Prizzi, Il ballo dei diavoli |
E comunque anche se Sciascia non venne mai a Prizzi, del Ballo dei Diavoli vide certamente le foto avendone scritto - anche se solo en passant e in un contesto più generale - nel saggio introduttivo del libro fotografico su Le feste religiose in Sicilia pubblicato nel 1965 (ed. Leonardo da Vinci Bari) a commento delle fotografie che un giovanissimo fotografo di Bagheria, Ferdinado Scianna, diventato poi uno dei grandi maestri a livello internazionale, aveva scattato nei primi anni sessanta in giro per i paesi della Sicilia. E tra questi paesi c’era anche Prizzi, dove Scianna arrivò nella Pasqua del 1963.
Già dal titolo il saggio si presentava come tutto un programma: “Una candela al santo e una al serpente” espressione del filosofo francese Montaigne usata da Sciascia per compendiare il rapporto dei siciliani con la religione e la religiosità.
Egli, partendo molto da lontano e attraverso un complesso ragionamento, taccia di irreligiosità i siciliani che ritiene materialisti e refrattari alla religione e alla trascendenza e nel chiedersi alfine (ed è questa la parte del saggio in questione) cosa è veramente allora una festa religiosa in Sicilia, scrive che sarebbe facile rispondere che è tutto tranne che una festa religiosa. E impiegando con approssimazione - come precisa lui stesso - i termini della psicanalisi dice che una festa religiosa è innanzitutto una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’“es” collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello di “es” poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso “super-io” per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città. In questo senso - continua Sciascia - ha valore di festa la consultazione elettorale perché è il momento in cui il partito, la politica effettualmente esiste cosi come un tempo nelle feste patronali o liturgiche veniva a configurarsi anche attraverso una eccezionale esplicazione di poteri di licenza di potere colpire persone di più alto ceto, l’esistenza di una corporazione, di un ceto, di una classe. Ed ecco il punto: per dar forza a questo suo pensiero Sciascia cita ad esempio la festa di Prizzi e quella di San Fratello in provincia di Messina: infatti, conclude che “il voto viene spesso usato come un tempo il contadino e il pastore di San Fratello mascherato da giudeo usava la disciplina di ferro per colpire i signori come il popolano di Prizzi, impersonando la morte faceva il ricco bersaglio delle sue frecce”. Senza volere scendere nel merito delle tesi di Sciascia e men che meno addentrarci nella polemica che ne conseguì con gli ambienti ecclesiastici, resta il rimpianto che non abbia detto di più su Prizzi come invece con i “giudei” di San Fratello a proposito dei quali ha fatto poi una digressione. In compenso però ci sono nel libro alcune foto in bianco e nero di eccezionale qualità di Ferdinando Scianna sulla festa di Prizzi di quel lontano 1963.
A dire il vero vi è anche dell’altro sulla nostra benamata festa: nella postfazione al libro intitolata Brevi note alle immagini, dove lo stesso Ferdinando Scianna scrive di suo pugno delle brevissime didascalie delle varie feste religiose da lui fotografate, si dice che “l’abbalu di li diavuli” movimenta la Pasqua di Prizzi. Le tre maschere dei diavoli e della morte sono di proprietà della Chiesa ed il parroco le dà in affitto concordando la cifra di anno in anno. Ed è sempre un buon affare per quelli che le prendono a nolo. La morte, infatti, e i suoi due compari non si limitano più a lanciare i loro strali sulle vittime prescelte, ma pretendono anche il pagamento di un sostanzioso balzello e si danno talmente da fare durante la giornata da essere costretti a darsi il cambio in nove nell’indossare le maschere.
Se cosi stavano le cose, viene da pensare che questo “estorcere” sostanziosi balzelli a chi assiste alla festa entrò in uso in quel periodo o qualche decennio prima e dunque non faceva parte dell’originario svolgimento della manifestazione, dove la morte e suoi comparisi limitavano a lanciare i propri strali sulle vittime; adesso e in più rispetto a prima pretendono anche il pagamento di un obolo: il tutto ha logicamente un senso se letto in relazione a questa specie di mercimonio (protrattosi fino agli anni settanta e oltre) che si era venuto a creare tra il prete che affittava le maschere per conto della Chiesa ed i privati del comitato organizzatore che si facevano pagare dagli spettatori per lucrare a loro volta.
