MARCO SCALABRINO, Giovanni Meli


Relazione

 

 

Si è compiuto, in dicembre 2015, il bicentenario della scomparsa di Giovanni Meli. PER L’OCCASIONE, A PALERMO, a CINISI E a TERRASINI SI è TENUTO, DAL 4 AL 7 DICEMBRE, UN CONVEGNO.

 

Grande naso, ampia bocca, labbro inferiore prominente; vivaci occhi piccoli e neri, largo mento, fronte spaziosa piena di solcature; folte sopracciglia bianche, capelli canuti, andamento nobile e grave; un’aria che, unita alle maniere affabili, imponeva rispetto. Questo, per sommi capi, il ritratto CHE di Giovanni Meli in età matura lasciò Agostino Gallo. E Gioacchino Di Marzo aggiunge: “di media statura, aveva il Meli L’anima dolce e affabile. mai fu vano di se stesso, né mai fece caso all’altrui invidia”.

lo stesso meli peraltro, nellla Fata Galanti, Canto secondo, Ottava 45, confermerà questi ultimi tratti della sua personalità:   

 

Jeu nun sugnu di chiddi ambiziusi 

Chi disìanu ricchizzi in quantitati;

Pri lu chiù su’ nquieti e pinzirusi 

Chissi ch’ànnu dinari assai sarvati;

Nun ni vogghiu ricchizzi suvirchiusi, 

Ma nenti nenti è bistialitati.

Dicisti cunzulàrimi, lu quannu 

Vurria sapiri e chi ci va’ aspittannu?

 

dei suoi contemporanei nessuno, eccetto Agostino Gallo, pensò di raccogliere notizie e date che potessero interessare per la biografia del poeta. Agostino Gallo aveva 25 anni quando Giovanni Meli morì. Godette dell’amicizia del poeta per circa sette anni e poté, quindi, apprendere e tramandarcene le notizie e il ritratto fisico e morale.    

nacque il 6 marzo 1740, a Palermo, Giovanni Meli.    

Il padre, Antonino Meli, sposò, a trentacinque anni, una giovane di origine spagnola, Vincenza Torriquos, di anni ventidue. Oltre che dai genitori, la famiglia fu composta da due fratelli, Stefano e Francesco, e da una sorella, Maria Antonia; altri fratelli e sorelle non sopravvissero.

Un giorno uno zio, forse Andrea Meli, gli diede da leggere l’Orlando Furioso di LUDOVICO Ariosto. aveva dieci anni, si addormentò leggendo il libro e, in sogno, gli parve di ripeterne i versi. svegliatosi, s’accorgeva però che quei versi erano suoi. Sebbene nessuno l’avesse addestrato alla metrica, egli aveva preso a improvvisare ottave in italiano o meglio in “dialetto toscano”, come si diceva allora in Sicilia, giacché, per i nostri conterranei dell’epoca, soltanto il dialetto siciliano era lingua nazionale. Cosa che non deve stupire se si pensa che, in quel tempo, non si aveva affatto “coscienza della lingua italiana come lingua nazionale”.  

Meli ragazzo ebbe così, inaspettatamente, consapevolezza della sua attitudine alla poesia e all’Ariosto affiancò la lettura delle opere di Antonio Veneziano e di Simone Rau e altresì di quelle del Rolli e del Metastasio, nonché lo studio dei classici, DELLA grammatica, DELle lettere latine e DELla filosofia. studiò INOLTRE,  

nel Collegio dei Padri Gesuiti della sua città, la retorica e la metafisica. Ma non solo in casa e negli studi, ma pure nelle strade del suo quartiere, con la loro sinfonia di colori, di odori e di suoni, egli trovò i suoi maestri di siciliano.

Essendo, tuttavia, desiderio dei genitori che il figlio divenisse medico, fu avviato alla frequenza delle scuole cliniche, sotto la guida del dottor Baldassare Fagiani. Il dottore Fagiani, che insegnava all’Accademia di Medicina, presentò il giovane studente al suo amico dottor Giovanni Gianconte. Questi, che si dilettava di letteratura, avendone avuto un’ottima impressione, lo introdusse a sua volta al Principe di Campofranco, Antonio Lucchesi Palli, il quale aveva istituito, nella sua casa in via dello Spasimo, l’accademia denominata Conversazione Galante.

fin dal 1761, pur non essendo prete, Giovanni Meli vestì da abate.

