Scrivo per i più giovani questa breve memoria sull’esperienza politica fatta a Canicattì, nelle file del movimento operaio, nel periodo compreso fra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60.
La maggioranza della sezione del PSI, in cui militavo, era allora di sinistra ed all’interno di questa prevaleva la tendenza facente capo a Lelio Basso, uno dei principali conoscitori in Italia del pensiero della Luxemburg, che ebbi la fortuna di conoscere subito, giovanissimo, e che fu uno dei padri della Costituzione: sua in particolare è la formulazione dell’art. 3 Cost., cardine del nostro ordinamento democratico. - Pasquale Gazzara, uno dei socialisti più anziani, che poi nel luglio ’61 verrà eletto sindaco, era autonomista – della corrente di Nenni - e la sua formazione era quella propria dei vecchi socialisti riformisti. La maggioranza degli iscritti era costituita da operai edili, salariati agricoli e disoccupati. Per un certo periodo segretario della sezione fu il compagno Paolo Candido.
Fummo noi, socialisti di sinistra, ad organizzare per la prima volta a Canicattì, nel ’59, una conferenza sulla Resistenza, nella quale ricordo intervenne Pietro Ancona. E fummo sempre noi a dar vita, assieme alla sezione del PCI, al grande sciopero politico nazionale dell’8 luglio 1960 contro il governo Tambroni, sostenuto apertamente dalla destra fascista. Ricordo benissimo di aver passato in piedi, assieme a mio fratello Angelo, l’intera notte fra il 7 e l’8 luglio, e di essere andato con lui ad avvisare i compagni dirigenti del tempo: Lillo Ferreri, segretario del PCI, Antonio Saccaro, segretario della Camera del Lavoro, Gazzara ed altri, della indizione, da parte della CGIL nazionale, dello sciopero politico generale dopo i gravissimi fatti di Genova.
Alcuni giorni prima, il 5 luglio, ero andato a Licata, in occasione di uno sciopero di “protesta” proclamato da un comitato cittadino unitario, e alla stazione ferroviaria, dove era stato fatto un blocco simbolico dei treni, vidi morire al mio fianco un giovane operaio colpito dal fuoco della polizia. Il giorno dopo la sezione del PSI di Canicattì fece stampare ed affiggere un manifesto di dura condanna politica dell’accaduto, manifesto che sollevò, ovviamente, le critiche dei “benpensanti” e dei “galantuomini”, delle quali in particolare ricordo quelle acide di un sacerdote, di cui non mi sovviene il nome, che passava le giornate giocando a carte presso il circolo dei “negozianti e dei professionisti”.
L’esperienza fatta come assessore alle finanze
A Canicattì la situazione, compiute le debite differenze, era analoga a quella esistente a Bronte cento anni prima, dove “i primari del paese, e specialmente i decurioni, possessori di gran vigneti e possessioni si trovavano tassati per pochi baiocchi”, mentre un modesto lavoratore veniva “tassato per once due e tarì quindici” (Sciascia, “Verga e la libertà”, introduzione alle “Novelle”).
Primo degli eletti del PSI nelle elezioni comunali dell’autunno 1960, entrai a far parte della giunta unitaria di sinistra, che si reggeva sull’accordo di comunisti e socialisti con il gruppo “milazziano” dell’U.S.C.S., i cristiano- sociali, facenti capo all’on. Signorino, e sul voto determinante dell’unico eletto di una lista locale degli “agricoltori”, detta “Tre spighe”, dr. Ignazio Caramazza.
Nominato assessore alle finanze, mi sobbarcai con grande impegno al nuovo lavoro politico, dedicandovi parecchie ore al giorno; e ricevetti delle indicazioni e dei consigli molto utili da un funzionario dirigente del Comune, ragioniere Ferrante, che ricordo con umana simpatia e sincera riconoscenza. Le guardie comunali svolsero con interesse e partecipazione un serio lavoro di accertamento sulla situazione dei singoli contribuenti, che credo mai prima fosse stato loro richiesto di compiere con tale intensità. Venne fuori un quadro che riproduceva la situazione dei rapporti di classe allora esistenti, che vedeva dominanti: il ceto proprietario degli agrari, i cosiddetti “burgisi”, i commercianti, molto forti e presenti nel tessuto cittadino, i professionisti, che per lo più si ritrovavano nel circolo dei “negozianti”, e gli artigiani più affermati. I quali tutti pagavano tributi simbolici o non risultavano addirittura iscritti nel ruolo. Si organizzarono in un comitato contro gli accertamenti da me promossi, e mi chiamavano con l’appellativo di Robespierre. Ovviamente, tale resistenza ci spinse ad accentuare il nostro impegno: mio di assessore e dei compagni della sezione, uniti nella comune battaglia intrapresa, di serio riformismo, per l’affermazione, nei limiti del possibile, del principio costituzionale di “progressività” delle imposte ed anche per contribuire a creare una moderna coscienza civica. Era, ripeto, una battaglia riformista, ma in quella situazione di arretratezza e di forte predominio dei ceti agrario-borghesi, appariva come rivoluzionaria e per alcuni addirittura come eversiva. Il nostro riferimento ideale era la lotta iniziata dai lavoratori a partire dal grande movimento dei “fasci siciliani”, che aveva avuto a Canicattì radici molto profonde, e molto vivo era il nostro rapporto col lascito politico-culturale delle lotte bracciantili e contadine sviluppatesi sempre a Canicattì nel secondo dopoguerra.
