SALVATORE SULLI, Schegge di storia di Prizzi: i Villaraut

Stemma della famiglia Villaraut

Il giudizio storico sulla signoria di Prizzi dei Villaraut, che - se si va a considerare anche il ramo femminile - è durata quasi due secoli (XV e XVI) e perciò la più longeva dell’età feudale, non è univoco. Andrea Milazzo (autore di una Storia di Prizzi, ed. Tumminelli 1959) la definisce “la più gloriosa signoria di Prizzi”. Molto tranchantè quello di Filippo Sinatra e Vaccaro (Raccolta di notizie e di fatti del comune di Prizzi, Tipografia Dorica 1907) e del Campagna nei suoi Cenni storici e tradizionali del comune e dintorni di Prizzi (Tipografia Pontificia 1923) che invece dicono essere stata quella dei Villaraut una genia di prepotenti ed usurpatori dei diritti dei cittadini che angariava il popolo dei contadini con i loro pesanti balzelli e abusi di ogni sorta perpetuando così la loro miseria. 

Nondimeno la comparsa e la presenza di questa nobile famiglia hanno segnato nel bene e nel male la storia di Prizzi tanto da rappresentarne un passaggio fondamentale con segni ancora tangibili, pur essendo trascorso molto tempo. E questo anche perché i baroni, diversamente da quelli che dopo signoreggiarono su Prizzi, ebbero un legame diretto con la popolazione e il territorio. 


Purtroppo le fonti di questo periodo sono poche e avvolte anche contraddittorie ed è perciò che si hanno poche notizie certe e tanti fatti e accadimenti sono -come dire- logicamente presunti. A questo proposito basti pensare che l’archivio parrocchiale della Madrice inizia dall’anno 1566 e che i primi dati certi sulla popolazione datano dal 1570. 


I Villaraut, nobili spagnoli, discendenti dagli antichi sovrani d’Ungheria, erano venuti in Sicilia dalla Catalogna. Divennero padroni assoluti di Prizzi negli anni venti del XV secolo allorquando il capostipite Giovanni Villaraut ebbe Prizzi e il suo territorio in enfiteusi e poi l’investitura feudale e baronale.


In quegli anni Prizzi ed il suo contado erano di proprietà ecclesiastica cioè della Santa Sede che ne aveva secondo il diritto feudale il c.d. dominio diretto. Più in particolare appartenevano alle lontane abbazie di monaci cistercensi di Casamari e Fossanova che si trovavano - pensate un po’ - nel lontano Lazio; ma allora era molto comune che le abbazie possedessero estesi possedimenti ed infatti le due dette abbazie oltre il feudo di Prizzi possedevano decine di tenimenti ecclesiastici in Sicilia. I monaci non potendo naturalmente gestire direttamente questi immensi possedimenti li affittavano per ricavarne dei frutti, più precisamente li concedevano in enfiteusi dietro pagamento di un canone annuo.  Il Re, che sul territorio aveva sovranità assoluta, si limitava ad approvare tali cessioni riconoscendone la validità giuridica.


l dominio dei Villaraut inizia con un atto - si direbbe oggi - in palese conflitto di interessi. In quegli anni infatti era Commendatario (cosi era detto l’abate di nomina papale che rappresentava e curava gli affari delle abbazie) di Casamari e Fossanova tale fra Bernardo Maia, domenicano e vescovo di una diocesi in Sardegna. Il Maia per parte di madre era un Villaraut e perciò gli parve bene dare in enfiteusi al fratello uterino Giovanni Villaraut il tenimento di Prizzi e Palazzo Adriano per 25 anni dietro pagamento di un canone annuo. Va però anche detto che il fratello, ricambiandogli la cortesia, non pagò mai il canone alle abbazie.  Ma anche negli anni a venire i Villaraut si guardarono bene dal pagare i canoni enfiteutici, e tra liti scomuniche e ravvedimenti cacciarono ben pochi quattrini e si godettero indisturbati le terre da perfetti morosi. E questo naturalmente perché avevano la protezione del sovrano.


