Lettera-recensione dell'avvocato Luigi Ficarra a "Storia della Camera del Lavoro di Canicattì" di Salvatore Vaiana Padova 24.5.07)
Caro Salvatore,
la tua storia di Canicattì è veramente stimolante: si fa leggere con interesse e con la curiosità viva di scoprire le radici del nostro passato; e sono certo che ora che possiedi tutta la materia e ce ne hai fatto partecipi, a questa storia, conservandone la trama essenziale, ne seguirà un’altra più ampia ed ancor più sciolta. Hai intanto colmato una lacuna che c’era, passando dalle precedenti storie particolari che conoscevamo, pur interessanti, ma legate a fenomeni e periodi limitati, ad una di carattere generale.
Leggendola, ho scoperto la profonda ignoranza che avevo di periodi e fatti essenziali: a scuola mai qualcuno aveva accennato al nostro passato ed ancor meno se ne parlava nelle nostre famiglie. Poi, come sai, quando si è giovani si è portati erroneamente a pensare che la storia cominci con noi, come se ciascuno fosse causa sui.
In un suo recente scritto Raul Mordenti dice giustamente che Gramsci insegna che attorno al “senso comune” si svolge la lotta egemonica fra le classi: è egemone chi gestisce il discorso sulla storia di cui è stato partecipe anche come subalterno, ed in quel momento, prendendone coscienza, cessa di esserlo, e si dispone a rendere il proprio punto di vista “senso comune, cioè egemone. È giunto il momento - dice sempre Mordenti - che i rivoluzionari assumano il problema della costruzione del senso comune come il più decisivo dei problemi. Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare rispetto a quello del potere, almeno nei termini della capacità di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi. Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per l’autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità. È il gesto, se ci riflettiamo, meraviglioso, da cui origina ogni liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del padrone (cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il “fardello dell’uomo bianco” sia solo un racconto che serve per caricare ogni fardello sulle spalle dell’uomo nero e della donna nera; è il gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta giovanili, etc.
Il “filosofo” contadino, Salvatore Giordano, di cui Adolfo Rossi ne “L’agitazione in Sicilia”, ci ha lasciato indelebile ricordo, e da te, Salvatore, giustamente citato a p. 49 del tuo libro, aveva cominciato a prenderne coscienza, dicendo “noi abbiamo subito finora i loro patti (agrari): oggi dobbiamo cambiare. I padroni fanno i conti sui loro tavoli ed oggi noi cominciamo a farli sui nostri fasci”. … “La nostra è la causa della civiltà”.
Hai ben illustrato come il potere, sin quasi alla fine dell’800, girasse attorno alle stesse famiglie padronali, delle professioni e del latifondo, che vivevano passivamente sul sudore, la fatica ed il sangue dei contadini e degli altri subalterni, bestialmente sfruttati: i Gangitano, i La Lomia, i Lombardo, i Chiaramonte, i Bordonaro, gli Adamo, i Bartoccelli, i Testasecca, i Caramazza, imparentati di frequente fra di loro, e, per questo motivo, di sangue debole: blu, non rosso.
Emozionante è stato per me leggere per la prima volta, tratta dal manoscritto anonimo “Cronache di Canicattì, dal 1792 al 1852”, da te ampiamente citato, la storia del moto carbonaro del 1820, del sanguinoso sacco di Caltanissetta, compiuto con l’attivo concorso di esponenti delle succitate famiglie aristocratiche canicattinesi, le quali, dopo la reazione borbonica, con “vile atto”, come ben scrivi, si trassero con codardia indietro, come faranno poi anche nel 1848: lanciare il sasso e nascondere la mano. Cosi come emozionante è stato apprendere della successiva giusta reazione del popolo e della sua rivolta, una jacquerie, originata, nel novembre 1820, dall’esosità della tassa sul macinato; della repressione violenta ed assassina organizzata dalle famiglie aristocratiche col concorso dei «campieri della poliza», che credo sia stata una prima forma di mafia; della successiva conseguente reazione popolare, che portò all’incendio della casa di Filippo Caramazza a Borgalino e di altre dimore padronali, nonché alla giusta imposizione di versamenti «risarcitori» in denaro anche per le angherie subite nei secoli passati; - e, poi, della violente repressione militare.