Percepimmo dei “mugugni” da parte di qualche dirigente del PCI di allora, specie di Cicio Cigna, che aveva un’impresa edile di discrete dimensioni e molti amici nell’ambiente del ceto medio. (Ricordo en passant che, purtroppo, nella locale Camera del Lavoro, diretta allora da Antonio Saccaro, debolissimo, anzi quasi inesistente era il sindacato dei lavoratori dell’edilizia). Quando in una riunione di giunta annunciai che il Dr. Caramazza, il più grosso e comunque indubbiamente uno dei più forti agrari capitalisti del paese, proprietario pure di un’importante banca locale, doveva essere iscritto nel ruolo dei contribuenti, dove neppure figurava, e dare da buon cittadino, in proporzione alle sue non magre sostanze, il giusto contributo alle finanze del Comune, l’opposizione di Cicio Cigna e del PCI fu netta e decisa. Senza entrare nel merito delle scelte fatte, sollevarono delle critiche generiche sulla linea seguita dall’assessorato alle finanze, che - dicevano - avrebbe alienato le simpatie (?) del ceto medio borghese; e, comunque, più volte nelle riunioni di giunta affermarono che Caramazza non bisognava “toccarlo”, perché col suo voto assicurava la maggioranza. La risposta mia e della sezione del PSI fu altrettanto netta sul piano politico: dicemmo che se avessimo operato nel modo da essi indicato avremmo sanzionato una continuità col passato, ed i lavoratori non avrebbero colto alcuna differenza, se non di facciata, rispetto alle precedenti amministrazioni. Decidemmo giustamente, quindi, di informare i lavoratori delle scelte da noi operate, invitando ad un pubblico comizio in piazza IV Novembre tutti i cittadini che avevano votato per la sinistra. Ricordo che quando lessi in piazza i nomi di alcuni contribuenti molto noti per le loro ricchezze, ma solo appena sfiorati - dissi - dalla imposizione fiscale, e dissi poi che Caramazza non risultava neppure iscritto nel ruolo, chiedendo se lo ritenevano giusto, si levarono ripetute e forti grida di protesta, specie da parte dei braccianti, cosiddetti “iurnatari”, che ben conoscevano i “signori” agrari di Canicattì. Il messaggio datoci dai lavoratori fu chiaro ed inequivoco: andate avanti, sino in fondo, nelle scelte fatte.
Il PCI tentò in un primo tempo di esercitare su di me una pressione esterna. Vennero a parlarmi, per convincermi della giustezza dei “consigli” di Cicio Cigna e degli altri dirigenti comunisti di Canicattì, l’on. Di Benedetto di Raffadali, Michelangelo Russo, allora segretario della Federazione del PCI di Agrigento, ed altri di cui ora non ricordo il nome. Io, pur con la chiara coscienza del limite e col rispetto dovuto, per la loro storia, a dirigenti come il compagno Di Benedetto, difesi, ritenendole giuste, le scelte fatte d’accordo con la sezione del PSI, e riassunsi la nostra posizione dicendo che era sì molto importante gestire l’amministrazione comunale, ma per segnare una rottura in senso democratico e progressista, un mutamento concreto nelle scelte rispetto al passato, non per continuare come prima. Nel piccolo della nostra esperienza si scontravano due posizioni: da un lato quella del PCI di allora, che si era inverata anche nell’esperienza “Milazzo”, per cui “essenziale” era in ogni caso partecipare anche alla sola mera gestione del “potere”; e dall’altro quella difesa dalla sinistra socialista, e che ritrovo nel PRC di oggi; posizione, quest’ultima, che ritiene essenziale il rapporto continuo con i lavoratori e la capacità di incidere seriamente e veramente nella realtà per modificare i rapporti di classe.
La sezione del PCI cercò di indurre anche Pasquale Gazzara ad esercitare una certa pressione su di me, ma inutilmente, perché egli aveva accettato sì di capeggiare una giunta con l’appoggio dell’unico eletto della lista degli agricoltori e dei “cristiano sociali”, ma rimaneva sostanzialmente critico, come tutti noi, dell’esperienza “milazziana”, non condividendo soprattutto l’alleanza stabilita dal PCI a livello regionale con la destra anche estrema. E poi il compagno Gazzara aveva ben presente la posizione ferma ed intransigente che anche in altre situazioni avevo manifestato. Specie quando il mafioso Genco Russo, chiedendo, nell’estate del ’61, di avere un colloquio con lui, dopo la sua elezione a Sindaco, si trovò a parlare essenzialmente con me nell’incontro che avvenne fuori, proprio davanti al cinema teatro “Sociale”. Genco Russo, col suo mezzo sigaro toscano in bocca, era accompagnato da due ingegneri, all’apparenza napoletani, che ci presentò con questo discorso: “vi chiedo <> di decidere come amministrazione per l’elettrificazione delle zone rurali vicine al paese; mi occuperò io di tutte le pratiche per i finanziamenti, intervenendo personalmente anche presso la Cassa per il mezzogiorno; e poi voi, <>, darete l’incarico per i progetti ed i lavori da farsi a questi miei due amici”. Gli dissi immediatamente in modo asciutto e fermo che di queste questioni avremmo deciso in assoluta autonomia noi come amministrazione, senza alcuna interferenza esterna. Capì che non aveva senso insistere, ci salutò “cortesemente” e se ne andò con i suoi due amici.