La Sicilia in quel periodo era sotto il dominio spagnolo degli aragonesi e veniva governata da un Viceré in nome e per conto del re Alfonso detto il magnanimo. Giovanni, o Gioè Villaraut, al quale re come soldato aveva reso dei servigi, era un suo beniamino e un suo protetto; rivestiva inoltre incarichi importanti, era suo consigliere e maggiordomo. Per cui alla fine gli venne facile sfruttando l’ascendente che aveva con il sovrano ed il suo status a corte ottenere l’investitura feudale e il titolo di barone con tutti i privilegi e tutti quei poteri sì da divenire signore assoluto in quelle terre e in mezzo a quella gente. 


E fra questi privilegi a Gioè Villaraut - quale feudatario - fu anche concesso da re Alfonso  il  tanto discusso e criticato merum et mixtum imperium, vale a dire il diritto di amministrare la giustizia nei confronti dei propri vassalli non solo qualora si fossero resi responsabili per fatti di poco conto e crimini di lieve entità (c.d. mixtum imperium o bassa giurisdizione) ma anche di delitti più gravi ed efferati (c.d. merum imperium o somma giurisdizione) cioè il Barone poteva giudicare e punire i suoi vassalli qualunque crimine commettessero nel territorio di Prizzi e Palazzo A. sotto la sua giurisdizione. 


E per esercitare “efficacemente” tale potere giurisdizionale pro veritatis indagine,come recita l’atto di concessione, il barone poteva arrestare, torturare potendo infliggere per i colpevoli le pene più atroci dalla morte alla mutilazione alla fustigazione.


Detto cosi potrebbe sembrare un arbitrio, un privilegio ingiustificato fuori dalla storia ma in effetti era perfettamente in linea con i tempi. Infatti di questo privilegio, che era certamente il più rilevante, godevano più o meno i feudatari in Sicilia già fin dei tempi dei Normanni o, per dir meglio, fu dopo i Vespri Siciliani che la concessione dell’alta giurisdizione criminale prima eccezionale man mano divenne poi usuale: l’esercizio della giurisdizionale consentiva un forte controllo dei feudatari sul territorio e sulla popolazione, dal canto suo il re aveva bisogno dei baroni per mantenere l’ordine pubblico.


E allora ci sembra abbia colto il vero Andrea Milazzo (Op. cit. pag. 277 e segg.) affermando che non c’è da “inorridire e rabbrividire e raccapricciare per il privilegio alfonsino”, come hanno fatto Sinatra Vaccaro o Campagna nelle op. cit. “ma piuttosto da considerare che quelli erano i tempi e i costumi e gli uomini e le leggi” ma costoro - nota l’autore - erano ingenui del diritto penale e del diritto pubblico nell’età del feudalesimo non avevano una adeguata conoscenza. 


Ma anche in tempi più recenti si è caduti nel medesimo errore di giudizio, senza dire che a volte si è pure erroneamente identificato il merum et mixtum imperium con il potere di torturare tormentare etc. etc. che il barone feudatario aveva a disposizione quali strumenti di indagine per l’accertamento della verità e non invece più correttamente con il potere di amministrare la giustizia che egli aveva nei confronti dei propri vassalli per (“legittima” e per altro sempre revocabile) concessione del sovrano, come dire che  sono stati confusi i mezzi con il fine.


Il nostro bel paesello in quello scorcio di secolo non era che un piccolo villaggio con non più di mille millecinquecento abitanti e forse molti molti di meno (sappiamo come dato certo che nel 1570 ne aveva 1852) dediti alla pastorizia e all’agricoltura, contadini del feudo, analfabeti, superstiziosi, soggiogati dalla prepotenza dei signorotti, veri e propri servi della gleba che vivevano in condizioni miserevoli accanto una classe di piccoli artigiani e di signori. 

 

Ma anche se era un centro minore rispetto a quelli limitrofi di Castronovo e Corleone aveva comunque già una sua dimensione urbana come è emerso dall’ottimo studio su Prizzi dell’Arch. Maria Teresa Marsala pubblicato nel 1985 da S.F. Flaccovio per la collana Atlante di storia urbanistica siciliana.