“Ho indossato l’abito sacerdotale - Scriverà egli nel 1814 - perché nella mia gioventù era quello dei medici per avere accesso nei monasteri”, nonché per frequentare le case dei nobili, che difficilmente si aprivano ai semplici borghesi. “Il pubblico, generoso in parole, mi attribuì il titolo di abate, talché ho avuto il fumo   senza l’arrosto”.

Pubblicata a Palermo nel 1762 la Fata Galanti, la sua prima opera, gli “acquistò tale fama da essere, sin da quel tempo, considerato il migliore poeta nazionale e, per la sua giovane età, denominato lu puiticchiu, il poetino”. La Fata Galanti è un poemetto satirico-burlesco composto da otto canti, per complessive 517 strofe. in esso, per primo il Meli introdusse le ottave narrative, ovverosia col distico finale baciato (ab ab ab CC), infrangendo così il predominio dell’ottava siciliana (ab ab ab ab).

Solo nella sua stanza il poeta sta a fantasticare e gli pare di essere in groppa a un cavallo alato e di volare accanto a una bella fata. nel suo viaggio, in compagnia di quella fata, che è la sua fantasia, egli immagina di incontrare bizzarre o grottesche figure di poeti, di scienziati e di filosofi.

Nel Canto secondo, il più noto, conosciuto come il canto della fiera del Parnaso, il Meli ritrova i poeti del passato, ciascuno di loro davanti alla propria barracca intento alla vendita della propria mercanzia. mercanzia che, per analogia, ricorda la loro poesia o qualche episodio legato alla loro poesia. e così: il Redi   vende ogni sorta di vini e liquori; l’Ariosto cianfrusaglie e monili preziosi; il Petrarca zagareddi e cosi fimminili; Petru Fudduni   jia banniannu acqua cu lu zammù; il Metastasio è titolare di una cafittaria, eccetera eccetera.    

Intanto, come si usava all’epoca (il capoluogo siciliano non aveva allora l’Università, la Regia Accademia degli Studi di Palermo fu elevata a Università nel 1805), il Meli ottenne dal Pretore di Palermo, in data 25 luglio 1764, a ventiquattro anni, la Licenza per l’esercizio della professione medica. ei primi del 1767, così, il Meli lascia Palermo e si reca a Cinisi, dove si era resa libera una condotta medica.

Curare quei contadini parrebbe, di primo acchito, la ragione più plausibile di quel trasferimento. qualcuno nondimeno prospetta che il poeta fu costretto a lasciare Palermo in seguito a una tresca amorosa o imputa a “una potente causa” il motivo che “obbligò il poeta a cercare lì sistemazione”. 

La condotta medica? La tresca amorosa? La potente causa? E, perché no, gli affari del padre che subirono un tracollo? O la rottura Fra lui e il Principe Antonio Lucchesi Palli?

MA FACCIAMO UN PASSO INDIETRO! Dove il Meli è stato grande e unico è nelle poesie pastorali e anacreontiche.

Il nome arcadico Nice, cantato da Meli, nasconde, evidentemente, il nome vero di una donna. questa donna, anzi “questa signora, bisogna ricercarla fra quelle che frequentavano la casa del Principe”. C’erano delle signore, infatti, fra i membri dell’accademia dei Galanti e della compagine faceva parte la giovanissima moglie di don Carlo Antonio Ventimiglia, donna Maria Sigismonda Sieripepoli. Donna Maria Sigismonda era figlia unica di don Girolamo Sieripepoli, barone di Mangiadaini, e di donna Beatrice Notarbartolo, dei Marchesi di Bonfornello. Don Girolamo era trapanese e possedeva dei feudi e deGLI IMMOBILI in Trapani e in Salemi e delle botteghe in Palermo.

Nata a Palermo il 20 luglio 1747, due occhi luminosi, donna Maria sposò, il 24 novembre 1762, don Carlo Antonio Ventimiglia, marchese di Regiovanni, dal quale ebbe undici figli, tra maschi e femmine.

rimasta vedova nel 1778, all’età di trentuno anni, sposò quindi, in seconde nozze, don Gaetano Lucchesi, figlio terzogenito del Principe di Campofranco, il quale però morì, da lì a tre anni, il 17 luglio 1783.

La figura di questa dama, dagli occhi vivacissimi ch’assimìgghianu a dui brillanti stiddi, vanitosa e desiderosa di essere vezzeggiata e corteggiata, non tarda a balzare, agli occhi di un lettore attento, quale la Nice che il Meli abbozza, con pochi mirabili tocchi, nelle liriche della sua giovinezza.