Prima di parlare del tentativo fatto per coinvolgere il PSI provinciale nella battaglia portata avanti dai socialisti di Canicattì, debbo fare un passo indietro. Come dirigente dell’UGI (Unione Goliardica Italiana) di Palermo e poi come Segretario responsabile della stessa associazione, in cui erano presenti tutti gli universitari di orientamento progressista della Sicilia occidentale (comunisti, socialisti, cattolici democratici e liberali di sinistra), svolsi allora un’intensa attività nell’ateneo e nell’organismo rappresentativo degli studenti. Curai la pubblicazione di un interessante numero di “Università Democratica” ed in quella occasione entrai in contatto con i dirigenti regionali della CGIL. Fu così che conobbi Pio La Torre, che mi chiamò poi a lavorare all’ufficio studi economici della segreteria regionale, da lui allora diretta. La mia attività come dirigente dell’UGI si dispiegò in modo capillare pure in tutta la provincia di Agrigento ed in altre città della Sicilia occidentale. Gobbetti e Gramsci costituivano il nostro fermo riferimento ideale, politico e culturale.
Tutta questa esperienza la trasfusi nel mio impegno nel PSI, cui avevo aderito nel 1959, subito dopo il congresso di Napoli, che avevo seguito per intero recandomi da solo nella città partenopea. E poco dopo entrai a far parte, ad Agrigento, del Direttivo provinciale del Partito.
Come esponente della sinistra svolsi un’intensa attività politica in tutta la provincia, specie nei centri di Licata, Sciacca, Ribera, Favara, Castrofilippo, Campobello, Naro, Palma di Montechiaro, Portoempedocle, Agrigento, riuscendo in poco tempo a portare la componente “bassiana” e di sinistra da circa lo 0, 2% ad oltre il 3-4%, e credo anche più. In una riunione del direttivo provinciale posi con forza il “caso” Canicattì, sottolineando che la scelta del PCI, di tentare di bloccare la politica “riformista” della locale sezione del PSI e quindi l’operato dell’assessorato alle finanze, era espressione di una linea arretrata e sbagliata, interna a quella già svolta a livello regionale nella nefasta esperienza del milazzismo. Accadde proprio in quella occasione un fatto politico rilevante e chiarificatore. La componente “autonomista”, largamente maggioritaria e facente capo a Salvatore Lauricella, che criticava l’esperienza del milazzismo, ma da posizioni moderate, tese a realizzare allora l’alleanza con la D.C., decise di non appoggiare la richiesta, da me avanzata, di sostegno da parte della federazione delle scelte operate dalla sezione socialista di Canicattì: non condivideva ovviamente dette scelte di sinistra radicale e non le avrebbe in alcun caso sostenute, ché non aveva interesse ad una vittoriosa affermazione della nostra posizione politica. E compì la sua scelta arretrata, di destra, anche con interne contraddizioni: infatti alcuni suoi esponenti, allora “lombardiani”, Pietro Ancona e Fausto D’Alessandro, presero una posizione favorevole alla richiesta da me sostenuta. Ermogene La Floresta, invece, membro del direttivo provinciale quale unico rappresentante della corrente della sinistra “vecchettiana” - chiamata carrista per l’errata posizione assunta durante e dopo la rivoluzione ungherese del ‘56 -, votò in quella riunione del direttivo contro la mia proposta, unendo il suo voto a quello della destra “lauricelliana”. La cosa nell’immediato mi apparve molto strana, ché mi sarei aspettato un voto favorevole da parte sua. Capii dopo che quella era al contrario una scelta coerente con la sua formazione politica, di tipo moderato, e rispettosa in particolare, come poi appresi, di un accordo allora esistente a livello regionale fra la destra autonomista di Salvatore Lauricella e la sinistra di Vincenzo Gatto, per il non intervento nelle zone di rispettiva influenza: che è quanto di più lontano dagli interessi dei lavoratori e dal rigoroso rispetto della dialettica democratica si potesse e si possa ancora oggi concepire.