 

L'abitato, il cui fulcro era costituito dal castello e dalla chiesa di S. Antonio, non si estendeva verso sud oltre la attuale via Roma ed era delimitato dalla salita crocifisso ad ovest in linea fino alla chiesa di san Sebastiano e ad est dalla via Madre Chiesa. L’attuale Chiesa Madre non esisteva ancora e al suo posto era una piccola chiesa dedicata a San Giorgio; non c'era la chiesa del Crocifisso ma la chiesetta di San Biagio che si trovava ai confini del paese. La chiesa madre era quella di San Antonio; ancora più a monte la antichissima chiesa di San Sebastiano che ancor prima fungeva da chiesa madre e parrocchia. Infine la chiesetta di san Nicola. 


In alto sull’abitato dominava il castello, la fortezza vera e propria, che doveva occupare la parte delle abitazioni intorno all’attuale Cortile dei Greci e alla via Castello con la sua torre di cui è rimasto solo un rudere. Invece del castello, che doveva avere all’interno anche una cappella, non è rimasto proprio nulla tranne una iscrizione su una pietra risalente ai tempi del barone Carlo Villaraut.

 

Il quartiere residenziale del barone era invece poco più sotto e molto probabilmente si identificava con le attuali case poste a monte dell’attuale via S. Antonio nella parte che dall’inizio di detta via arriva fin quasi davanti al sagrato della chiesa. Fino a qualche tempo fa in un cortiletto posto in questo corpo di case c’erano le vestigia di una porta e li presso una pietra con lo stemma dei Villaraut - cosi dice Campagna - che li vide con i propri occhi. Manco a dirlo, della porta e dello stemma non sono rimasti nemmeno l’ombra. Ma in quello stesso cortile e di quelle vecchie case baronali le vestigia di un muro ancora in buono stato di conservazione sono sopravvissute, o almeno a noi così ci piace pensare.

 

Questo all'interno del paese. "Fuori le mura" nel sito della attuale chiesa di San Francesco vi era una piccola chiesa dedicata a San Rocco e a sud dell’abitato dove è attualmente è il cimitero la vecchia chiesa di S. Angelo, risalente ai Normanni. Il resto era tutta campagna. 

 

Questa dimensione urbanistica si mantenne grosso modoper tutto il quattrocento e anche oltre.Ma già nella seconda metà del cinquecento la fisionomia del paese, aumentata la popolazione(già nel 1583 Prizzi contava ufficialmente 2.300 ab. ma è un dato per difetto), iniziava a cambiare con la costruzione della attuale chiesa Madre nel 1561 e successivamente del convento francescano dei minori conventuali. I frati francescani infatti stabilitisi a Prizzi intorno al 1582 avevano ottenuto dal vescovo la chiesetta di San Rocco e l’area adiacente dove si iniziò a costruire il convento e si cominciarono a degli ampliamenti della piccola chiesa. Probabilmente anche le nuove case baronali nell’attuale corso Umberto dovrebbero risalire a questo periodo. Queste case occupavano l’area compresa tra la discesa collegio e i quattro cantoni, e si affacciavano sull’attuale Piano Barone non a caso così denominato. Questo nuovo stato preludeva al futuro assetto urbanistico dei secoli successivi basato sull’asse principale dell’attuale corso Umberto.


Al contrario il territorio, terre e casali che appartenevano al castrum di Prizzi, era molto più esteso di quello attuale non essendo ancora stato smembrato. Il che avvenne qualche tempo dopo nel 1482 con la stipula dei famosi “capitoli” da parte di un altro Giovanni Villaraut, signore di Prizzi, con Giorgio Bonacasa, rappresentante della comunità greco-albanese. Con questi capitoli Giovanni Villaraut II si spossessò di una notevole parte del territorio in favore di a Palazzo A. dove quelle genti, emigrate dalla penisola balcanica, si erano stanziate. Questo fatto è stato cruciale e importantissimo per storia di Prizzi, anche per le conseguenze -come è facile intuire- socio economiche e politiche che può avere la dismissione di una parte del territorio. 