Leggendo queste pagine del tuo libro, il mio pensiero è corso alla novella del Verga, “Libertà”, alla sceneggiatura curata da Sciascia nel film “Bronte”, ed alla storia delle sanguinose rivolte popolari di Alcara Li Fusi ed altri comuni vicini nel 1860, di cui, se ben ricordo, Consolo parla ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio”.
Nel tuo libro vengono ben evidenziate le figure del democratico Vincenzo Macaluso, che, nel dicembre 1871, fondò la prima società operaia di Canicattì, del dirigente di primo piano del movimento dei “Fasci”, Gaetano Rao, del socialista di sinistra Domenico Cigna, che ebbe come maestri Bosco Garibaldi e Nicola Barbato, del “radicale” Guarino Amella, il cui ruolo è da te ricondotto alla sua reale collocazione di classe, dei padroni delle banche, poi divenute casse della mafia, (Gangitano, Lombardo, Caramazza, Testasecca, Bordonaro, La Lomia), dei dirigenti del partito comunista a partire dal 1921, a cominciare da Pietro Guadagnino (cugino di mio padre), sino a Ferreri, Messina, Mannarà, Saccaro, poi storico dirigente della Camera del lavoro. Hai lumeggiato gli scontri di classe nel periodo che va dai “Fasci” al secondo dopoguerra, fra gli agrari, che poi aderiranno, nel 1923 all’Associazione degli Agricoltori Siciliani, (in primis Gangitano, Caramazza e Lombardo, proprietario, quest’ultimo, di oltre cinquemila ettari di terreno), ed i braccianti ed i contadini poveri organizzati nel partito socialista, nelle leghe e poi nella Camera del Lavoro.
Dalla lettura del tuo libro ho appreso anche delle manifestazioni contro la guerra svoltesi a Canicattì nel dicembre 1916 ed il 24 maggio 1917, con prevalente partecipazione femminile, e della repressione operata dalla polizia con decine di arresti.
Non hai fatto, come a mio avviso sarebbe stato opportuno, un capitolo specifico sul rapporto padronato-mafia a Canicattì, ma del problema parli diffusamente, qua e là, affondando più volte il bisturi. Ne scrivi a proposito del latifondista e banchiere Gangitano, (amico del marchese di Rudinì, quello che poi diede l’ordine al terrorista Bava Beccarsi per la strage di Milano del 1898, quello stesso che, come ricordi, si definiva “mafioso benigno”, cioè esponente della mafia dai guanti gialli, mandante di assassini, come quello, per intenderci, di Notarbartolo, che verrà eseguito nel 1893 dietro ordine del “Cigno”, luogotenente del Crispi), e ci dici che Macaluso giustamente l’attaccava come capo di “Banda armata”, colluso con la mafia. Ci ritorni, riferendo degli attacchi fatti dalla coalizione radical-riformista nel 1912 contro un altro esponente della stessa famiglia Gangitano, indicato come protettore di delinquenti e camorristi; e poi parlando dei rapporti fra la borghesia mafiosa, anche di Canicattì, e la massoneria. Ti soffermi poi, come meritava, sulla delega che il padronato agrario ed il potere politico borghese danno alla mafia, come loro braccio armato, per la repressione, con assassini mirati, dei dirigenti sindacali, socialisti e comunisti, specie nel secondo dopoguerra. Ne parli a proposito del tentato assassinio di Antonio Mannarà, segretario dell Cdl di Canicattì, nel gennaio 1947, cinque giorno dopo quello di Miraglia, compiuto a Sciacca. Parli anche tu, ben lumeggiandolo, del rapporto di amicizia fra il latifondista La Lomia e l’efferato criminale delinquente, esponente della mafia italo-americana, Salvatore Lucania, noto come Lucky Luciano, e dell’incontro fra di loro avvenuto nell’aprile del 1947. Poni un giusto rapporto fra la sacrosanta lotta per la terra, che portò anche all’occupazione temporanea, nel settembre 1947, del feudo “Gibesi Vecchio” dei Gangitano, fra le giornate di sciopero regionale del 19, 20, 21 dicembre 1947 per l’imponibile di manodopera e l’odio di classe degli agrari manifestatosi appieno nella tragica domenica del 21 dicembre a Canicattì. Nella quale, gli aristocratici, le famiglie del latifondo, fecero del loro Circolo di Compagnia, provocatoriamente dicendolo ai quattro venti, una santabarbara, pronti ad attaccare i lavoratori che, come prima accennato, erano in lotta per l’imponibile di manodopera, strumento, questo, come disse allora Pio La torre, «per il lavoro ed il progresso in agricoltura». E, citando Angelo La Vecchia, che ne parla nel libro “Canicattì, storia, tradizioni e varia umanità”, precisi che all’interno del Circolo di Compagnia vi erano, quella domenica del 21 dicembre, «esponenti della vecchia mafia impegnati a respingere ogni attacco». Riferisci, poi, dandovi il giusto peso, della presenza di agenti provocatori (mafia, neofascisti, Oss., etc.), sempre nella manifestazione popolare del 21 dicembre 1947 a Canicattì, specie e soprattutto alla luce di quanto emerso dalle profonde ricerche compiute da Casarrubea in “Storia segreta della Sicilia”, con riguardo in particolare alla strage di Portella della Ginestra il 1° maggio di quello stesso anno.