Il PSI agrigentino dei Lauricella, dei Reina, dei Di Caro, largamente assente, e non a caso, allora ed anche dopo, nella lotta contro la delinquenza mafiosa, manifestò in quell’occasione il suo vero volto, contribuendo ad affossare, se non l’unica, certamente una delle più serie e significative esperienze di tipo riformista maturate in ambito provinciale: quella della sezione socialista di Canicattì. Infatti, poco dopo, appreso che la federazione provinciale del PSI, compreso il rappresentante della sinistra vecchettiana, non aveva appoggiato le nostre scelte, i dirigenti della sezione del PCI di Canicattì, visto il nostro isolamento, condussero in porto una subdola operazione di aggiramento da destra nei nostri confronti: contattarono molti vecchi compagni socialisti, per lo più artigiani e medio commercianti, da tempo allontanatisi dalla politica attiva, e li indussero ad iscriversi nuovamente al PSI. Cosa che essi fecero, aderendo ovviamente, anche per la loro posizione sociale, alla corrente della destra “lauricelliana”. Conseguentemente a tale “organizzato” afflusso di compagni “autonomisti”, ed anche all’iscrizione di persone persino ignare della loro adesione, furono rovesciati i rapporti di forza all’interno della sezione socialista, che si trovò a passare, nel giro di pochissimo tempo, in mano alla destra. Contestualmente a tale operazione, politici di basso livello, purtroppo interni allo schieramento di sinistra di allora, si prodigarono a diffondere accuse calunniose nei miei confronti, arrivando anche a dire in giro che se mi battevo con energia perché anche Caramazza pagasse le tasse, lo facevo al solo fine di farlo allontanare dalla maggioranza, che si reggeva sul suo voto, e riconsegnare, quindi, il Comune alla D.C. Dalla quale, osarono persino dire senza tema del ridicolo, io dovevo aver pure ricevuto dei soldi: manifestarono in tal modo non solo viltà e bassezza d’animo, ma anche totale malafede politica e culturale ed una buona dose di stupidità, essendo in primo luogo a tutti nota la mia posizione politica di sinistra radicale, per la quale, come ho già detto, non a caso gli avversari mi chiamavano con l’appellativo di Robespierre, ed essendo in secondo luogo impossibile la realizzazione per la DC di quanto essi dicevano, perché assieme alla destra raggiungeva solo 19 consiglieri: pertanto, sarebbe stato necessario andare a nuove elezioni
Isolato in giunta e con la maggioranza della sezione del PSI passata in mano alla destra e quindi contraria alle scelte prima operate, nell’estate del 1962, dopo accesi contrasti, democraticamente rassegnai le dimissioni da consigliere, prendendo atto con freddo realismo della mutata situazione politica. Ricordo che l’operazione di “normalizzazione” ebbe come immediata conseguenza l’abbandono delle scelte avanzate che la sezione del PSI, prima a maggioranza di sinistra e prevalentemente bassiana, aveva maturato. Ricordo anche un fatto molto significativo: che vicino alle posizioni del Consigliere Caramazza, - cui si era voluto, ma non potuto, causa le suddette opposizioni, far pagare le tasse -, venne a trovarsi in Comune, facendo parte dell’affine movimento dell’U.S.C.S., Pietro Di Caro, uomo di mafia, fratello del mafioso Giuseppe Di Caro, affiliato all’organizzazione delle “famiglie” Ferro e Guarnirei.
Il PCI locale e provinciale, che aveva operato a Canicattì nel modo che ho sopra descritto a causa della sua arretrata e sbagliata posizione politica, era stato altresì miope nelle sue scelte dal punto di vista tattico, per esso peraltro essenziale, ché aveva alla fine “lavorato per il re di Prussica”. Infatti, i nuovi dirigenti di destra della sezione del PSI, quale, ad esempio, Tano Caico, un commerciante di generi alimentari, saranno poi gli artefici dell’alleanza con la DC e dell’isolamento del PCI, e verranno quindi “premiati” con importanti incarichi paragovernativi, quale la direzione dello IACP provinciale, che fecero la loro fortuna. Essi, poi, mediante l’elargizione di posti, all’uno di bidello, ad un altro di impiegato di banca, ad un altro ancora di impiegato comunale, “determinarono” il passaggio sulle posizioni della destra c.d. autonomista di compagni socialisti prima di sinistra. Sorretti ed in piena sintonia con la direzione provinciale del PSI, svolsero in tal modo opera di grave e nefasta corruzione politica e morale, e di profonda diseducazione civica in una situazione che era allora di cronica disoccupazione.
Riflettendo su tutta questa esperienza, il mio pensiero, anche per le profonde, impressionanti analogie che vi sono, va al Candido di Sciascia, la cui rilettura è sempre utile anche per ricordarci che solo l’eretico, come egli amava ripetere, è un uomo libero.
Il mio augurio è che la nuova generazione di militanti di sinistra fondi la sua azione rivoluzionaria avendo viva la memoria storica del passato. E’ necessario, quindi, avere una conoscenza approfondita della storia politica e sociale di Canicattì relativa almeno al periodo che va dal grande movimento di massa dei Fasci Siciliani del 1892-94, che vi fu molto forte, sino alle lotte bracciantili e contadine del ’43-47. E’ essenziale, poi, per fondare su una profonda e matura consapevolezza la lotta contro la mafia, studiare e conoscere i comportamenti del clero sul fenomeno ed in particolare i rapporti del ceto proprietario e borghese e dei partiti politici canicattinesi e dei loro singoli dirigenti con la delinquenza della mafia, che tuttora è molto forte e presente - ben due magistrati sono stati da essa assassinati, Saitta e Livatino - ed interviene apertamente e con forza, come le recenti esperienze locali provinciali e regionali hanno riconfermato, anche a livello politico (emblematico è al riguardo il caso Lo Giudice). Infatti, se è vero che la mafia si combatte con un’energica azione di repressione giudiziaria - vedi la brillante operazione “alta mafia” che ha avuto il suo epicentro a Canicattì -è però indispensabile, per poter sconfiggere il fenomeno, che vi sia un coinvolgimento politico popolare di massa anche a livello delle coscienze, sì da operare una vera e propria rivoluzione culturale.