Il Meli scrisse l’ode Lu gigghiu, la sola lirica in cui non nascose il nome della sua ispiratrice, giusto per donna Maria Sieripepoli, marchesa di Regiovanni, cinque anni dopo il suo ritorno da Cinisi, nel 1777. Se ne ha conferma dalla sua lettera autografa del 17 settembre 1777, conservata presso la Biblioteca Comunale di Palermo, spedita al suo amico, il monaco don Isidoro Zappino. In essa il poeta vi lasciò intatti i versi: Lu gigghiu amabili / di Regiuvanni; ma, pubblicando poi IL TESTO nel 1787, modificò questi versi in: E l’adorabili / gigghiu di Filli. Lu gigghiu rimane, perciò, l’unica ode del Meli, sulla cui ispiratrice non possono aversi dubbi. Per le altre bisogna contentarsi delle testimonianze che ci hanno lasciato i primi biografi del poeta.

L’odicina Ucchiuzzi niuri, per esempio, secondo il Palmieri di Micciché, fu scritta dal Meli per donna Lucia Mogliaccio; mentre, secondo il Majorca Mortillaro, gli venne ispirata da donna Aloisa Lanza. E così, stando ad Agostino Gallo, si deve alla bellezza di donna Maria Anna Valguarnera e Branciforte l’odicina Lu neu, che   invece Giovanni Alfredo Cesàreo stima debba assegnarsi a donna Marianna Mantegna.

Nel sonetto L’umbri, Meli canta le sue pene d’amore e avvalora l’ipotesi che la vera ragione che lo spinse ad abbandonare Palermo fu una disavventura amorosa:

 

Umbri, figghi a la notti, chi abitannu

Stati ntra grutti ed orridi furesti,

Deh! chi l’estremu miu spiritu resti

A chiànciri cu vui lu propriu dannu.

 

Si mai ccà junci, a casu caminannu,

Chidda chi l’arma di riguri vesti,

In flebili lamenti e vuci mesti

Dicitici: Murìu, murìu d’affannu.

 

Di un’inutili lagrima si forsi

Bagna la fridda cinniri, ‘un spirati

Chi sia cumpassioni di cu' morsi:

 

È strania ntra ddu cori la pietati;

E si chianci ni è causa chi si accorsi

Chi, mort'eu, nun c’è chiù cu' pr’idda pati.

 

Nei cinque anni che rimase a Cinisi, il Meli si recava a curare gli infermi e, nel tempo libero, leggeva, scriveva, corrispondeva con gli amici e, qua e là girovagando, traeva ispirazione dalle bellezze della campagna e del mare.

nel 1768, scrisse un poemetto di 79 ottave che chiamò L’Origini di lu munnu. In esso egli mette in ridicolo il panteismo e dileggia le credenze cosmogoniche dell’umanità promosse da Vincenzo Miceli,

un giovane sacerdote nato a Monreale (PA) nel 1733.

NE L’Origini di lu munnu, giove e tutti gli altri dei dell’Olimpo discutono sul modo migliore di creare il mondo. decide, infine, Giove che è egli la sola sostanza che esiste nell’universo e   pertanto egli è l’universo. Chiede, perciò, ai suoi figli di smembrarlo, ffinché le sue varie parti possano divenire la terra. È così, con sottile ironia, squartando i Numi il corpo di Giove, ne fanno nascere le regioni terrestri e fra esse la testa di Giove diviene la Sicilia.

 

Ma la testa?, ora ccà vennu li liti,

Jeu dicu: È la Sicilia; ma un Romanu

Dici ch’è Roma; dicinu li Sciti

Ch’è la Scizia; e accussì di manu in manu

Quantu c’è regni, tantu sintiriti

Essirci testi... jamu chianu chianu,

La testa è una; addunca senza sbagghi

È la Sicilia e c’è ntra li midagghi.

 

Negli anni durante i quali dimorò a Cinisi, il Meli compose anche la Buccolica. questa consiste di quattro distinte parti, ciascuna delle quali intitolata a una stagione dell’anno. La Buccolica si apre con un sonetto di meravigliosa evidenza, di straordinaria ampiezza ideale; un quadro perfetto che seduce e sorprende:

 

Muntagnoli interrutti da vaddati,

Rocchi di lippu e areddara vistuti, 

Caduti d’acqua chiari inargintati,

Vattali murmuranti e stagni muti;

 

Vàusi e cunzarri scuri ed imbuscati,

 Sterili junchi e ghinestri ciuruti,

Trunchi da lunghi età mali sbarrati,

Grutti e lambicchi d’acqui già mpitruti;

 

Pàssari sulitarii chi chianciti,

Ecu chi ascuti tuttu e poi ripeti,

Ulmi abbrazzati stritti da li viti,

 

Vapuri taciturni, umbri sigreti,

Ritiri tranquillissimi accugghiti

L’amicu di la paci e di la quieti.