A proposito di lotta alla mafia, ho letto con interesse, nell’appendice del tuo libro, il documento diffuso dalla CdL, nel 1988, dopo l’assassinio del magistrato Saetta e di suo figlio; documento in cui si dice che “è necessario un impegno della scuola …. che sradichi .. quei connotati comportamentali di cultura mafiosa latente ma pur sempre presente, retaggio di un nostro passato che vogliamo chiudere per sempre”. Lo richiamo, perché vi ho ritrovato quanto tu giustamente scrivi nel saggio “Introduzione a didattica per un’educazione antimafia”.
Ti ringrazio della fatica compiuta nell’interesse di tutti e mi auguro che le tue ricerche vadano sempre avanti con l’intento di contribuire alla costruzione del senso comune dal punto di vista della classe lavoratrice: ce n’è tanto bisogno soprattutto oggi, in questo ormai lungo periodo di controrivoluzione, da cui dobbiamo sforzarci di uscire raffinando al massimo le armi della conoscenza.
Un abbraccio
luigi ficarra
Caro Salvatore,
la tua storia di Canicattì è veramente stimolante: si fa leggere con interesse e con la curiosità viva di scoprire le radici del nostro passato; e sono certo che ora che possiedi tutta la materia e ce ne hai fatto partecipi, a questa storia, conservandone la trama essenziale, ne seguirà un’altra più ampia ed ancor più sciolta. Hai intanto colmato una lacuna che c’era, passando dalle precedenti storie particolari che conoscevamo, pur interessanti, ma legate a fenomeni e periodi limitati, ad una di carattere generale.
Leggendola, ho scoperto la profonda ignoranza che avevo di periodi e fatti essenziali: a scuola mai qualcuno aveva accennato al nostro passato ed ancor meno se ne parlava nelle nostre famiglie. Poi, come sai, quando si è giovani si è portati erroneamente a pensare che la storia cominci con noi, come se ciascuno fosse causa sui.
In un suo recente scritto Raul Mordenti dice giustamente che Gramsci insegna che attorno al “senso comune” si svolge la lotta egemonica fra le classi: è egemone chi gestisce il discorso sulla storia di cui è stato partecipe anche come subalterno, ed in quel momento, prendendone coscienza, cessa di esserlo, e si dispone a rendere il proprio punto di vista “senso comune, cioè egemone. È giunto il momento - dice sempre Mordenti - che i rivoluzionari assumano il problema della costruzione del senso comune come il più decisivo dei problemi. Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare rispetto a quello del potere, almeno nei termini della capacità di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi. Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per l’autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità. È il gesto, se ci riflettiamo, meraviglioso, da cui origina ogni liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del padrone (cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il “fardello dell’uomo bianco” sia solo un racconto che serve per caricare ogni fardello sulle spalle dell’uomo nero e della donna nera; è il gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta giovanili, etc.