Padova 25.11. 2004
La maggioranza della sezione del PSI, in cui militavo, era allora di sinistra ed all’interno di questa prevaleva la tendenza facente capo a Lelio Basso, uno dei principali conoscitori in Italia del pensiero della Luxemburg, che ebbi la fortuna di conoscere subito, giovanissimo, e che fu uno dei padri della Costituzione: sua in particolare è la formulazione dell’art. 3 Cost., cardine del nostro ordinamento democratico. - Pasquale Gazzara, uno dei socialisti più anziani, che poi nel luglio ’61 verrà eletto sindaco, era autonomista – della corrente di Nenni - e la sua formazione era quella propria dei vecchi socialisti riformisti. La maggioranza degli iscritti era costituita da operai edili, salariati agricoli e disoccupati. Per un certo periodo segretario della sezione fu il compagno Paolo Candido.
Fummo noi, socialisti di sinistra, ad organizzare per la prima volta a Canicattì, nel ’59, una conferenza sulla Resistenza, nella quale ricordo intervenne Pietro Ancona. E fummo sempre noi a dar vita, assieme alla sezione del PCI, al grande sciopero politico nazionale dell’8 luglio 1960 contro il governo Tambroni, sostenuto apertamente dalla destra fascista. Ricordo benissimo di aver passato in piedi, assieme a mio fratello Angelo, l’intera notte fra il 7 e l’8 luglio, e di essere andato con lui ad avvisare i compagni dirigenti del tempo: Lillo Ferreri, segretario del PCI, Antonio Saccaro, segretario della Camera del Lavoro, Gazzara ed altri, della indizione, da parte della CGIL nazionale, dello sciopero politico generale dopo i gravissimi fatti di Genova.
Alcuni giorni prima, il 5 luglio, ero andato a Licata, in occasione di uno sciopero di “protesta” proclamato da un comitato cittadino unitario, e alla stazione ferroviaria, dove era stato fatto un blocco simbolico dei treni, vidi morire al mio fianco un giovane operaio colpito dal fuoco della polizia. Il giorno dopo la sezione del PSI di Canicattì fece stampare ed affiggere un manifesto di dura condanna politica dell’accaduto, manifesto che sollevò, ovviamente, le critiche dei “benpensanti” e dei “galantuomini”, delle quali in particolare ricordo quelle acide di un sacerdote, di cui non mi sovviene il nome, che passava le giornate giocando a carte presso il circolo dei “negozianti e dei professionisti”.
L’esperienza fatta come assessore alle finanze
A Canicattì la situazione, compiute le debite differenze, era analoga a quella esistente a Bronte cento anni prima, dove “i primari del paese, e specialmente i decurioni, possessori di gran vigneti e possessioni si trovavano tassati per pochi baiocchi”, mentre un modesto lavoratore veniva “tassato per once due e tarì quindici” (Sciascia, “Verga e la libertà”, introduzione alle “Novelle”).
Primo degli eletti del PSI nelle elezioni comunali dell’autunno 1960, entrai a far parte della giunta unitaria di sinistra, che si reggeva sull’accordo di comunisti e socialisti con il gruppo “milazziano” dell’U.S.C.S., i cristiano- sociali, facenti capo all’on. Signorino, e sul voto determinante dell’unico eletto di una lista locale degli “agricoltori”, detta “Tre spighe”, dr. Ignazio Caramazza.
Nominato assessore alle finanze, mi sobbarcai con grande impegno al nuovo lavoro politico, dedicandovi parecchie ore al giorno; e ricevetti delle indicazioni e dei consigli molto utili da un funzionario dirigente del Comune, ragioniere Ferrante, che ricordo con umana simpatia e sincera riconoscenza. Le guardie comunali svolsero con interesse e partecipazione un serio lavoro di accertamento sulla situazione dei singoli contribuenti, che credo mai prima fosse stato loro richiesto di compiere con tale intensità. Venne fuori un quadro che riproduceva la situazione dei rapporti di classe allora esistenti, che vedeva dominanti: il ceto proprietario degli agrari, i cosiddetti “burgisi”, i commercianti, molto forti e presenti nel tessuto cittadino, i professionisti, che per lo più si ritrovavano nel circolo dei “negozianti”, e gli artigiani più affermati. I quali tutti pagavano tributi simbolici o non risultavano addirittura iscritti nel ruolo. Si organizzarono in un comitato contro gli accertamenti da me promossi, e mi chiamavano con l’appellativo di Robespierre. Ovviamente, tale resistenza ci spinse ad accentuare il nostro impegno: mio di assessore e dei compagni della sezione, uniti nella comune battaglia intrapresa, di serio riformismo, per l’affermazione, nei limiti del possibile, del principio costituzionale di “progressività” delle imposte ed anche per contribuire a creare una moderna coscienza civica. Era, ripeto, una battaglia riformista, ma in quella situazione di arretratezza e di forte predominio dei ceti agrario-borghesi, appariva come rivoluzionaria e per alcuni addirittura come eversiva. Il nostro riferimento ideale era la lotta iniziata dai lavoratori a partire dal grande movimento dei “fasci siciliani”, che aveva avuto a Canicattì radici molto profonde, e molto vivo era il nostro rapporto col lascito politico-culturale delle lotte bracciantili e contadine sviluppatesi sempre a Canicattì nel secondo dopoguerra.