 

L’Idillio 1 della Primavera è pure esso uno stupendo inno alla Natura:

 

Sti silenzi, sta virdura,

Sti muntagni, sti vallati,

L’à criatu la Natura

Pri li cori nnamurati.

 

Lu sussurru di li frunni,

Di lu ciumi lu lamentu,

L’aria, l’ecu chi rispunni,

Tuttu spira sentimentu.

 

Dda farfalla accussì vaga,

Lu muggitu di li tori,

L’innuccenza chi vi appaga,

Tutti pàrranu a lu cori.

 

Stu frischettu nsinuanti

Chiudi un gruppu di piaciri,

Accarizza l’alma amanti

E ci arrobba li suspiri.

 

Il poeta, intanto, non vedeva l’ora di ritornare a Palermo. Gliene diede l’occasione il dottor Giovanni Gianconte, il quale, dovendo fare un lungo viaggio all’estero, volle affidargli la sua larga e ricca clientela. e così, nel 1772, a trentadue anni, il Meli poté finalmente fare Ritorno a Palermo.

per lui Fu una vera fortuna l’avere trovato una protettrice in una delle sue clienti, donna Vittoria Romagnolo Texeira Albornoz, Sposa del barone di Maurojanni don Giuseppe Martines, la quale, nel 1772, aveva circa quarant’anni. Dopo il lungo esilio, egli provava adesso un senso di sollievo, quando, la sera, entrava nel salotto di donna Vittoria.

di bello Egli aveva soltanto gli occhi, neri, penetranti, vivacissimi, e quando leggeva e recitava quegli occhi si animavano.

Pareva allora che una luce illuminasse la faccia rubiconda di quell’uomo e nessuno badava piùal suo naso abbondante, alle sue labbra carnose, alla sua voce stridula e fioca. Tutte le dame di quel salotto subivano, nell’ascoltarlo, il fascino che proveniva dall’armonia del dialetto e dalle sapienti melodie che il poeta sapeva infondere nei suoi versi. Lo aiutò in questo, oltre che la sua assoluta padronanza del dialetto, la brevità della strofa che, formata com’era di ottonari, di settenari e di quinari, e agile, vigorosa e rapida, gli consentì di abbandonare i ciarpami, le lungaggini, i paludamenti classici.

Nell’autunno del 1777, IL Meli conobbe Donna Mela Cutelli, seconda moglie di don Emanuele Lo Dolce, la quale, pur già madre di più figli, era giovanissima e donna bella e piacente. Donna Mela aveva due seni superbI, morbidi e bianchi, un vero boccone appetitoso che faceva gola al poeta, tanto che il delizioso “ortu di rosi e ciuri” di lei è innegabile che gli abbia fatto fare più d’un peccato di pensiero. Da qui l’Ode Lu pettu. Non una parola troppo nuda e troppo precisa, però. tutto è velato, attenuato, sfumato con prodigiosa delicatezza di tocco: c’è l’immagine suggestiva, la voluttà Pervasa da un’ombra di pudore, l’ebbrezza non di senso ma di fantasia.

L’occhi è una delle sue odi più belle. Composta prima del 1781, gli VENNe ispirata da donna Lucia Mogliaccio. i suoi Versi non si dimenticano più e diventano, anzi, patrimonio della nostra cultura:

 

Ucchiuzzi niuri,

 Si taliati, 

Faciti cadiri

Casi e citati; 

 

Jeu muru debuli 

Di petri e taju, 

Cunsidiratilu 

Si allura caju!

 

E non li dimenticò neanche Johann Wolfgang Goethe che, avendoli ascoltati a Palermo, li tradusse in tedesco e li incorporò in una sua lirica, senza fare il nome del Meli, avendoli creduti popolari.

Lu labbru, infine, è la più celebre di tutte le sue poesie, la regina delle sue Odi, che il popolo ha ribattezzato col nome di Apuzza nica. In questa meravigliosa ode, che pare sussurrata da una voce d’incanto in una mattinata di primavera, tra musicale leggerezza   e coinvolgimento erotico, il Meli si muove con perizia finissima e l’ape diventa un pretesto di canto dell’universo, della bellezza della natura.

