessantasei rimasero gravemente feriti. Oltre trecento persone furono arrestate e deportate anche loro nella colonia penale dell’isola di Ustica.
Mentre l’11 gennaio del 1945 il generale Brisotto “liberava” la città di Comiso dagli insorti, a Naro in quello stesso giorno si preparava una delle insurrezioni popolari più convulse e incontrollate della storia della Città.
Naro da sempre è stata una città pacifica, ospitale e tollerante; in tutti i suoi abitanti e in tutti i tempi sono albergati autentici valori di libertà, democrazia, giustizia sociale, uguaglianza e solidarietà.
Di fronte alle ingiustizie e alle vessazioni, però, i naresi non sono rimasti spettatori passivi, anzi hanno sempre detto “no”, con coraggio e audacia, all’arbitrio, alla prepotenza e all’arroganza.
Vale la pena al riguardo restituire alla memoria, anche se solo per cenni, alcuni avvenimenti significativi ed esemplificativi.
 Il 3 aprile del 1282, mentre imperversavano i “Vespri siciliani”, i naresi insorsero contro gli oppressori francesi, uccisero il governatore Francesco Turpiano che angariava il popolo con vessazioni di ogni genere e con autentiche rapine fiscali, liberandosi in tal modo dal giogo angioino e riconquistando nel contempo l’agognata autonomia e libertà.
Nel 1489 i naresi riuscirono ad ottenere con forza e determinazione da Ferdinando II il Cattolico il raro privilegio di non dovere essere governati da Ufficiali stranieri.
Nel 1516 il popolo di Naro insorse contro Bernardo Lucchese, amministratore delle imposte, capitano di giustizia ed esattore della città, che oberava la popolazione soprattutto con iniqui provvedimenti fiscali. Dopo averlo catturato nell’antico castello di Canicattì, ove si era rifugiato per sfuggire all’ira del popolo esasperato, gli insorti lo incarcerarono e privarono di tutti i suoi averi ponendo fine in tal modo a un insopportabile strapotere.
Il 20 febbraio 1689 scoppiò una rivolta furibonda per protestare contro la “tassa del macinato”. L’intera popolazione organizzò un’imponente manifestazione e riuscì a far tornare sui loro passi tanto il Regio Protettore quanto gli Ufficiali della Città.
Anche negli anni 1893-94, nel contesto del movimento dei “Fasci siciliani”, a Naro esplose, con rivolte e pubbliche manifestazioni, il malcontento nei confronti del governo “patrigno e colonizzatore”.
Questi sono solo alcuni dei precedenti storici della città di Naro, in tema di sommosse e rivolte popolari, che hanno preceduto l’insurrezione dell’11 gennaio del 1945.
Molti anziani naresi, pur a distanza di sessantacinque anni, ricordano con grande lucidità quelle frenetiche e drammatiche giornate: “la sommossa dell’11 gennaio 1945”.
Sono giorni che nella memoria di chi li vive rimangono scolpiti in modo indelebile, specie quando sono giorni particolarmente significativi e importanti per una comunità.
L’11 gennaio, infatti, per i naresi è un giorno importante e significativo: è una delle due giornate che, con il 18 giugno, Naro dedica al Protettore San Calogero.
Sin dal 1693, che per la Sicilia fu un anno funesto per gli incalcolabili danni provocati da un terrificante terremoto che provocò oltre centomila morti e la distruzione di un centinaio di paesi, ogni anno, l’11 gennaio, i naresi portano in processione San Calogero, riconosciuto Protettore della Città che fu risparmiata dall’immane flagello.
Anche l’11 gennaio del 1945, giovedì, Naro si preparava a festeggiare e rendere onore a San Calogero.
Era una giornata molto fredda, qualcuno ricorda che addirittura c’era stata la neve, il clima politico e sociale era però fortemente surriscaldato.
Le “cartoline precetto” per il richiamo alle armi erano arrivate da qualche mese anche ai giovani naresi che avevano manifestato immediatamente non poche reazioni.
L’incertezza per il domani regnava sovrana, la fame e la miseria in molti strati sociali la facevano da padrone. Dai paesi vicini e specialmente dalla provincia di Ragusa arrivavano notizie sulle insurrezioni popolari portate avanti dal movimento antimilitarista dei “non si parte”. Bastava un nonnulla per accendere gli animi. Nell’aria c’era qualcosa di strano, si percepiva che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa di grave. In quel clima qualunque idea che assecondasse e incoraggiasse la convinzione, ormai radicata tra i giovani, di disobbedire all’ordine del Governo di riprendere le armi, era accolta con grande entusiasmo.