Percepimmo dei “mugugni” da parte di qualche dirigente del PCI di allora, specie di Cicio Cigna, che aveva un’impresa edile di discrete dimensioni e molti amici nell’ambiente del ceto medio. (Ricordo en passant che, purtroppo, nella locale Camera del Lavoro, diretta allora da Antonio Saccaro, debolissimo, anzi quasi inesistente era il sindacato dei lavoratori dell’edilizia). Quando in una riunione di giunta annunciai che il Dr. Caramazza, il più grosso e comunque indubbiamente uno dei più forti agrari capitalisti del paese, proprietario pure di un’importante banca locale, doveva essere iscritto nel ruolo dei contribuenti, dove neppure figurava, e dare da buon cittadino, in proporzione alle sue non magre sostanze, il giusto contributo alle finanze del Comune, l’opposizione di Cicio Cigna e del PCI fu netta e decisa. Senza entrare nel merito delle scelte fatte, sollevarono delle critiche generiche sulla linea seguita dall’assessorato alle finanze, che - dicevano - avrebbe alienato le simpatie (?) del ceto medio borghese; e, comunque, più volte nelle riunioni di giunta affermarono che Caramazza non bisognava “toccarlo”, perché col suo voto assicurava la maggioranza. La risposta mia e della sezione del PSI fu altrettanto netta sul piano politico: dicemmo che se avessimo operato nel modo da essi indicato avremmo sanzionato una continuità col passato, ed i lavoratori non avrebbero colto alcuna differenza, se non di facciata, rispetto alle precedenti amministrazioni. Decidemmo giustamente, quindi, di informare i lavoratori delle scelte da noi operate, invitando ad un pubblico comizio in piazza IV Novembre tutti i cittadini che avevano votato per la sinistra. Ricordo che quando lessi in piazza i nomi di alcuni contribuenti molto noti per le loro ricchezze, ma solo appena sfiorati - dissi - dalla imposizione fiscale, e dissi poi che Caramazza non risultava neppure iscritto nel ruolo, chiedendo se lo ritenevano giusto, si levarono ripetute e forti grida di protesta, specie da parte dei braccianti, cosiddetti “iurnatari”, che ben conoscevano i “signori” agrari di Canicattì. Il messaggio datoci dai lavoratori fu chiaro ed inequivoco: andate avanti, sino in fondo, nelle scelte fatte.
Il PCI tentò in un primo tempo di esercitare su di me una pressione esterna. Vennero a parlarmi, per convincermi della giustezza dei “consigli” di Cicio Cigna e degli altri dirigenti comunisti di Canicattì, l’on. Di Benedetto di Raffadali, Michelangelo Russo, allora segretario della Federazione del PCI di Agrigento, ed altri di cui ora non ricordo il nome. Io, pur con la chiara coscienza del limite e col rispetto dovuto, per la loro storia, a dirigenti come il compagno Di Benedetto, difesi, ritenendole giuste, le scelte fatte d’accordo con la sezione del PSI, e riassunsi la nostra posizione dicendo che era sì molto importante gestire l’amministrazione comunale, ma per segnare una rottura in senso democratico e progressista, un mutamento concreto nelle scelte rispetto al passato, non per continuare come prima. Nel piccolo della nostra esperienza si scontravano due posizioni: da un lato quella del PCI di allora, che si era inverata anche nell’esperienza “Milazzo”, per cui “essenziale” era in ogni caso partecipare anche alla sola mera gestione del “potere”; e dall’altro quella difesa dalla sinistra socialista, e che ritrovo nel PRC di oggi; posizione, quest’ultima, che ritiene essenziale il rapporto continuo con i lavoratori e la capacità di incidere seriamente e veramente nella realtà per modificare i rapporti di classe.