Il “filosofo” contadino, Salvatore Giordano, di cui Adolfo Rossi ne “L’agitazione in Sicilia”, ci ha lasciato indelebile ricordo, e da te, Salvatore, giustamente citato a p. 49 del tuo libro, aveva cominciato a prenderne coscienza, dicendo “noi abbiamo subito finora i loro patti (agrari): oggi dobbiamo cambiare. I padroni fanno i conti sui loro tavoli ed oggi noi cominciamo a farli sui nostri fasci”. … “La nostra è la causa della civiltà”.
Hai ben illustrato come il potere, sin quasi alla fine dell’800, girasse attorno alle stesse famiglie padronali, delle professioni e del latifondo, che vivevano passivamente sul sudore, la fatica ed il sangue dei contadini e degli altri subalterni, bestialmente sfruttati: i Gangitano, i La Lomia, i Lombardo, i Chiaramonte, i Bordonaro, gli Adamo, i Bartoccelli, i Testasecca, i Caramazza, imparentati di frequente fra di loro, e, per questo motivo, di sangue debole: blu, non rosso.
Emozionante è stato per me leggere per la prima volta, tratta dal manoscritto anonimo “Cronache di Canicattì, dal 1792 al 1852”, da te ampiamente citato, la storia del moto carbonaro del 1820, del sanguinoso sacco di Caltanissetta, compiuto con l’attivo concorso di esponenti delle succitate famiglie aristocratiche canicattinesi, le quali, dopo la reazione borbonica, con “vile atto”, come ben scrivi, si trassero con codardia indietro, come faranno poi anche nel 1848: lanciare il sasso e nascondere la mano. Cosi come emozionante è stato apprendere della successiva giusta reazione del popolo e della sua rivolta, una jacquerie, originata, nel novembre 1820, dall’esosità della tassa sul macinato; della repressione violenta ed assassina organizzata dalle famiglie aristocratiche col concorso dei «campieri della poliza», che credo sia stata una prima forma di mafia; della successiva conseguente reazione popolare, che portò all’incendio della casa di Filippo Caramazza a Borgalino e di altre dimore padronali, nonché alla giusta imposizione di versamenti «risarcitori» in denaro anche per le angherie subite nei secoli passati; - e, poi, della violente repressione militare.
Leggendo queste pagine del tuo libro, il mio pensiero è corso alla novella del Verga, “Libertà”, alla sceneggiatura curata da Sciascia nel film “Bronte”, ed alla storia delle sanguinose rivolte popolari di Alcara Li Fusi ed altri comuni vicini nel 1860, di cui, se ben ricordo, Consolo parla ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio”.
Nel tuo libro vengono ben evidenziate le figure del democratico Vincenzo Macaluso, che, nel dicembre 1871, fondò la prima società operaia di Canicattì, del dirigente di primo piano del movimento dei “Fasci”, Gaetano Rao, del socialista di sinistra Domenico Cigna, che ebbe come maestri Bosco Garibaldi e Nicola Barbato, del “radicale” Guarino Amella, il cui ruolo è da te ricondotto alla sua reale collocazione di classe, dei padroni delle banche, poi divenute casse della mafia, (Gangitano, Lombardo, Caramazza, Testasecca, Bordonaro, La Lomia), dei dirigenti del partito comunista a partire dal 1921, a cominciare da Pietro Guadagnino (cugino di mio padre), sino a Ferreri, Messina, Mannarà, Saccaro, poi storico dirigente della Camera del lavoro. Hai lumeggiato gli scontri di classe nel periodo che va dai “Fasci” al secondo dopoguerra, fra gli agrari, che poi aderiranno, nel 1923 all’Associazione degli Agricoltori Siciliani, (in primis Gangitano, Caramazza e Lombardo, proprietario, quest’ultimo, di oltre cinquemila ettari di terreno), ed i braccianti ed i contadini poveri organizzati nel partito socialista, nelle leghe e poi nella Camera del Lavoro.
Dalla lettura del tuo libro ho appreso anche delle manifestazioni contro la guerra svoltesi a Canicattì nel dicembre 1916 ed il 24 maggio 1917, con prevalente partecipazione femminile, e della repressione operata dalla polizia con decine di arresti.