Fu facile per chiunque “soffiare sul fuoco”; in particolar modo politici, gruppi ideologizzati, manipolatori di masse e quant’altri strumentalizzarono, sia a Naro sia in qualsiasi altro centro, manifestazioni spontanee e genuine.   
In effetti a Calogero Petrolino, un giovane maestro elementare di Camastra, brillante oratore, separatista e idealista, di appena ventuno anni, l’11 gennaio 1945, nel corso di un vibrante comizio tenuto a Naro, bastò stigmatizzare l’ennesima chiamata alle armi, con la veemenza oratoria che gli era propria, per infervorare gli animi e mettersi a capo dei giovani naresi che non volevano tornare in guerra.
Bastò ancora che uno dei tantissimi giovani - presente nella piazza principale di Naro per ascoltare l’arringa del Petrolino - bruciasse la cartolina precetto ricevuta, perché i manifestanti insorgessero contro i poteri dello Stato e perché a Naro scoppiasse quel finimondo passato alla storia come l’insurrezione dei “non si parte” ovvero la “sommossa dell’undici gennaio”.
Certo, sarà agevole dedurre che non tutto fu spontaneo e improvvisato ma sicuramente pianificato da alcuni rivoltosi già nei giorni precedenti; tuttavia bastò solo una “scintilla” per accendere la “polveriera”.
Raccontano ancora gli anziani che successe di tutto. Mi limiterò, qui, ovviamente, a riferire solo qualche cenno.
Dall’undici al tredici gennaio i rivoltosi saccheggiarono e devastarono la Caserma dei Carabinieri, la Pretura, il Carcere Mandamentale, l’Ufficio Imposte di Consumo e altri edifici pubblici e privati, procurarono l’evasione degli otto detenuti che erano “ristretti” nel Carcere Mandamentale ubicato nel Castello Chiaramontano diventando per quei tre giorni i padroni assoluti del paese. Quelle terribili giornate furono caratterizzate da drammatici scontri a fuoco tra carabinieri e rivoltosi. Sei persone rimasero uccise negli scontri a fuoco tra militari e insorti, tra i quali lo stesso Petrolino e il sottotenente dei carabinieri Antonino Di Dino.
Nel frattempo a Licata, il 12 gennaio, sempre durante i tumulti contro la leva obbligatoria, fu assassinato un manifestante.
Il 13 gennaio 1945 gli insorti di Naro si arresero.
Un ruolo importante per pianificare la resa dei rivoltosi ed evitare altro spargimento di sangue fu svolto dal Cav. Angelo Comparato che era stato nominato Sindaco dal Prefetto di Agrigento il 28 gennaio 1944, carica che mantenne fino al ventuno agosto del 1945.
Dopo la resa e tornata la calma, domenica 14 gennaio 1945, i carabinieri interrogarono e arrestarono centinaia di persone che furono deportate nella colonia penale di Ustica, ove si aggiunsero ai tantissimi arrestati in ogni parte dell’isola.
Per il restante anno scoppiò solo qualche tumulto. Si ricordano le manifestazioni dell’undici marzo a Palermo e dell’undici settembre a Piazza Armerina, ma fortunatamente in questi ultimi casi senza spargimenti di sangue.
Si concluse così uno dei periodi più caotici e profondamente tristi della nostra Sicilia. Pian piano la situazione andava normalizzandosi e per la Sicilia si presentava l’occasione per un forte rilancio politico, economico e sociale.
         Passata la “tempesta” degli anni orribili della guerra, con il 1946 anche in Sicilia ritornò il “sereno” e la classe politica siciliana del tempo, con grande lungimiranza, pose le basi istituzionali per dare all’Isola quello sviluppo sempre agognato e purtroppo ancora oggi rimasto tale.
L’Alto Commissario per la Sicilia Giovanni Selvaggi riuscì a portare la Sicilia alle prime elezioni libere e democratiche, prima a livello amministrativo e in seguito, il 20 aprile 1947, a livello regionale con l’elezione della prima Assemblea Regionale Siciliana.
         Il 15 maggio del 1946 con R.D. Lgs. n. 455, ancor prima quindi che gli italiani scegliessero la forma di governo ed eleggessero l’Assemblea Costituente, fu approvato lo Statuto Speciale della Regione Siciliana, che rappresentò per la Sicilia un “atto di pacificazione storica” dopo “lo strappo” subito nel 1860.
         Lo Statuto Siciliano, in seguito, con il nuovo ordinamento costituzionale e repubblicano, dopo un’ennesima battaglia politico-giuridica portata avanti dai Padri dell’autonomia Siciliana e in particolare da Luigi Sturzo, Gaspare Ambrosini, Giuseppe Alessi, Franco Restivo, Enrico e Giuseppe La Loggia, Giovanni Guarino Amella e da tanti altri ferventi autonomisti, regionalisti e unionisti, fu convertito in Legge Costituzionale del 26 febbraio 1948, n. 2.