 

La costruzione della nuova Chiesa Madre rappresentò uno dei fatti sotto la signoria dei Villaraut che mutò sostanzialmente l’assetto urbanistico e non solo del paese. È plausibile che i lavori iniziarono sotto la baronia di Carlo Villaraut intorno al 1510 per poi interrompersi e riprendere successivamente; ma di certo nel 1561 era bella e finita come testimonia il rosone sulla facciata principale.


Dove si andò a costruire la Chiesa Madre esisteva già una piccola chiesetta costruita qualche secolo prima ai tempi dei Chiaramontani e dedicata a San Giorgio. In origine la nuova chiesa aveva delle cappelle nelle navate laterali che furono seriamente danneggiate alla fine del settecento forse per un terremoto e non furono più ricostruite.

 

La chiesa madre può vantareuna pregevole opera d’arte: la statua in marmo di san Michele Arcangelo di Gagini che conlaMadonna dell’Idria e la Madonna con il Bambinodella chiesa S. Antonio sempre di Gagini rappresentano le vere perle del nostro patrimonio artistico.

Il san Michele porta nel piedistallo lo stemma dei Villaraut il che significa che fu commissionato dalla ricca famiglia per donarlo alla chiesa proprio come solevano fare i grandi signori nelle corti rinascimentali nello stesso periodo nell’alta e nel centro Italia. 

 

I parrocchiani di S. Antonio non la presero proprio bene la costruzione della nuova chiesa e di cederle il primato non ne volevano sapere se dovette intervenire per aggiustare le cose il vescovo di Girgenti. Prizzi appartenne a questa diocesi fino al 1844 per andare far parte poi di quella di Monreale. 


La chiesa di San Giorgio è rimasta l’unica parrocchia dal 1561 fino al 1949 anno in cui fu istituita la parrocchia di San Francesco.  

 

Nel tempo ci sono stati diversi tentativi di insidiare il primato della attuale Chiesa Madre: come ad esempio nel settecento quando fu costruita – proprio con questo proposito - la chiesa del Crocifisso dalla omonima confraternita di facoltosi cittadini che si accollarono le spese di costruzione; o quando alla fine del settecento – come accennato - forse per un terremoto subì dei danni importanti e tali che c’era chi avrebbe voluto abbandonare la chiesa a sé stessa in favore della chiesa del  Crocifisso. Se questo non avvenne fu perché si riuscì a ricostruirla grazie all’aiuto di volenterosi e generosi cittadini.

 

Anche di recente si è paventata la medesima cosa. Ma questo tentativo -percepito da molti-di relegare (de facto non potendosi di diritto) a un ruolo secondario la parrocchia di san Giorgio e quindi la chiesa Madre è stato - come si è voluto far intendere - solo “putativo”. 

 

Non pertanto la Chiesa Madre con il suo magnifico portale cinquecentesco si erge a mille metri di altitudine - dopo cinque secoli - ancora austera e maestosa nel nostro invidiato centro storico, ora più che mai dopo i recentissimi lavori di restauro e il rinvenimento di antichi affreschi nel battistero che saranno anch’essi oggetto di un delicato intervento di restauro.


Con la sua ampia canonica, dove dimorano gli arcipreti di Prizzi, con il suo preziosissimo archivio, la statua di San Giorgio, patrono di Prizzi, e con all'interno un capolavoro della scultura siciliana del ’500  sta li a ricordare a tutti che è e rimarrà  la chiesa più importante della nostra città   con tutti i privilegi e le  prerogativa di tale stato.

 

La linea dinastica dei Villaraut, il tempo e l’ordine con cui sono succeduti non sempre sono pacifici. In un certo momento poi compare anche in alcuni documenti accanto a Villaraut ed unito ad esso un altro cognome Crispo o Crespo quasi come se fosse cambiata la linea dinastica: e nessuno è riuscito a spiegare il perché in maniera convincente. Non potendoci addentrare nelle questioni relative alle varie investiture e reinvestiture (queste ultime quando a un sovrano ne succedeva un altro) o alla mancanza di queste in taluni casi, è possibile tentare - ma sempre con il beneficio d’inventario - una ricostruzione dell’ordine di successione della famiglia servendoci dei vari autori che si sono occupati dell’argomento. 

