SALVATORE VAIANA, Recensione a “Ignazio Buttitta dalla piazza all’universo” di Marco Scalabrino


Attualità del canto di Ignazio Buttitta nell’impoetica contemporaneità

Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrobbanu ‘a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
(I. Buttitta) 



Nell’odierno mondo globalizzato tendente all’affermazione di una neolingua di memoria orwelliana e di un pensiero unico espressioni della totalizzante tecnologia, del pervadente capitalismo finanziario e multinazionale e del guerrafondaio neoimperialismo, la valorizzazione delle culture e delle lingue, dialetti compresi, potrebbe rappresentare un contributo utile per la costruzione di un più ampio pensiero antagonista che possa darci la speranza di una diversa globalizzazione, fondata sul coesistente pluralismo delle identità e delle culture dei popoli, sui diritti umani, sulla democrazia reale, sul rispetto dell’ambiente, sulla pacifica convivenza umana.
In questa prospettiva si può accogliere la recente pubblicazione Ignazio Buttitta dalla piazza all’universoa cura di Marco Scalabrino, pubblicato da Edizioni dell’Autrice, Venezia 2019. Il titolo evoca la breve poesia Gnaziuche Scalabrino dedicò al poeta nel calore dell’emozione per la sua morte: «Gnaziu omu / Gnaziu cumpagnu, Gnaziu pueta. // Astura / è l’universu / la to chiazza
Ignazio Buttitta, poeta siciliano di Bagheria vissuto fra il 1899 e il 1997, è espressione di una cultura antitetica a quella attualmente dominante, tende infatti ad affermare valori fondamentali come il rispetto dell’uomo, il valore della lingua e delle radici culturali di ogni popolo, l’eguaglianza sociale, la pace. 
Questo libro ne ricostruisce il percorso poetico e la vita utilizzando i contributi di diversi studiosi (preponderante quello di Salvatore Di Marco) in una forma peculiare: il rispetto testuale dei diversi apporti critici sono riportati in una successione discorsiva riflettente la visione che Scalabrino ha del nostro poeta. Lo scopo, come egli testualmente dichiara, è «non tanto quello di assemblare una rassegna di acquiescenti responsi, quanto quello di provare a montare gli spezzoni di una pellicola, di allestire un archivio, di approntare un dossier quanto più ampio possibile di documenti, testimonianze e opinioni, che nel loro rapportarsi possano favorire la conoscenza e la comprensione più estese e dinamiche delle opere di Buttitta.»
Scalabrino individua due periodi nel percorso artistico del poeta, fra i quali non ci sono «né pause né silenzi», c’è invece una «costanza delle scelte», come scrive Marta Puglisi, individuabile nella «fedeltà alla lingua che fin dall’inizio è stata sentita l’unica capace di esprimere il suo mondo, il dialetto siciliano» e nella «fedeltà all’attenzione ai problemi politico-sociali della realtà che lo circonda».
Nel primo periodo, che va dal 1922 al 1954, Buttitta pubblica due opere, Sintimintali (1922) e Marabedda (1928), oltre a diverse poesie sulle riviste La TrazzeraPo’ t’ù cuntu di Palermo e Lu Marranzanu Il popolo di Sicilia di Catania. 
In questo periodo, se sul piano della formazione ideale e politica è da evidenziare la sua scelta pacifista (una vera e propria fede maturata dopo la dura esperienza sul fronte della Grande Guerra che lo induce alla convinzione che «la guerra è la più feroce bestialità che l’uomo possa concepire» e che «i veri grandi eroi sono gli uomini che lottano per evitarla»), il suo coraggioso antifascismo e la sua adesione, in nome di un intimo senso di giustizia sociale, al Partito comunista; sul piano della prima formazione poetica invece è da rilevare il rapporto con due suoi maestri e grandi poeti dialettali della prima metà del Novecento: Vito Mercadante di Prizzi e Alessio Di Giovanni di Cianciana (di entrambi Scalabrino è un attento studioso). L’incontro con Mercadante ebbe una valenza sia ideale e politica che poetica. I due, scrive l’autore, «si conobbero negli anni Venti» e collaborarono, fra l’altro, con La Trazzera. Un influsso politico e poetico di Mercadante su Buttitta, nota ancora Scalabrino, lo si trova esemplificativamente nelle poesie di questi Primu maggiuMuttetti pupulari. Buttitta, d’altra