La sezione del PCI cercò di indurre anche Pasquale Gazzara ad esercitare una certa pressione su di me, ma inutilmente, perché egli aveva accettato sì di capeggiare una giunta con l’appoggio dell’unico eletto della lista degli agricoltori e dei “cristiano sociali”, ma rimaneva sostanzialmente critico, come tutti noi, dell’esperienza “milazziana”, non condividendo soprattutto l’alleanza stabilita dal PCI a livello regionale con la destra anche estrema. E poi il compagno Gazzara aveva ben presente la posizione ferma ed intransigente che anche in altre situazioni avevo manifestato. Specie quando il mafioso Genco Russo, chiedendo, nell’estate del ’61, di avere un colloquio con lui, dopo la sua elezione a Sindaco, si trovò a parlare essenzialmente con me nell’incontro che avvenne fuori, proprio davanti al cinema teatro “Sociale”. Genco Russo, col suo mezzo sigaro toscano in bocca, era accompagnato da due ingegneri, all’apparenza napoletani, che ci presentò con questo discorso: “vi chiedo <
Prima di parlare del tentativo fatto per coinvolgere il PSI provinciale nella battaglia portata avanti dai socialisti di Canicattì, debbo fare un passo indietro. Come dirigente dell’UGI (Unione Goliardica Italiana) di Palermo e poi come Segretario responsabile della stessa associazione, in cui erano presenti tutti gli universitari di orientamento progressista della Sicilia occidentale (comunisti, socialisti, cattolici democratici e liberali di sinistra), svolsi allora un’intensa attività nell’ateneo e nell’organismo rappresentativo degli studenti. Curai la pubblicazione di un interessante numero di “Università Democratica” ed in quella occasione entrai in contatto con i dirigenti regionali della CGIL. Fu così che conobbi Pio La Torre, che mi chiamò poi a lavorare all’ufficio studi economici della segreteria regionale, da lui allora diretta. La mia attività come dirigente dell’UGI si dispiegò in modo capillare pure in tutta la provincia di Agrigento ed in altre città della Sicilia occidentale. Gobbetti e Gramsci costituivano il nostro fermo riferimento ideale, politico e culturale.
Tutta questa esperienza la trasfusi nel mio impegno nel PSI, cui avevo aderito nel 1959, subito dopo il congresso di Napoli, che avevo seguito per intero recandomi da solo nella città partenopea. E poco dopo entrai a far parte, ad Agrigento, del Direttivo provinciale del Partito.
Come esponente della sinistra svolsi un’intensa attività politica in tutta la provincia, specie nei centri di Licata, Sciacca, Ribera, Favara, Castrofilippo, Campobello, Naro, Palma di Montechiaro, Portoempedocle, Agrigento, riuscendo in poco tempo a portare la componente “bassiana” e di sinistra da circa lo 0, 2% ad oltre il 3-4%, e credo anche più. In una riunione del direttivo provinciale posi con forza il “caso” Canicattì, sottolineando che la scelta del PCI, di tentare di bloccare la politica “riformista” della locale sezione del PSI e quindi l’operato dell’assessorato alle finanze, era espressione di una linea arretrata e sbagliata, interna a quella già svolta a livello regionale nella nefasta esperienza del milazzismo. Accadde proprio in quella occasione un fatto politico rilevante e chiarificatore. La componente “autonomista”, largamente maggioritaria e facente capo a Salvatore Lauricella, che criticava l’esperienza del milazzismo, ma da posizioni moderate, tese a realizzare allora l’alleanza con la D.C., decise di non appoggiare la richiesta, da me avanzata, di sostegno da parte della federazione delle scelte operate dalla sezione socialista di Canicattì: non condivideva ovviamente dette scelte di sinistra radicale e non le avrebbe in alcun caso sostenute, ché non aveva interesse ad una vittoriosa affermazione della nostra posizione politica. E compì la sua scelta arretrata, di destra, anche con interne contraddizioni: infatti alcuni suoi esponenti, allora “lombardiani”, Pietro Ancona e Fausto D’Alessandro, presero una posizione favorevole alla richiesta da me sostenuta. Ermogene La Floresta, invece, membro del direttivo provinciale quale unico rappresentante della corrente della sinistra “vecchettiana” - chiamata carrista per l’errata posizione assunta durante e dopo la rivoluzione ungherese del ‘56 -, votò in quella riunione del direttivo contro la mia proposta, unendo il suo voto a quello della destra “lauricelliana”. La cosa nell’immediato mi apparve molto strana, ché mi sarei aspettato un voto favorevole da parte sua. Capii dopo che quella era al contrario una scelta coerente con la sua formazione politica, di tipo moderato, e rispettosa in particolare, come poi appresi, di un accordo allora esistente a livello regionale fra la destra autonomista di Salvatore Lauricella e la sinistra di Vincenzo Gatto, per il non intervento nelle zone di rispettiva influenza: che è quanto di più lontano dagli interessi dei lavoratori e dal rigoroso rispetto della dialettica democratica si potesse e si possa ancora oggi concepire.