 

Sembra che il primo barone Giovanni Villaraut (I) sia morto intorno al 1440, quindi dopo circa una ventina d’anni dacché era diventato signore di Prizzi. Egli aveva due figli legittimi Francesco e Aloysio o Luigi. Non è chiaro però se il titolo andò direttamente a quest’ultimo o se invece andò prima all’altro figlio Francesco e poi morto costui celibe passò al di lui fratello Luigi che comunque lo tenne fino al 1480. Anche Luigi come il padre non voleva saperne di pagare il canone per l’enfiteusi ai monaci per cui i rapporti con l’abbazia furono sempre molto tesi. Il commendatario minacciava lo spoglio delle terre ed il barone accomodava in qualche modo la questione servendosi come sempre delle protezioni a Corte. 

 

Alla morte di Luigi gli successe come signore di Prizzi il figlio Giovanni (II), ma non v’è certezza assoluta su questo rapporto di parentela. Giovanni Il non ebbe alcuna investitura. Ma nonostante la brevità del suo potere, non più di due tre anni, compì – come si è già detto - un atto di grande rilievo per la storia di Prizzi: la stipulazione dei capitoli con la comunità greco albanese già stanziata a Palazzo Adriano. Giovanni Villaraut II morì appena un anno dopo tale stipula nel 1483. 

 

L’anno seguente a succedergli fu il barone Don Carlo Villaraut, che pare fosse fratello di Giovanni II e perciò altro figlio del barone Luigi e quindi nipote del capostipite. Luigi pare avesse un altro figlio ancora, Francesco, che potrebbe avere avuto il titolo prima del fratello Carlo anche se per poco: ecco che anche qui si frappone - come già avvenuto qualche decennio prima - un altro Francesco; ma neanche su questo c’è accordo tra gli autori.


Sta di fatto comunque che quella del barone Carlo Villaraut fu una lunga signoria durata fino al 1530 anno della sua morte.


Di esso riferiscono alcuni documenti dell’epoca. Si parla di lui come di un personaggio ricco e influente, religioso (o che tale voleva apparire) e però prepotente. Che fosse uomo autorevole e di peso si deduce dal fatto che nell’eterna lotta che la Chiesa aveva con i morosi Villaraut per il pagamento dei canoni enfiteutici riuscì a spuntarla ed a uscirne indenne pur avendo come “controparte” nientepopodimeno che l’altero e potentissimo cardinale Giuliano della Rovere. Il futuro Papa Giulio II in quel periodo rappresentava infatti la commenda monastica.Il contenzioso instaurato dalla Chiesa si protrasse per sei anni tra Roma e Palermo. Il nostro barone scomunicato e dichiarato nemico della chiesa fu condannato a essere spogliato delle terre di Prizzi. Allora Don Carlo si rivolse – come solevano fare i Villaraut in questi frangenti - al Re (Ferdinando il cattolico) che essendo in Spagna delegò la questione al Viceré e alla fine ottenne nel 1499 una sentenza definitiva la quale disponeva la manutenzione in possesso della baronia di Prizzi mettendo perciò di fatto nel nulla le precedenti sentenze dei tribunali ecclesiastici fortemente volute dal cardinale della Rovere, sentenze che lo avevano condannato invece alla restituzione.

 

Di un fatto raccontano le cronache dell’epoca che è indicativo del temperamento dell’uomo: Don Carlo aveva arrestato il capitano della terra di Corleone ed il suo seguito e li aveva tenuti prigionieri illegalmente.  Per questo fatto fu denunciato e condannato a tre anni da scontare in un castello nei pressi di Taormina. Ma il signor barone aggirò l’ostacolo risarcì la parte offesa pagando una cifra esorbitante ed evitò il carcere. 