 

Dimmi, dimmi, apuzza nica

Unni vai cussì matinu?

Nun c’è cima chi arrussica

Di lu munti a nui vicinu.

 

Trema ancora, ancora luci

La rugiada ntra li prati:

Duna accura nun ti arruci

L’ali d’oru dilicati!

 

Li ciuriddi durmigghiusi

Ntra li virdi soi buttuni

Stannu ancora stritti e chiusi

Cu li testi a pinnuluni.

 

Ma l’aluzza s’affatica,

Ma tu voli e fai caminu.

Dimmi, dimmi, apuzza nica

Unni vai cussì matinu?

 

Cerchi meli? E s’iddu è chissu,

Chiudi l’ali e ‘un ti straccari;

Ti lu ‘nzignu un locu fissu

Unni ài sempri chi sucari.

 

Lu conusci lu miu amuri,

Nici mia di l’occhi beddi?

Ntra ddi labbri c’è un sapuri,

Na ducizza chi mai speddi.

 

Ntra lu labbru culuritu

Di lu caru amatu beni

C’è lu meli chiù squisitu:

Suca, sucalu, ca veni.

 

le odi del Meli, ritenute dai più il suo capolavoro, vennero pubblicate, in gran parte, nell’edizione del 1787, la prima stampa, in cinque volumi, dell’intera sua opera composta fino a quel tempo. nel medesimo anno 1787, il meli iniziò PER PRIMO IN SICILIA l’insegnamento di Chimica Farmaceutica presso l’Accademia degli Studi.

Intanto, il poeta scrisse il ditirambo Sarudda, il cui sfondo volle porre in una bettola dell’Albergherìa, la taverna Bravasco, a quei tempi la più famosa e frequentata dai beoni palermitani.

Meli comincia il ditirambo, che si compone di cinquecento versi, con una descrizione insuperabilmente realistica, degna del pennello di un grande pittore:

 

Sarudda, Andria lu sdatu e Masi l’orvu,

Ninazzu lu sciancatu,

Peppi lu foddi e Brasi galiotu

Ficiru ranciu tutti a taci-maci

Ntra la regia taverna di Bravascu,

Purtannu tirrimotu ad ogni ciascu.

 

E doppu aviri sculatu li vutti,

Allegri tutti misiru a satari

E ad abballari pri li strati strati,

Rumpennu nvitriati,

Ntra l’acqua e la rimarra, sbrizziannu

Tutti ddi genti chi jìanu ‘ncuntrannu.

 

 E intantu appressu d’iddi

Picciotti e picciriddi

Vastasi e siggitteri

Cucchieri cu stafferi

Decani cu lacchè

Ci jìanu appressu facennuci olè.

 

Sarudda è sostanzialmente un beone; il vino, secondo lui, è rimedio sovrano per tutti i mali e, se non guarisce tutte le malattie, di certo le attenua: medicina più sicura agli umani malanni egli non sa trovare. Il Meli vi usa “il frasario comune del popolo palermitano, quello dei quartieri più caratteristici, che nei suoi versi si fa linguaggio, diventa creazione assoluta, strumento di grande efficacia espressiva.”

pressappoco nello stesso periodo, il meli scrisse il Don Chisciotti e Sanciu Panza, datato 1787.

sotto l’influsso di Voltaire, di Montesquieu, di Rousseau, le cui opere, fra il 1780 e il 1787, s’era dato a studiare, Giovanni Meli prese a interessarsi ai problemi morali e sociali della sua epoca. Un poeta, infatti, non può sottrarsi al suo tempo; specie un poeta di squisita sensibilità qual era il Meli. Egli voleva lanciare il suo grido di rancore, di protesta, di redenzione. ma per farlo, occorreva che egli stesso fingesse di farsene beffe. si avvalse, perciò, dei tipi di Miguel de Cervantes per velare la sua satira, la quale più che al riso invita alla meditazione.

Tornato al mondo nel 18.mo secolo, l’eroe della Mancha non si propone più, dunque, la guerra ai mostri e ai giganti; egli anela ad attuare le idee degli economisti e dei filantropi; vuole il riscatto del popolo, si fa paladino degli umiliati e degli oppressi, dei lavoratori e dei proletari. e a don Chisciotte il meli oppone Sancio Panza, così da generare l’equivoco se egli tenesse per la temeraria ribellione dell’uno o per la conciliante acquiescenza dell’altro.