Il PSI agrigentino dei Lauricella, dei Reina, dei Di Caro, largamente assente, e non a caso, allora ed anche dopo, nella lotta contro la delinquenza mafiosa, manifestò in quell’occasione il suo vero volto, contribuendo ad affossare, se non l’unica, certamente una delle più serie e significative esperienze di tipo riformista maturate in ambito provinciale: quella della sezione socialista di Canicattì. Infatti, poco dopo, appreso che la federazione provinciale del PSI, compreso il rappresentante della sinistra vecchettiana, non aveva appoggiato le nostre scelte, i dirigenti della sezione del PCI di Canicattì, visto il nostro isolamento, condussero in porto una subdola operazione di aggiramento da destra nei nostri confronti: contattarono molti vecchi compagni socialisti, per lo più artigiani e medio commercianti, da tempo allontanatisi dalla politica attiva, e li indussero ad iscriversi nuovamente al PSI. Cosa che essi fecero, aderendo ovviamente, anche per la loro posizione sociale, alla corrente della destra “lauricelliana”. Conseguentemente a tale “organizzato” afflusso di compagni “autonomisti”, ed anche all’iscrizione di persone persino ignare della loro adesione, furono rovesciati i rapporti di forza all’interno della sezione socialista, che si trovò a passare, nel giro di pochissimo tempo, in mano alla destra. Contestualmente a tale operazione, politici di basso livello, purtroppo interni allo schieramento di sinistra di allora, si prodigarono a diffondere accuse calunniose nei miei confronti, arrivando anche a dire in giro che se mi battevo con energia perché anche Caramazza pagasse le tasse, lo facevo al solo fine di farlo allontanare dalla maggioranza, che si reggeva sul suo voto, e riconsegnare, quindi, il Comune alla D.C. Dalla quale, osarono persino dire senza tema del ridicolo, io dovevo aver pure ricevuto dei soldi: manifestarono in tal modo non solo viltà e bassezza d’animo, ma anche totale malafede politica e culturale ed una buona dose di stupidità, essendo in primo luogo a tutti nota la mia posizione politica di sinistra radicale, per la quale, come ho già detto, non a caso gli avversari mi chiamavano con l’appellativo di Robespierre, ed essendo in secondo luogo impossibile la realizzazione per la DC di quanto essi dicevano, perché assieme alla destra raggiungeva solo 19 consiglieri: pertanto, sarebbe stato necessario andare a nuove elezioni
Isolato in giunta e con la maggioranza della sezione del PSI passata in mano alla destra e quindi contraria alle scelte prima operate, nell’estate del 1962, dopo accesi contrasti, democraticamente rassegnai le dimissioni da consigliere, prendendo atto con freddo realismo della mutata situazione politica. Ricordo che l’operazione di “normalizzazione” ebbe come immediata conseguenza l’abbandono delle scelte avanzate che la sezione del PSI, prima a maggioranza di sinistra e prevalentemente bassiana, aveva maturato. Ricordo anche un fatto molto significativo: che vicino alle posizioni del Consigliere Caramazza, - cui si era voluto, ma non potuto, causa le suddette opposizioni, far pagare le tasse -, venne a trovarsi in Comune, facendo parte dell’affine movimento dell’U.S.C.S., Pietro Di Caro, uomo di mafia, fratello del mafioso Giuseppe Di Caro, affiliato all’organizzazione delle “famiglie” Ferro e Guarnirei.
Il PCI locale e provinciale, che aveva operato a Canicattì nel modo che ho sopra descritto a causa della sua arretrata e sbagliata posizione politica, era stato altresì miope nelle sue scelte dal punto di vista tattico, per esso peraltro essenziale, ché aveva alla fine “lavorato per il re di Prussica”. Infatti, i nuovi dirigenti di destra della sezione del PSI, quale, ad esempio, Tano Caico, un commerciante di generi alimentari, saranno poi gli artefici dell’alleanza con la DC e dell’isolamento del PCI, e verranno quindi “premiati” con importanti incarichi paragovernativi, quale la direzione dello IACP provinciale, che fecero la loro fortuna. Essi, poi, mediante l’elargizione di posti, all’uno di bidello, ad un altro di impiegato di banca, ad un altro ancora di impiegato comunale, “determinarono” il passaggio sulle posizioni della destra c.d. autonomista di compagni socialisti prima di sinistra. Sorretti ed in piena sintonia con la direzione provinciale del PSI, svolsero in tal modo opera di grave e nefasta corruzione politica e morale, e di profonda diseducazione civica in una situazione che era allora di cronica disoccupazione.
Riflettendo su tutta questa esperienza, il mio pensiero, anche per le profonde, impressionanti analogie che vi sono, va al Candido di Sciascia, la cui rilettura è sempre utile anche per ricordarci che solo l’eretico, come egli amava ripetere, è un uomo libero.
Il mio augurio è che la nuova generazione di militanti di sinistra fondi la sua azione rivoluzionaria avendo viva la memoria storica del passato. E’ necessario, quindi, avere una conoscenza approfondita della storia politica e sociale di Canicattì relativa almeno al periodo che va dal grande movimento di massa dei Fasci Siciliani del 1892-94, che vi fu molto forte, sino alle lotte bracciantili e contadine del ’43-47. E’ essenziale, poi, per fondare su una profonda e matura consapevolezza la lotta contro la mafia, studiare e conoscere i comportamenti del clero sul fenomeno ed in particolare i rapporti del ceto proprietario e borghese e dei partiti politici canicattinesi e dei loro singoli dirigenti con la delinquenza della mafia, che tuttora è molto forte e presente - ben due magistrati sono stati da essa assassinati, Saitta e Livatino - ed interviene apertamente e con forza, come le recenti esperienze locali provinciali e regionali hanno riconfermato, anche a livello politico (emblematico è al riguardo il caso Lo Giudice). Infatti, se è vero che la mafia si combatte con un’energica azione di repressione giudiziaria - vedi la brillante operazione “alta mafia” che ha avuto il suo epicentro a Canicattì -è però indispensabile, per poter sconfiggere il fenomeno, che vi sia un coinvolgimento politico popolare di massa anche a livello delle coscienze, sì da operare una vera e propria rivoluzione culturale.
Padova 25.11. 2004
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