Non hai fatto, come a mio avviso sarebbe stato opportuno, un capitolo specifico sul rapporto padronato-mafia a Canicattì, ma del problema parli diffusamente, qua e là, affondando più volte il bisturi. Ne scrivi a proposito del latifondista e banchiere Gangitano, (amico del marchese di Rudinì, quello che poi diede l’ordine al terrorista Bava Beccarsi per la strage di Milano del 1898, quello stesso che, come ricordi, si definiva “mafioso benigno”, cioè esponente della mafia dai guanti gialli, mandante di assassini, come quello, per intenderci, di Notarbartolo, che verrà eseguito nel 1893 dietro ordine del “Cigno”, luogotenente del Crispi), e ci dici che Macaluso giustamente l’attaccava come capo di “Banda armata”, colluso con la mafia. Ci ritorni, riferendo degli attacchi fatti dalla coalizione radical-riformista nel 1912 contro un altro esponente della stessa famiglia Gangitano, indicato come protettore di delinquenti e camorristi; e poi parlando dei rapporti fra la borghesia mafiosa, anche di Canicattì, e la massoneria. Ti soffermi poi, come meritava, sulla delega che il padronato agrario ed il potere politico borghese danno alla mafia, come loro braccio armato, per la repressione, con assassini mirati, dei dirigenti sindacali, socialisti e comunisti, specie nel secondo dopoguerra. Ne parli a proposito del tentato assassinio di Antonio Mannarà, segretario dell Cdl di Canicattì, nel gennaio 1947, cinque giorno dopo quello di Miraglia, compiuto a Sciacca. Parli anche tu, ben lumeggiandolo, del rapporto di amicizia fra il latifondista La Lomia e l’efferato criminale delinquente, esponente della mafia italo-americana, Salvatore Lucania, noto come Lucky Luciano, e dell’incontro fra di loro avvenuto nell’aprile del 1947. Poni un giusto rapporto fra la sacrosanta lotta per la terra, che portò anche all’occupazione temporanea, nel settembre 1947, del feudo “Gibesi Vecchio” dei Gangitano, fra le giornate di sciopero regionale del 19, 20, 21 dicembre 1947 per l’imponibile di manodopera e l’odio di classe degli agrari manifestatosi appieno nella tragica domenica del 21 dicembre a Canicattì. Nella quale, gli aristocratici, le famiglie del latifondo, fecero del loro Circolo di Compagnia, provocatoriamente dicendolo ai quattro venti, una santabarbara, pronti ad attaccare i lavoratori che, come prima accennato, erano in lotta per l’imponibile di manodopera, strumento, questo, come disse allora Pio La torre, «per il lavoro ed il progresso in agricoltura». E, citando Angelo La Vecchia, che ne parla nel libro “Canicattì, storia, tradizioni e varia umanità”, precisi che all’interno del Circolo di Compagnia vi erano, quella domenica del 21 dicembre, «esponenti della vecchia mafia impegnati a respingere ogni attacco». Riferisci, poi, dandovi il giusto peso, della presenza di agenti provocatori (mafia, neofascisti, Oss., etc.), sempre nella manifestazione popolare del 21 dicembre 1947 a Canicattì, specie e soprattutto alla luce di quanto emerso dalle profonde ricerche compiute da Casarrubea in “Storia segreta della Sicilia”, con riguardo in particolare alla strage di Portella della Ginestra il 1° maggio di quello stesso anno.
A proposito di lotta alla mafia, ho letto con interesse, nell’appendice del tuo libro, il documento diffuso dalla CdL, nel 1988, dopo l’assassinio del magistrato Saetta e di suo figlio; documento in cui si dice che “è necessario un impegno della scuola …. che sradichi .. quei connotati comportamentali di cultura mafiosa latente ma pur sempre presente, retaggio di un nostro passato che vogliamo chiudere per sempre”. Lo richiamo, perché vi ho ritrovato quanto tu giustamente scrivi nel saggio “Introduzione a didattica per un’educazione antimafia”.
Ti ringrazio della fatica compiuta nell’interesse di tutti e mi auguro che le tue ricerche vadano sempre avanti con l’intento di contribuire alla costruzione del senso comune dal punto di vista della classe lavoratrice: ce n’è tanto bisogno soprattutto oggi, in questo ormai lungo periodo di controrivoluzione, da cui dobbiamo sforzarci di uscire raffinando al massimo le armi della conoscenza.
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luigi ficarra
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