parte, «apprezzò» il maestro e amico definendolo «“umile, silenzioso, vera e poderosa tempra di poeta dal cuore nobile”, non solo per precisi contenuti della sua poesia, ma anche “in forza di quegli aspetti della sua vita militante che lo videro impegnato nella lotta sindacale, negli ideali rivoluzionari e nella avversione di matrice anarchica al fascismo”.» Diverso il suo rapporto con Di Giovanni almeno a partire dal 1927, quando questi non gli fece la richiesta traduzione italiana di Marabedda. Egli, amaramente contrariato di ciò, gli rispose profeticamente: «La più grande distanza fra voi e noi l’ha creata il tempo. Il paragone lo faremo fra quarant’anni. E se la vostra strada è grande e luminosa, mi fa pena dirvelo, sta per finire e la nostra sta per cominciare». I due maestri rimarranno comunque un punto di riferimento non solo per la formazione poetica del bagarese ma per tanti poeti dialettali siciliani del primo Novecento. Ed è Buttitta stesso - ci ricorda Scalabrino nel suo saggio Vito Mercadante e Focu di Mungibeddu (Prizzi 2009) - a dichiararlo in una sua lettera del 1954: «Non ho paura di affermare che il merito di avere aperto la strada alla poesia siciliana spetti al Di Giovanni, a Mercadante, a Platania e a tutti gli altri della loro epoca».
Il secondo periodo si apre nel 1954 con la pubblicazione di Lu pani si chiama pani, «l’opera che diede avvio alla stagione dei suoi grandi successi», e si chiude nella seconda metà degli anni Ottanta.  Vengono poi passate in rassegna critica: Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali (1956), Lu trenu di lu suli La vera storia di Salvatore Giuliano (1963), La peddi nova (1963), La paglia bruciata (1968), Io faccio il poeta (1972). 
La pubblicazione di quest’ultima opera cade nel mezzo di questo periodo ed è il lavoro centrale del poeta, quello «più difficile, più complesso», scrive Leonardo Sciascia nella Prefazione, perché «c’è, alta su tutto, la coscienza» del poeta. Fra le liriche di quest’opera ampio risalto viene dato a Lingua e dialettucon brani di tanti autorevoli critici, fra cui Pier Paolo Pasolini che mette in evidenza l’incombente «svuotamento del dialetto, insieme alla cultura particolare che esso esprimeva», e Gian Luigi Beccaria, il quale chiarisce così il rapporto fra il dialetto, il contenuto e il fine dei canti del poeta: «Al dialetto non ci si affida come a lingua dell’affettività domestica e dell’abbandono rassegnato alle cose, ma per un’identificazione profonda con gli uomini che sono stati posti al margine della storia. Per loro Buttitta compone canti sociali, di protesta, canti che testimoniano, che vogliono commuovere e sommuovere, che anelano alla crescita politico-culturale del popolo; denuncia oppressioni e ingiustizie, propone modelli di eroi popolari». Insomma, sintetizza Scalabrino con un’immagine di pregnante vitalità, «il proprio dialetto è centrale per il popolo siciliano, è il liquido amniotico che lo avvolge, lo alimenta, lo identifica; il popolo siciliano non esiste al di fuori di esso». A valorizzare questa poesia, considerata a ragione una «dichiarazione di poetica» (Federico Guastella), e la sua opera in generale furono Mario Chiesa e Giovanni Tesio nell’antologia a loro cura Le parole di legno, pubblicata da Mondadori nel 1894: assieme a Tempu longuUna vota e ora, vi compare infatti Lingua e dialettu. Finalmente, dopo le troppe dimenticanze dei decenni passati messi in rilievo da Scalabrino, Buttitta entrò «in un qualificato repertorio nazionale» (S. Di Marco). Questo riconoscimento fu seguito da quello di Carlo Muscetta che al bagarese dedicò ben 40 pagine del suo Parnaso europeo.
Vengono infine esaminate Il poeta in piazza (1974), Lu curtigghiu di li Raunisi (1975), Le pietre nere (1983) e Colapesce (1986).
A chiusura del libro l’autore pubblica alcuni versi di Buttitta di struggente attualità tratti da La Sicilia:  «… / La Sicilia è spupulata, / un disertu ogni paisi, / e nne strati vecchi e cani, / porti chiusi e robbi stisi. // Sunnu a l’èstiru ‘i picciotti / cu li vrazza forti e sani / pirchì ‘u patri talianu / non ci dava un pezzu ‘i pani

Salvatore Vaiana

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