 

Ma egli ricco e potente nello stesso tempo curava la sua immagine di uomo religioso: nel 1508 commissionò a due artisti scultori delle costosissime opere in marmo da farsi nel Cappellone dell’altare maggiore della chiesa della Gancia a Palermo di cui la famiglia Villaraut aveva il patronato. Purtroppo tali opere sono andate distrutte per un crollo nel 1672 e di questa grandiosa opera non resta che qualche vestigia. A Prizzi, a dire del Campagna, all’incirca nello stesso periodo fece eseguire dei restauri nella allora chiesa parrocchiale di S. Antonio e si prodigò per la costruzione della nuova chiesa madre dove oggi si trova. Insomma scomunicato com’era voleva riabilitarsi ed apparire uomo generoso e pio. 

 

Del barone Carlo Villaraut ci rimane anche una testimonianza diretta da poco “riscoperta”. È una lastra di pietra sulla quale nel 1488 fece iscrivere a futura memoria che era stato proprio lui, signore di Prizzi, a fare la porta di ferro che dava l’accesso al cortile del castello. Sopra l’iscrizione in bassorilievo fece scolpire lo scudo stemma della sua famiglia. Questa lastra che ci è giunta in buone condizioni rappresenta, - non vorremmo sbagliarci - una delle più antiche testimonianze (e perciò ancora più preziosa) della dominazione civile di Prizzi. Un reperto storico tra i pochi che non ha a che fare con la chiesa, depositaria di quasi tutte le antichità storiche e artistiche che riguardano il passato del nostro paese. 


Questa targa commemorativa ha avuto una lunga “odissea”: scomparso il castello inglobato in abitazioni private, essa fu posta nel prospetto laterale della facciata della Madre Chiesa che dà su Via Conciliatore forse fin da quando la chiesa fu costruita nel 1561. Poi nei primi del secolo scorso fu rimossa - non sappiamo il reale motivo - e conservata in attesa di essere meglio collocata. È stata rinvenuta in epoca (relativamente) recente avvolta in un tappeto e adagiata dietro l’altare maggiore. Rimasta ancora quasi mezzo secolo “in deposito” dopo il rinvenimento, adesso sembra sia arrivato proprio il momento buono per collocarla definitivamente nel sito dove è più logico sia collocata cioè nell’area del vecchio castello o nel rudere della torre dove in origine era posta, luoghi “deputati” a conservarla per il futuro. 

 

Don Carlo aveva preso in moglie la nobildonna Beatrice Ribelles la cui famiglia aveva anch’essa origini spagnole e catalane dalla quale ebbe dei figli: Giovanni, il primogenito, il quale però non gli successe nella baronia alla sua morte nel 1530 e non è chiaro il motivo (forse per premorienza chissà) A succedergli invece fu il nipote, figlio dell’altro figlio Luigi, cioè Filippo Crispo e Villaraut.

Questi governò Prizzi per vent’anni fino al 1550 e dopo la sua morte ereditò la baronia il di lui figlio Giovanni (III)l’ultimo “epigono” dei Villaraut. 

 

Nessuna tomba o mausoleo esiste a Prizzi di tutti questi signori baroni, che per quasi due secoli hanno avuto il dominio del nostro paese. 


Le uniche tombe dei Villaraut che si conservano a Prizzi si trovano nella chiesa di San Francesco. I due mausolei, notevoli per imponenza, sono posti l’una di fronte all’altra nel coro dell’altare maggiore e sono quelle di Pietro Villaraut a destra dell’altare e quello del fratello Girolamo a sinistra. Costoro non furono signori di Prizzi. Figli di un Giovanni Villaraut e di Giovanna Saglimbene appartengono ad altro ramo della nobile famiglia. 