È questa la novità del poema di Giovanni Meli: la satira della cavalleria è sostituita Con la satira delle riforme sociali.

L’azione del Rousseau si manifesta in tutto il poema: il contratto sociale (Canto II, Ottava 26); la requisitoria contro il patriziato e la borghesia (Canto VI, Ottave 33 e 34); l’antimilitarismo (Canto XII, Ottava 63); il tribunale per la pace universale (Canto XII, Ottava 64); la terra ai contadini (Canto XII, Ottava 65). queste e altre simili idee altro non sono che il programma minimo di stato socialista già adombrato negli scritti del Ginevrino J. J. Rousseau.

Il poema, in dodici canti, che in origine voleva essere eroicomico, si trasforma spesso in didascalico e finisce con l’essere un lavoro frammentario. Del cervellotico Don Chisciotti, Sancio Panza – che è, viceversa, l’uomo pratico, il tipo del saggio popolano, riconosciuto in definitiva quale il vero protagonista del poema, benché, In realtà, le due figure tutt’insieme sono il poeta – Sancio Panza, dicevamo, fa un ritratto gradevolissimo di Don Chisciotti nel Canto V, Ottave 26 e 28:

 

Era longu, era siccu e assimigghiava

Tuttu scurciatu a vostra riverenza;

 A lu parrari li genti ammagava

Ed ogni sua palora era sentenza;

 

Jeu cu la vucca aperta l’ammirava,

Ma ‘un c’è bugiarda chiù di l’eloquenza;

Cosi chi ‘un si putìanu immaginari

Vi li faceva vidiri e tuccari.

 

Aveva un primu motu bestiali,

Ma a trattarlu era poi n’apa di meli;

Tinìa massimi eroici e reali

E ntra lu cori so nun c’era feli;

 

Cu tuttu ciò patìa d’un certu mali, 

Ch’essennu ‘n terra si cridìa a li celi;

Mendicu, si crideva un signurazzu;

Dijunu saziu, ‘nsumma era un gran pazzu.

 

Tutta la filosofia pratica di Sancio Panza è racchiusa poi nella novantaduesima ottava dell’ultimo canto del POEMA:

 

Qualunqui sia lu locu unni ti trovi

(Ch’eu ti criu a menz’aria certamenti

Pri li fumi e fantastici toi provi)

Sti mei sinceri avvisi teni a menti:

 

O friddu o caudu, o sia bon tempu o chiovi,

Tu lassa fari e ‘un ti ‘mmiscari a nenti,

Li cosi comu su’ lassali stari

Né ti pigghiari gatti a pittinari.    

 

Il poema è ricco di descrizioni pittoresche, di argute sentenze, di episodi ingegnosi che, per la loro molteplicità, formano l’intreccio delle imprese stranissime di quel cavaliere errante. scopo dell’opera fu mostrare che la società non ha bisogno di scienziati ciarlataneschi e di utopisti bislacchi, ma di uomini di comune levatura, purché dotati di esperienza e di saggezza; fu altresì mostrare che la verità non può avere luogo dove alberga l’errore.   

giovanni Meli, si è detto, era medico. Fra i suoi clienti più affezionati c’era don Antonio Maniàci. con lui l’unica sua figliola, Maria Anna, che nel 1767, a quattordici ANNI, s’era sposata con don Gioacchino La Torre, di anni venticinque.

il Meli Conosceva donna Maria Anna fin da ragazza e finì con l’innamorarsi di lei durante le sue reiterate visite in casa Maniàci.

Don Antonio Maniàci morì il 1° febbraio 1784; il marito, don Gioacchino La Torre, non dava loro nessun fastidio; e così i due innamorati poterono intendersela facilmente.

Donna Maria Anna Maniàci, “bella, bionda e ricciuta, con gli occhi lustreggianti”, fu veramente la grande passione del poeta. egli, passata la quarantina, sentiva ormai il bisogno d’un affetto posato e sicuro. Donna Maria Anna era sulla trentina e i suoi baci, le sue carezze sapevano acquietare l’ardore di quell’uomo assetato d’amore.

Nel maggio 1786, il Meli tenne al fonte battesimale Gaetana La Torre la quale, nell’ottobre 1876, poco prima di morire ULTRA NOVanTENNE, chiese al Municipio di Palermo una pensione, dicendosi bisognosa e figlia del poeta.