Gli avvenimenti che coinvolsero la Sicilia e i Siciliani, tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, in molti casi caddero nell’oblio e in altri casi, con molta superficialità, furono bollati da alcuni come “intimidazioni comuniste”, da altri come “velleitarismo separatista”, da altri ancora come “rigurgito reazionario e fascista” o con altre qualificazioni più o meno interessate.
Invero, a prescindere dalle qualificazioni attribuite, frutto il più delle volte di mistificazioni e d’interessi politici e ideologici, i motivi che provocavano l’insorgere di manifestazioni, inizialmente spontanee, improvvisate e incontrollate, erano riconducibili soprattutto a un fortissimo e profondo anelito di libertà e a una forte sete di giustizia sociale. Tutto ciò che, in un modo o nell’altro, contrastava con questi princìpi scatenava generali forme di ribellione.
A insorgere erano in gran parte giovani, studenti, operai, disoccupati che davano voce, seppur talvolta in modo disordinato e convulso, al malcontento e al risentimento popolare.
Tuttavia in questo clima, come del resto è sempre stato e come la storia ci insegna - “nihil novi sub sole” - non sono mancati agitatori interessati e ideologizzati, infiltrati, manipolatori e delinquenti comuni e ovviamente il tutto, come sempre, a vantaggio dei “primi violinisti” in prima fila a tessere gli elogi ai vincitori e pronti a rivendicare una fetta di “potere”.
Quei tragici avvenimenti, per oltre cinquant’anni, sono rimasti “storie dimenticate”.
Mentre per i fatti analoghi avvenuti a Catania, Ragusa, Comiso, Piana degli Albanesi, Scicli, Palazzo Adriano, Licata, Vittoria e in tanti altri centri della Sicilia, dopo un lunghissimo periodo di assordante silenzio, in questi ultimi anni si è destato un forte interesse da parte di studiosi ed anche da parte di giovani studenti; per l’insurrezione di Naro, invece, il silenzio è rimasto assordante, eccezion fatta per qualche apprezzabile ma isolato tentativo di ricostruzione di alcuni aspetti di quegli avvenimenti.
Oggi, a distanza di sessantacinque anni, è nostro compito cercare di capire e di pervenire alla verità di quegli accadimenti, convinti come siamo che la conoscenza della verità storica degli avvenimenti del passato è una necessità per tutti, poiché il nostro passato oltre a rappresentare la nostra memoria e le nostre radici, costituisce il retroterra del nostro presente e ci aiuta a comprenderlo e nello stesso tempo ci aiuta a progettare il nostro futuro.
A cominciare a colmare questo imperdonabile vuoto e silenzio, a distanza di sessantacinque anni, provvede oggi con lodevole iniziativa Salvatore Baldacchino.
Gli avvenimenti di quelle tre interminabili giornate, dall’11 al 13 gennaio del 1945, ci vengono raccontati dal Cavaliere Baldacchino nel suo saggio frutto non solo di una ricerca archivistica ma anche di un attento confronto di tante testimonianze acquisite nonché dalla testimonianza dello stesso Autore che, nonostante la giovanissima età all’epoca dei fatti, ha dimostrato di avere avuto una chiara percezione degli accadimenti vissuti.
          Tantissimi sono i meriti ascrivibili al Cavaliere Salvatore Baldacchino per la sua opera tesa a scrivere e ricostruire i fatti che coinvolsero Naro e Camastra in quel gennaio del 1945 e che a tutt’oggi sono rimasti sostanzialmente estranei a ogni progetto storiografico. Tra questi meriti, uno fra tutti merita però particolare menzione: quello di volere giustamente “revisionare” quegli eventi con criterio storico, con obiettività, con spirito libero e con l’intento di conseguire la verità.
          Non vi è alcun dubbio, infatti, che gli avvenimenti di quei mesi, spesso manipolati o nel migliore dei casi affrontati parzialmente o superficialmente, sono ancora ben lontani da un’auspicata ricostruzione vera e completa.
          Le poche ricostruzioni sui fatti dell’11 gennaio 1945 di Naro e Camastra hanno trovato la loro fonte principale nella “Relazione sulla rivolta verificatasi nel Comune di Naro” resa dal Capitano Comandante dei Reali Carabinieri della Compagnia Esterna di Agrigento il 19 gennaio 1945, che ovviamente rappresenta soltanto un aspetto parziale e burocratico di quegli avvenimenti.
          Per quei fatti non fu celebrato un vero e proprio processo sia dal punto di vista formale che sostanziale.
