“A S.E. Procuratore Generale del Re Palermo la sottoscritta Pecoraro Vincenza fu Giorgio vedova di Alongi Nicolò prega Vostra Eccellenza…” inizia così la istanza che la moglie di Nicolò Alongi rivolge il 15 ottobre dell’anno del signore 1925 e III dell’era fascista al Pubblico Ministero per riavere tutto quello che più di cinque anni prima era stato sequestrato nella immediatezza dell’omicidio del marito avvenuto a Prizzi la sera del 29 febbraio del 1920 e a più di due anni dalla fine del processo che aveva definitivamente assolto i presunti responsabili.
Per avventura ci siamo imbattuti in questo eccezionale documento. Eccezionale non per il valore di fonte documentaria in senso stretto perché poco o nulla aggiunge sul piano della ricostruzione storica dei fatti del vile assassinio di Nicolò Alongi, ma per l’impatto emotivo, sentimentale: quel foglio di carta ingiallita e consunto dal trascorrere del tempo di quasi un secolo, scritto e firmato di proprio pugno da quella povera donna cui la mafia aveva soppresso il marito, leader del movimento contadino, desta commozione compassione empatia.
Il 15 di ottobre del 1925 la vedova di Nicolò Alongi - ci permettiamo di osservare probabilmente mal consigliata - rivolge la sua richiesta al Procuratore Generale, a un organo incompetente però, secondo il rito processuale, a potere ordinare la restituzione degli effetti personali del marito. E cosi il Procuratore Generale il 3 novembre, cioè 19 giorni dopo, rimette l’istanza all’ufficio decidente della Corte di Assise di Palermo per i relativi provvedimenti. Ricevuta l’istanza in data 23 novembre viene ordinato alla cancelleria della Corte di Assise di ritrasmettere -come prevede la procedura - l’istanza e il processo ormai archiviato - e previa sua acquisizione - nuovamente al Procuratore Generale perché esprima il suo parere sulla chiesta restituzione. A questo punto succede un fatto che se non fosse per il dramma cui è connesso potrebbe apparire comico, pirandelliano: il 27 novembre il cancelliere addetto all’archivio informa il sig. cancelliere della Corte di Assise che dalle pandette diquesto ufficio degli anni 20,21,22,23,24 e 25 non risulta né l’imputato né la parte lesa quindi conclude probabilmente il fatto non è accaduto in questo circondario o è avvenuto in altra epoca. Forse avrebbe fatto bene a cercarlo un po’ meglio prima di rispondere con una nota così perentoria; infatti prodigiosamente il processo compare qualche giorno dopo tant’è che il 2 dicembre arriva sulla scrivania del Procuratore Generale il quale poiché nulla osta all’accoglimento dell’istanza - bontà sua - non si oppone. Finalmente la Corte di Assise il 10 dicembre in nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III in conformità alla richiesta del Pubblico Ministero ordina la restituzione dei reperti sequestrati.
Se ci siamo oltremodo dilungati su queste aride procedura è perché si è voluto dare uno spaccato dell’apparato dello Stato di un secolo fa con la sua burocrazia i suoi tempi e le sue disfunzioni, un apparato formalista e rigido osservante delle regole ma spesso poco efficiente a perseguire i gravissimi delitti di sangue che numerosi venivano consumati, soprattutto quando questi delitti avevano uno sfondo “politico”; ci si riferisce naturalmente all’apparato nel suo complesso organico: forze di polizia prefetti questori sottoprefetti delegati di p.s. magistratura inquirente etc.
Fu perciò magra consolazione per la vedova riavere quello che apparteneva al marito ucciso - ignoriamo nei particolari di cosa si trattasse: il provvedimento di restituzione parla genericamente di oggetti che aveva addosso - senza però avere ottenuto, dopo ben cinque anni, quella giustizia cui pure aveva diritto e cioè di vedere accertate le responsabilità di killer e mandanti dell’omicidio del marito: e questo nonostante - come si apprende dal rapporto redatto dal vice questore di Palermo all’autorità giudiziaria - la sera stessa dell’omicidio si “catapultarono” a Prizzi un Maggiore e un Capitano dei Reali Carabieri e un Vice-Commissario di Polizia oltre che per provvedere alle esigenze del momento (leggi per non compromettere l’ordine pubblico) per iniziare pronte e accurate indagini per la scoperta dei responsabili dell’efferato delitto che per la personalità dell’Alongi, per il partito cui egli apparteneva, per i suoi vasti rapporti politici e di fede, non poca impressione ha prodotto.(detto rapporto è integralmente riportato in appendice al libro “Vita Politica e Martirio di Nicolò Alongi contadino socialista” del Prof. Giuseppe Carlo Marino edito nel 1997). Giustizia “negata” dallo Stato alla vedova da quello stesso Stato a cui ora essa si era rivolta con deferenza: si noti l’uso del verbo pregare (la sottoscritta prega V.E. ...) dove traspare la sudditanza della “povera gente” di fronte alla autorità costituita. Riguardo poi al titolo di Eccellenza di cui si fregiavano alcune autorità dovevano passare altri 20 anni prima che fosse ufficialmente abolito con la caduta del fascismo. Come detto all’inizio con sentenza del 22 luglio 1922 della Corte di Assise di Palermo tutti gli imputati tratti a giudizio vennero dichiarati assolti dalle imputazioni di omicidio in persona di Alongi e non risulta in seguito esserci stata alcuna riapertura di indagine come a dire che il grave delitto di fronte alla Storia è rimasto impunito per sempre, mentre alla vedova non rimanevano che quelle poche cose che lo Stato si era degnato di restituirle.
Prizzi novembre 2019
Salvatore Sulli
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