Di giorno in giorno, intanto, la sua fama di poeta andava crescendo. Viaggiatori, artisti e letterati italiani e stranieri, che venivano a visitare la Sicilia, si onoravano di salire le scale della sua casa per conoscerlo. L’ammiraglio Orazio Nelson, ad esempio, volle conoscerlo e Ferdinand Gregoròvius ne tradusse in tedesco molte poesie poi pubblicate in Lieder des Giovanni Meli von Palermo, Lipsia 1856.

ALlORCHè, Il 14 settembre 1809, don Gioacchino La Torre morì, Il Meli rimase di fatto a capo di quella che egli, da quel giorno in poi, chiamò “la mia famiglia” (per i Siciliani, però, donna Maria Anna Maniàci fu sempre la sua “governante” e le figlie di lei le sue “nipoti”).

il poeta, nel mentre, si appartava sempre più dal mondo e, dalla sua raccolta solitudine, generò le Favuli morali. Nelle Favuli morali il poeta adombrò di apparenze innocenti e bonarie il suo intimo sentimento della realtà: lo sdegno contro l’aristocrazia oziosa, provocatrice e superba; la legge dell’eguaglianza fra gli uomini; l’odio contro la prepotenza, l’iniquità, il privilegio; l’esaltazione dell’ingegno e della virtù sui diritti di casta; la nobiltà della vita laboriosa e modesta; la libertà e la fratellanza degli uomini.

Ma, poiché questo fermento di idee accadeva nel mondo degli animali, nessuno vi fece caso; tutti, anzi, se ne compiacquero.

gli animali del Meli agiscono, parlano e vivono ciascuno secondo la propria legge individuale; seguono solo l’istinto, che è la legge di natura, e però sono più forti e più virtuosi degli uomini e cercano l’utile proprio senza il danno altrui e il bene degli altri   senza il proprio nocumento.

nelle Favuli morali del meli, a un certo punto, si dimentica di avere a che fare con delle bestie e si ha la perfetta illusione di trovarsi, invece, in pieno Settecento siciliano e che ci sfilino davanti agli occhi: deboli e corrotti giudici e vanesi in parrucca incipriata, tutti inchini, sorrisi e svenevolezze; donne leggere, capricciose e perverse e soldati impettiti e marziali all’aspetto ma pronti a voltare le spalle al primo colpo di fucile; cortigiani untuosi e sornioni e sordidi usurai; ricchi sprezzanti e frati corpacciuti e bracaloni, amanti della buona tavola e del dolce far niente.

Tutte le piaghe, tutte le meschinità, le storture, le ipocrisie di quella società, sono indagate, analizzate, fustigate dal poeta con mirabile chiaroveggenza e con sottile, pungente satira.

Frutto della sua piena maturità, apparse nel 1814, un anno prima della morte, ultima opera del Meli, di vario schema e metro, dai sonetti alle ottave e alle terzine, dalle sestine e quartine di endecasillabi agli ottonari, le Favuli morali sono in numero di ottantaquattro. CON ESSE Il poeta si pone sulla scia della ricca tradizione favolistica, da Esopo a La Rochefoucauld. Il sottile umorismo e la fine ironia che vi circolano obbediscono a una duplice strategia compositiva: da un lato servono a stemperare l’inevitabile aurea moraleggiante; dall’altro sollecitano l’attività di pensiero sugli aspetti dell’esistenza e sui vizi e le virtù degli uomini, con riferimenti concreti e non con atteggiamenti predicatori. Emerge la considerazione che le verità più semplici sono quelle che gli uomini tendono ad ignorare, pagandone spesso lo scotto.

La prima favola del volume, Li surci, è nella sua brevità perfetta:

 

Un surciteddu di testa sbintata

Avìa pigghiatu la via di l’acitu

E faceva na vita scialacquata

Cu l’amiciuni di lu so partitu.

 

Lu ziu circau tirarlu a bona strata,

Ma zappau all’acqua, pirch’era attrivitu,

E dicchiù la saìmi avìa liccata,

Di taverni e di zàgati peritu.

 

Finalmenti mucidda fici luca;

Iddu grida: Ziu ziu, cu dogghia interna;

So ziu pri lu rammaricu si suca;

 

Poi dici: Lu to casu mi costerna;

Ma ora mi cerchi? chiaccu chi t’affuca!

Scutta pri quannu jisti a la taverna.

 

il dialetto ricco di frasi, di epiteti, di aggettivi, la Naturalezza di situazioni, la semplicità di forma, la vivezza drammatica rendono incomparabili qUESTi componimenti.

quasi tutte originali, varie nell’intreccio, nei caratteri, negli svolgimenti, piene di colori, di movimento e di grazia, Le favole del Meli sono leggiadre, sgombre da ricercatezza e da affettazione.

