"- God, he said quietly. Isn't the sea what Algy calls it: a grey sweet mother? The snotgreen sea. The scrotumtightening sea. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, the Greeks. I must teach you. You must read them in the original. Thalatta! Thalatta! She is our great sweet mother. Come and look".
Così faceva dire quel fottuto dubliner al suo Buck Mulligan proprio all'inizio del suo farneticante Ulysses. Ne è passata acqua da quel lontano 1922 parigino, eppure sento risuonare con lui quel "mare colore del vino", come un tempo traducevano quel misterioso òinops, termine polimorfo che ritrae l'indeterminatezza cromatica antica tra "livido", "brillante" e "violaceo". Ed è incredibile che in questo stravolgimento del viaggio iniziatico dentro l'anima, vissuto dalle otto del mattino alle due c]i notte del 16 giugno 1904, sia il miscredente irlandese, formatosi alle scuole gesuitiche, a compiere la prima vera avventura di tutta la storia dell’'uomo, ad aprire la porta del moderno sentire, dello straniamento e della memoria poetica, strumenti, ora tecnicamente definiti, del vagare nell'interiorità della psiche umana.
Questo mi evocò una prima semplice scorsa dei titoli della breve silloge di Francesca Velia e emozionò soprattutto me che ho dedicato una vita alla passione per la cultura greca, che ho viaggiato con il divino Omero nello stupore incantato dei suoi mari, nell'armonia infinita del suo insuperabile e insuperato esametro, il mirabile stupendo primigenio verso del mondo.
Anche da ragazzo mi ha lasciato freddo la mostruosa aristeia degli eroi iliaci, il modello patriottico Ettore, l'Achille forza primordiale della natura, trafitto dall'amore e riscattato dal pianto inconsolabile. Ancora mi chiedo perché tanto ha attratto i giovani la selvaggia ferinità di Patroclo 0 Diomede o Aiace. Forse l'irruenza e la voglia di fare? Me ha stregato invece lo straordinario magico intreccio del viaggio e soprattutto il periglioso nostas, quel procedere avanti e indietro, il ritorno alla propria isola, che è poi più che amore di Penelopi e di Laerti, è quello struggimento per il proprio Ur-Grund, quell'arcano immenso trepido perdersi nello sfinimento del ritorno al punto in cui fu l'arche, il ventre del nostro esistere, l'appagante "nostalgia" della nostra origine. Gli americani che tutto traducono, anche i nomi propri, usano ancora, pur con qualche slittamento fonetico, lo stesso vocabolo.
Né più di tanto mi commosse il dantesco Ulisse "consigliere di frode", che filosofeggiava nel suo superbo antropocentrismo - tradotto poi da D'Annunzio in superomismo:
"Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza"
(Inferno, XXVI, 118-120)
Né granché mi disse la disillusa lacrimevole insistenza di Pascoli intorno al mito del viaggio e del ritorno, proiezioni delle sue ossessive antitesi sogno-realtà ("II ritorno", "II sonno di Odisseo , "L'ultimo viaggio", come “Nevica”).
Perché Odisseo è la vita, il peregrinare dall'alpha all'omega, il ciclico rincorrersi di due opposti punti, marea ed approdo per ripercuoterci in altro vortice e in altri lidi, l'eterno fluire della vita.
Questa sensazione lascia la delicata, tenera, levigata evanescenza delle liriche di Francesca Vella, il senso di quieto fluire del tempo e della vita, il lieve alito di una piuma che ci sfiora la pelle.
Intanto il numero dieci, con tutti i richiami: il segno numerico della semplicità e nello stesso tempo della completezza che si manifesta nel numero delle dita umane, poche immagini che si rimandano e circoscrivono un Ring, l'anello concluso, ma anche schizzi semplici e apodittici come i comandamenti ebraici.
I1 viaggio esistenziale si avvia con una riflessione proemiale (Proemio): la partenza "per i mari della vita" e il rifiuto della certezza della rotta che è condannata come vanagloriosa cecità. In questo viaggio la vita sta invece nella "molesta inquietudine", in quel battito che sconvolge le verità prefissate, nel viaggio senza una rotta stabilita.
Non manca, come nell'epos antico, l'Invocazione, ma essa si estranea dalla Musa o dall'io ariostesco e si mercifica in una bocca, protagonista di un protagonista che vive in diverse poesie di Velia, un uomo dei rimpianti, un eidolon che torna spesso a marcare una realtà perduta, il dolore sempre presente per qualcosa che ancora si continua nonostante tutto ad amare ed odiare, l'imperioso universale ed eterno odi et amo catulliano.
E finalmente il tema che regge l'ordito, che serve da leít-motiv a questo libricino, titolato proprio Ulisse: la necessità di "viaggiare molto / e molto conoscere / sugli usi del cuore / della gente", quell'angosciante ricerca delle "tracce / di cicatrici mal rimarginate". Il viaggio come meta e come fine della vita.
Nella serie delle altre liriche sono scanditi i ritmi dell'esistenza della poetessa, dove i relitti omerici, pretesti per archetipi mitologici, si dissolvono in reminiscenze e allusioni: la misteriosa terra odiata dei Lotofagi, colpevole di essere abbagliata dalla troppa luce, la radiosa Nausicaa, la fanciulla dei primi bollori, invecchiata di cento anni per l'uomo partito "per i mari freddi della ragione", la passeggiata "lungo / i fiumi tranquilli /dei pensieri / e delle parole" agli Inferi appoggiandosi al braccio del suo "signore", come la tenera Didone e Sicheo, che respondet curís aequatque ... amorem (VERG., Aen. VI, 474), Calipso la "Nascosta", che passa il tempo a "pensare a non pensarti", e Circe la maliarda fattucchiera, la straniera che le donne tutte sfuggono guardinghe.
Poi nel fluire dei desideri e delle delusioni l'insistenza sull'eterno mito dell'attesa, la Penelope che tesse e ritesse, - "nell'attesa filo e sfilo solo parole" - l'impassibile, instancabile inumana allegoria della tela, la fiaccola ancora accesa nella notte. E l'agognata presenza di qualcuno, mentre ha "soltanto / un letto freddo / la sera /e un pensiero / più forte della verità".
Tutti sanno del foscoliano autobiografico "diverso esiglio, / per cui bello di fama e di sventura/ baciò la sua petrosa Itaca Ulisse". Tutti sanno di Argo, nobile nome a differenza di Bob, che, pieno di zecche, scodinzolò e piegò le orecchie alla sua vista e "poi lo colse il fato della nera morte, quando vide il padrone dopo venti anni" (Odissea, XVII, 326 s.), del padre che lo riconosce senza bisogno di prove, della nutrice che lo scopre dalla ferita sulla coscia, della fedele Penelope che ha invece bisogno del disvelamento del mistero del talamo, solo allora "non gli staccava più le candide braccia dal collo". Alla Penelope placata però Odisseo rivela di una profezia di Tiresia, dolorosa per lei e per lui, la "fatica incommensurabile, lunga e difficile": è la nuova inesorabile definitiva partenza per andare con il remo in molte città che non conoscono le navi e insegnare loro finché canuto, "per me la morte verrà fuori dal mare" (Odissea, XXIII, 264 ss.). E reterno andare che da un senso alla vita, anche se Penelope resta ad attendere nelle notti fredde, paradigma che l'ha reso famosa.
E così lanciati dai marosi sulla riva, pronti per altri lidi e altri approdi.
Carmelo Fucarino
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