 

Nella saga dei Villaraut si rincorrono spesso - come si è visto - i nomi di Giovanni o Gioè: si chiamava Giovanni il capostipite colui che inizio la signoria a Prizzi. Giovanni era il Signore di Prizzi che stipulò nel 1482 i famosi “capitoli” con la comunità greco-albanese. Giovanni si chiamava il primogenito dell’altezzoso barone don Carlo che però non ereditò il titolo. Giovanni, ma appartenente ad un altro ramo della famiglia Villaraut, era il padre di Pietro e Girolamo seppelliti nella chiesa di san Francesco a Prizzi. E Giovanni (III) infine si chiamava anche l’ultimo barone con il quale tramontò, - almeno per il ramo maschile -, la signoria dei Villaraut a Prizzi. 

 

Quest’ultimo barone aveva sposato intorno al 1550 una nobile dama palermitana Caterina de Andrea figlia di Girolamo e di Elisabetta Agliata, che a sua volta discendeva dalla potente famiglia degli Aiutamicristo. A Palermo abitavano un nobile dimora in quella che allora veniva chiamata Via di Porta Termini, oggi via Garibaldi nei pressi della Stazione centrale. Palazzo Villaraut sta ancora lì con la sua imponenza; all’interno è stata inglobata la chiesa di santa Caterina da Siena. 

 

Giovanni Villaraut III era uomo importante avendo ricoperto anche la carica di Pretore di Palermo ma come tutti i suoi antenati aveva il malvezzo di non pagare puntualmente o di non pagare affatto i canoni ai monaci per cui nel 1571, dichiarato usurpatore, fu scomunicato dal Tribunale della Sacra Rota. Ma il fatto naturalmente non lo turbò, tanto che egli in vita non si risolvette mai ad onorare il suo debito. Alla sua morte avvenuta nel 1586, da par suo, fu sepolto nel cappellone di famiglia nella chiesa della Gancia a Palermo. Sappiamo questo grazie ad uno storico siciliano, l’abate Antonio Mongitore, che in una sua opera riporta l’epitaffio della sua tomba e la data della morte, epitaffio che non esiste più. Sennonché questa volta la Chiesa e il Papa ci andarono con la mano pesante e ordinarono proprio perché moroso nei confronti della Chiesa e perciò fuori dalla grazia di Dio che fosse disseppellito dalla chiesa della Gancia. La vedova, persona pia e religiosa, per non subire l’onta, pare si sia recata personalmente a Roma dal Papa a supplicarlo promettendo di pagare gli arretrati e saldare il debito per riabilitare il marito e dargli così una cristiana sepoltura. Si ignora come finì la storia.

 

La vedova Caterina, che non aveva avuto figli dal barone, doveva succedere al marito nella signoria di Prizzi ma la successione le fu contestata e fu spogliata del titolo e dall’investitura baronale nel 1591 grazie a una sentenza di un Tribunale civile del Regno per una causa promossa nei suoi confronti da Giovanna Velasquez Villaraut, nipote del defunto barone. Costei era la figlia della sorella del barone Giovanni, Antonia, la quale aveva sposato il nobile Pietro Velasquez. Giovanna era andata in sposa a Francesco del Bosco, conte di Vicari e duca di Misilmeri e pertanto il feudo di Prizzi e il titolo nobiliare passarono alla famiglia del Bosco. E così conclusasi l’era dei Villaraut ebbe inizio il dominio di un’altra nobile famiglia sulla nostra città. 

 

Caterina “spodestata” lasciò per sempre Prizzi e si trasferì definitivamente a Palermo. Tenendo fede alla sua indole di persona religiosa e devota dispose per testamento che alla sua morte fosse fondato un istituto per vergini nobili e povere dedicato a santa Caterina. Tale conservatorio femminile ebbe sede nella stessa casa dove ella aveva abitato con il marito Giovanni Villaraut e dove fu edificata anche la chiesa tuttora esistente di Santa Caterina da Siena. E la missione di carità, che era lo spirito del legato della baronessa di Prizzi, continua a distanza di cinque secoli perché nel palazzo Villaraut di via Garibaldi ha sede dal 1998 una comunità di donne povere ed emarginate chiamata “Accoglienza Femminile”, struttura gestita dal missionario Biagio Conte.