Ve ne sono alcune che possono appellarsi capolavori. Fra queste, la numero due, Li granci, nella quale il granciu vuole ad ogni costo insegnare ai suoi figli a camminare dritti e si cruccia gravemente perché il maggiore di essi gli chiede che egli sia il primo a darne l’esempio. In questa favola, la naturalezza del dialogo si accompagna a grazia e ad arguzia impareggiabili:

 

Un granciu si picava

Di educari li figghi

E l’insosizzunava

Di massimi e cunsigghi,

‘Nsistennu: “V’aju dittu

Di caminari drittu”.

 

Chiddi, ch’intenti avìanu

L’occhi in iddu e li miri,

Cumprendiri ‘un putìanu

Drittu chi vulìa diri:

Sta idia ntra la sua cera

D’unni pigghiarla ‘un c’era.

 

Iddu amminazza, sbruffa,

L’arriva a castiari,

Ma sempri fici buffa:

Mittennulu a guardari,

Vidinu cosci e gammi

Storti, mancini e strammi.

 

Alza l’ingegnu un pocu,

Lu chiù grannuzzu e dici:

“Papà, lu primu locu

Si divi a cui ni fici,

Va jiti avanti vui,

Ca poi vinemu nui”.

 

“Nsolenti, scostumati,

Grida lu patri, oh bella!

A tantu vi assajati?

L’esempiu miu si appella?

Jeu pozzu fari e sfari,

Cuntu nun n’aju a dari.

 

Si aviti chiù l’ardiri,

Birbi, di replicari...”

Seguitau iddu a diri,

Seguitaru iddi a fari...

Tortu lu patri e torti

Li figghi sinu a morti.

 

Un anno prima della morte, nel 1814, col finanziamento di Leopoldo Borbone, il poeta potè allestire la seconda edizione dei suoi lavori. l’edizione, perciò, venne dedicata a Leopoldo, il quale fece coniare una medaglia d’oro, che nel diritto presenta il ritratto in profilo del poeta, con lo scritto Joannes Meli, e nel rovescio la testa di Aretusa e il motto Anacreonti Siculo.   

via via arcade e verista, legittimista e ribelle, ligio del passato e speranzoso d’un avvenire migliore, nei vari atteggiamenti del suo pensiero, Il poeta rispecchia il secolo proteiforme nel quale visse. in fondo all’animo di questo poeta, che i più hanno creduto e credono un arcade, un cuore contento, uno spensierato cantore di belle donne, c’è qualcosa di inquieto, di scettico, di pessimistico, che rimane alla base vera della sua filosofia e lo specchio più sincero della sua indole. Perché dell’Arcadia, che postulava il rifugio in un ideale mondo pastorale, da una parte ne imitò contenuti e stili, dalll’altra andò al di là di essa, rivelando tendenze illuministiche e realistiche. Il Meli, in sostanza, riuscì a conciliare il contenuto e la forma. Come tutti i poeti del suo tempo d’altronde eGli non poté sottrarsi all’influsso della mitologia, che era del resto una delle principali materie di insegnamento nelle scuole. Romperla, apertamente, con la mitologia il Meli non poteva; e così pensò di volgerla in ridicolo e vi riuscì.

Arcadia, questa? O non piuttosto un presentimento di rivolta sociale?

Nell’ottobre del 1815 Meli AFFERMAva: “Io non ho di che lagnarmi contro la natura, poiché mi ha fatto giungere alla età di 75 anni e mi conserva tuttora intero di gambe e di braccia, salvo che di denti e di mole”.

non più florido, Il venerando uomo accondiscese a posare nello studio dello scultore Valerio Villareale, dove si recò in compagnia di Agostino Gallo. per vari giorni del mese di maggio 1815, giacché alcuni amici volevano elevargli un monumento in marmo mentre era vivo, posò, egli, col petto scoperto; e si ammalò così di punta (POLMONITE).

Il 20 dicembre 1815, al far dell’alba, Giovanni Meli spirava.

ricordato a ciascuno di noi che “Ogni opera va vista con le lenti del tempo e non con le nostre”, che Il Meli il dialetto l’aveva fin nel cognome, “miele”, il nostro è il più siciliano dei poeti siciliani, perché pensa in siciliano, perché sente in siciliano, perché, insomma, il siciliano è lo spirito che ha informato tutta la sua opera.

 



Nessun commento:

Posta un commento