E quel che si è venuto dicendo potrebbe trovare riscontro nel confronto fra questa ultima descrizione che è dei primi anni ’60 con quell’altra - sempre nel libro - di una ottantina di anni prima riportata nell’”epigrafe” che precede e accompagna le foto prescelte dagli autori per la festa religiosa di Prizzi. Descrizione tratta da un saggio di Giuseppe Cocchiara, studioso di tradizioni popolari, che descrive il Ballo dei Diavoli usando le stesse parole del Pitrè:
"Le stranissime figure son dei giovani in sacchi neri con maschere brutte e paurose. La Morte con la balestra in mano pronta a ferire è addirittura orribile. Quando prende di mira qualcuno della folla, prima si getta a terra poi di botto scaglia la saetta e fugge, i diavoli gongolanti di gioia prima si lanciano addosso alla preda e se la caricano sulle spalle come per portarla all’inferno. Immaginiamoci la ilarità degli spettatori, la confusione del minacciato, le pazzie dei mascherati".
Nulla, nemmeno un accenno, su esborso di denari o sul prezzo del riscatto da pagare con effetto liberatorio per la vittima prescelta. Anzi la morte prima e i diavoli poi danno spettacolo, bersagliando chiunque (proprio l’occasione - di cui parlava Sciascia - da parte del popolano, del contadino semel in anno di potere colpire uno ricco, un signore, un notabile) e mettendo alla berlina i malcapitati fanno divertire il pubblico che – appunto - doveva essere la originaria finalità di questa azione scenica dei diavoli nella parte che precedeva “u ncontru” vero e proprio.
Ma la nostra – va da sé - è solo una ipotesi.
Ai giorni nostri la festa della Pasqua con il suo ballo dei Diavoli si è adeguata giocoforza ai tempi. Adesso è un ente, la Pro-loco di Prizzi, che gestisce la manifestazione e ne cura in maniera eccellente tutta la organizzazione, grazie all’impegno e alla dedizione dei suoi attivisti.
E anche la richiesta del balzello “liberatorio”, rimasto tale fino a poco tempo fa, negli ultimi anni si è di molto attenuata nell’uso, e ora più opportunamente si tende a privilegiare lo spettacolo di balli che coinvolgono diavoli e spettatori che in tal maniera intrattengono il numeroso pubblico prima dell’incontro.
Il libro di cui si è finora parlato è ormai purtroppo quasi introvabile e le poche copie reperibili hanno prezzi proibitivi; lo si può consultare nelle biblioteche e non in tutte, a es. nella biblioteca comunale di Prizzi non c’è, eppure dovrebbe starci di diritto. Il libro fu ripubblicato negli anni 80 in un formato più grande dalla casa editrice L’ Immagine ma anch’esso è ormai una rarità.
Il saggio comunque è stato inserito - ma senza le foto - nella raccolta di scritti di Sciascia La Corda Pazza. Scrittorie cose di Sicilia (Einaudi 1971). Quanto alle foto si possono ammirare sul sito di una delle più prestigiose e importanti agenzie fotografiche internazionali: la Magnum Photos dove si possono ammirare anche tanti altri scatti non presenti nel libro fotografico e che restano tra gli scatti più straordinari sul ballo dei diavoli di Prizzi.
Il saggio non risultò affatto gradito alla Chiesa e alle gerarchie che ritenevano per bocca di alti prelati invece i siciliani un popolo “cattolicissimo” e che si risentirono non poco delle parole di Sciascia.
E così la reazione della Chiesa non si fece attendere: qualche mese dopo la sua pubblicazione sul quotidiano della Santa Sede, “L’Osservatore Romano”, ebbe un commento poco lusinghiero anzi una vera è propria stroncatura con un articolo di Fortunato Pasquino, scrittore e intellettuale anch’esso siciliano. Critica che si estese anche alle fotografie per il loro stile per il contenuto per la loro scelta che era stata fatta – fu detto - per avvalorare le tesi di Sciascia.
Naturalmente lo scrittore non se ne diede pensiero e qualche anno dopo, esattamente nel 1979, in una lunga intervista alla giornalista francese Marcelle Padovani che appare in La Sicilia come metafora (Ed. Mondadori), ribadì il suo pensiero:
“In quanto al cattolicesimo dei siciliani, - dice lo scrittore - ne ho fatto discorso nella prefazione al libro fotografico Feste Religiose in Sicilia. Nonché al cattolicesimo, ho notato la refrattarietà quasi assoluta dei siciliani alla religione. E non senza rammarico perché se i popoli religiosi sono capaci di fare rivoluzioni religiose, sanno anche dare il via a rivoluzioni civili”.
Più chiaro di così! E poi, come dargli torto?
Prizzi, febbraio 2020 Salvatore Sulli
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