 

Ironia della sorte le due nobildonne morirono nello stesso anno 1602 a distanza di pochi giorni l’una dall’altra: Giovanna la moglie di del Bosco a soli 39 anni il 12 marzo e fu sepolta nel cappellone della chiesa della Gancia (l’epitaffio sulla sua tomba perduto viene riportato ancora dal Mongitore).


Caterina, la moglie dell’ultimo barone Villaraut, Giovanni III, morì il 25 marzo e fu sepolta nella chiesa di San Francesco di Paola sempre a Palermo nella quinta cappella a sinistra, dove è possibile ammirare il sarcofago e l’epitaffio funebre ancora perfettamente leggibile dell’ultima vera baronessa di Prizzi. 

 

Per finire a proposito della nostra storia passata si impone una riflessione sul presente. Volenti o nolenti le nostre radici storico-culturali, la nostra identità come comunità di popolo, le nostre tradizioni sono legate indissolubilmente alla Chiesa e alla esperienza secolare del Cristianesimo. Le vecchie chiese numerose nel nostro paese, i riti religiosi con le loro secolari tradizioni, le processioni, ma anche le antiche vestigia del castello, le piazze e le caratteristiche viuzze di impianto medievale del centro storico nel loro insieme testimoniano il nostro passato, quello che nei secoli siamo stati. Sono insomma la nostra memoria storica. Tutto questo va pertanto conservato oggi se si vuole avere un futuro domani.

 

Si nota invece inspiegabilmente - in controtendenza con quello che avviene in altre realtà urbane - che sono in atto delle spinte tese a spostare sempre più il baricentro della vita religiosa e sociale (e a Prizzi spesso quest’ultima si identica con la prima) in periferia e a trascurare il cuore di Prizzi dove per secoli ha pulsato la vita, quasi ignorando gli almeno dodici secoli di storia che ci hanno preceduti e i luoghi che sono stati teatro di questa storia.

E tutto questo, tra le altre cose, non è un bene nemmeno per l’economia e il turismo perché è chiaro che lo sviluppo economico di Prizzi passa anche attraverso il centro storico ed a una sua, per quanto possibile, vitalità.  Per contro, continuare a tirare la corda da tutt’altra parte non è certamente un atteggiamento strategico.

 

C’è da sperare che le varie associazioni che operano a Prizzi - anche quelle religiose - mettendo da parte campanilismi e ragioni di opportunità, e i giovani che hanno sensibilità per il nostro passato e le tradizioni della nostra città (e sono tanti) comincino a non accettare passivamente questo modus operandi perché alla lunga esso si rivelerà deleterio per tutti. 

 

Prizzi, ottobre 2020

Salvatore Sulli


ALBERO GENEALOGICO DEI VILLARAUT SIGNORI DI PRIZZI




GALLERIA FOTOGRAFICA

Nel riquadro, l'abitato di Prizzi nel XV sec.

Rudere della torre del castello

Lastra di pietra con lo stemma dei Villaraut
e iscrizione del 1488 che sormonta
la porta del cortile del castello

La chiesa di Sant'Antonio,
Chiesa Madre fino al 1561

Una parte del muro della vecchia residenza
baronale in un cortile della via Sant'Antonio

La Chiesa Madre dopo il recente restauro della facciata

Particolare del portale cinquecentesco della Chiesa Madre

Statua di marmo di San Michele Arcangelo
del Gagini nella Chiesa Madre

Madonna con il bambino, nella Chiesa di Sant'Antonio

Tomba di Pietro Villaraut nella Chiesa di San Francesco, a Prizzi

Tomba di Girolamo Villaraut nella Chiesa di San Francesco, a Prizzi

La cappella di Santa Caterina nella Chiesa di
San Francesco di Paola a Palermo, dove si trova
il sarcofago della baronessa Caterina de Andrea Villaraut

Epitaffio sulla tomba di Caterina de Andrea Villaraut

Palazzo Villaraut, in via Garibaldi a Palermo,
dove è inglobata la chiesa di Santa Caterina da Siena

Stemma dei Villaraut


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