          Il Dott. G. Varicenti, Giudice Istruttore Militare presso il tribunale Militare Territoriale di Palermo, infatti, con sentenza, nel procedimento penale, contro i 217 imputati, di cui 209 imputati di «insurrezione armata contro i poteri dello Stato (artt. 110 e 284 c.p.) per avere in Naro, dall’11 al 13 gennaio 1945, in concorso tra loro partecipato a un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, organizzata e promossa da certo Petrolino Calogero, rimasto ucciso durante la stessa insurrezione», resa il 23 aprile 1946, dichiarava la propria incompetenza a giudicare gli imputati dei reati contro la personalità interna dello Stato ed ordinava «la rimessione degli atti al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo per l’ulteriore corso di giustizia».  
          Due mesi dopo il Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti emanava il provvedimento di amnistia, promulgato il 22 giugno 1946, e il procedimento giudiziario fu definitivamente archiviato.
          Il 4 luglio 1946 quasi tutti, per aver beneficiato di detto provvedimento di clemenza, furono rimessi in libertà.
          È certo comunque che tanti responsabili, anche di reati comuni, come sempre avviene in casi analoghi, rimasero impuniti.
          Così com’è certo che tanti innocenti furono ingiustamente accusati dalla “giustizia” di fatti mai commessi e costretti pertanto a subire non lievi conseguenze per responsabilità mai avute e provate.
          Sul tema della “giustizia ingiusta” significative sono le pagine rese da Alessandro Manzoni nei “Promessi Sposi” quando descrive Renzo costretto a fuggire dalla “giustizia” che lo accusava “ingiustamente”.
         Decisamente inquietante, invece, sul tema riguardante il rapporto fra giustizia e potere è la provocatoria affermazione di Trasimaco, uno dei personaggi protagonisti del dialogo platonico Repubblica, secondo cui: «la giustizia altro non è che se non ciò che giova al più forte».
          Oggi spetta, quindi, in modo particolare agli studiosi l’analisi e l’approfondimento di quegli eventi anche allo scopo di fare finalmente chiarezza e far conoscere la verità.
          L’incipit dato da Salvatore Baldacchino, con stile garbato e originale, credo vada proprio in questa direzione ed è per questo che l’invito alla riflessione, allo studio e all’approfondimento di quegli avvenimenti, ancora in gran parte poco chiari e sconosciuti, in special modo dai più giovani, non può che essere accolto con grande interesse ed entusiasmo.
          Oggi il compito è facilitato sia perché sono venuti meno gli interessi e i condizionamenti politici e ideologici volti alla strumentalizzazione, alla mistificazione e alle tentazioni manipolatrici, sia per gli apporti che la tecnologia multimediale ci offre e soprattutto perché ormai tutti gli archivi di quegli anni, italiani e stranieri, pubblici e privati, sono a disposizione del pubblico e degli studiosi.    
          È da augurarsi che storici, giornalisti, giuristi, politici, uomini di cultura, studenti e soprattutto uomini liberi e amanti della verità possano trarre spunto e rinnovate motivazioni dall’opera di Salvatore Baldacchino per approfondire i fatti e le tematiche di quelle giornate utilizzando tutti quei documenti, verbali, appunti, peraltro già “declassificati”, che ancora giacciono negli archivi coperti dalla polvere di sessantacinque lunghi anni, mai letti e studiati, e ciò al fine non soltanto di scrivere la storia di quegli anni e di quei giorni ma anche e soprattutto per ristabilire la verità nella consapevolezza che la storia vera, se si pone come obiettivo primario la verità, può essere davvero “faro” per il futuro e perché no, anche “maestra di vita”.
          Lo studio di quel passato potrà altresì essere occasione propizia per riflettere seriamente sui valori dell’autonomia regionale, sul decentramento e sulla sentita appartenenza alla nostra amata Italia, per concorrere concretamente a fare della Sicilia una straordinaria terra di sviluppo, progresso economico e sociale, in un’Italia e in un’Europa unite e libere nella democrazia, nella pace, nella giustizia sociale e nella solidarietà.
Anche per questo, come ci invita a fare Salvatore Baldacchino, è doveroso riscoprire la memoria e le radici culturali, ideali e morali del passato, perché nel nostro Paese si possa costruire un futuro nel quale i diritti inviolabili di ogni essere umano possano essere considerati davvero fondamentali.


Naro -  Agosto 2010
                                              Giovanni Tesè

Castello di naro, ai tempi della rivolta c'era il carcere mandamentale.
Saggio introduttivo al libro di Salvatore Baldacchino: La Repubblica di Naro e Camastra - La rivolta dei  “non si parte” 11 gennaio 1945.

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