GAETANO AUGELLO, "Palazzo Adamo Bartoccelli, Secolo XVIII, Via Colombo"

Il Palazzo Adamo Bartoccelli, splendido esempio di architettura tardo barocca siciliana ed espressione di una borghesia di buon gusto, sorge nel cuore di Canicattì, a metà strada tra la moderna piazza IV Novembre abbellita dalla Fontana del Nettuno e il vecchio centro storico di Borgalino dove vissero gli antichi tagliatori di pietre che diedero il nome alla città.
L’edificio fu costruito fra il 1720 e il 1740 da Antonino Adamo là dove la sua famiglia, tra le attuali vie Colombo, Minghetti, Dandolo e Marconi, possedeva da anni un tenimento di case. Gli Adamo, nella seconda metà del Seicento, così come tante altre famiglie di proprietari terrieri, avevano acquistato sempre più potere sottratto ai Bonanno, i signori della città, impegnati quasi sempre a tessere trame di potere nelle città siciliane più importanti, in particolare Palermo e Siracusa, e nella stessa corte di Napoli.
Gli Adamo nel Settecento acquistarono grandi tenute ottenendo al contempo l’agognato titolo nobiliare: nel 1763 comprarono da Antonio Lucchesi, principe di Campofranco, le 105 salme del feudo Grazia e, nel 1767, il feudo Grasta dal principe di Paternò Giovanni Luigi Moncada. Molte vendite allora avvenivano cum Verbo Regio e con lo scudo di perpetua salvaguardia: era una vendita coercitiva cui si ricorreva quando il bene era già soggiogato e cioè ipotecato. Solo in pochi casi il re concedeva ai nuovi padroni il diritto di fregiarsi dei titoli nobiliari spettanti ai precedenti proprietari, ma questo passaggio avveniva regolarmente de factu. Antonino Adamo, sposato con donna Rosa Corbo, ottenne il titolo di barone di S. Maria di Spataro commutato in data 20 marzo 1757 in quello più prestigioso di barone di S. Maria del Monte, un feudo del territorio di Naro comprendente le tenute di Spagnuolo, Alessandrina e Sciabbani.
Palazzo Adamo, divenuto il simbolo della nuova borghesia cittadina, visse il suo momento di maggior gloria allorché nel 1838 il re Ferdinando II di Borbone decise di compiere un viaggio in Sicilia per esprimere la sua solidarietà al popolo colpito, l’anno precedente, da una grave epidemia di colera. Canicattì fu inserita fra le città che il sovrano avrebbe visitato e ciò in omaggio al barone Gioacchino La Lomia che nel suo governo ricopriva l’importante carica di ministro di Grazia e Giustizia e del Culto. Dopo aver visitato Caltanissetta, il re e la consorte Maria Teresa il 17 ottobre partirono di buon mattino in lettiga e in serata giunsero a Canicattì, ove furono ospitati nel Palazzo di via Colombo. Il sovrano non poté infatti essere ricevuto né pernottare nel luogo fino ad allora simbolo della città, il vecchio Castello dei Bonanno ormai disadorno ed abbandonato, ma in una dimora privata, pur se prestigiosa, simbolo delle nuove famiglie emergenti. Fu anche quello un segno di un passaggio epocale. 
A sera il popolo fece festa: attorno al Palazzo era stata predisposta una luminaria e quando il re si affacciò da una finestra per salutare ebbe una gradita sorpresa. In lontananza, sulla cima della Serra Puleri, si alzarono fiamme altissime dalle cataste di legna e paglia predisposte nei giorni precedenti. Il re, ammirato, volse lo sguardo al suo ministro Gioacchino La Lomia che stava accanto a lui ed esclamò soddisfatto: “Maestà… a Napoli voi avete il Vesuvio… a Canicattì, col vostro permesso, noi abbiamo la Serra Puleri!”. In effetti la Serra Puleri ricorda, pur se in scala assai ridotta, il Vesuvio. Pare che in tale circostanza il re abbia dichiarato: “Questo paese darà meglio!”. Da allora, come atto di omaggio, la finestra da cui si affacciò re Ferdinando rimase sempre chiusa.
Alla morte di Antonino Adamo, nel 1775, il Palazzo divenne dimora del figlio barone Gaetano e della moglie donna Caterina Turano di Campello da Ribera. La successione fu regolata con meticolosità da Antonino Adamo che ebbe particolare attenzione anche per il figlio Carlo, sacerdote e vicario foraneo della città. Antonino volle essere sepolto nella cappella di S. Gaetano all’interno della Chiesa Madre per la cui costruzione si era impegnato insieme ai figli. Dispose che alla sua morte fossero celebrate 10 messe dai frati conventuali della chiesa di S. Francesco, 10 dai padri carmelitani, 10 dai domenicani e 24 dai frati minori della chiesa dello Spirito Santo alla ragione di tarì uno e grana cinque per cadauna ed altre messe ancora per un totale di 192. Destinò altresì 50 onze in maritaggio di n. otto donzelle vergini, n. sei per onze sei cadauna e n. due per onze sette per cadauna. 
Gaetano e Caterina non ebbero figli e alla loro morte il Palazzo divenne proprietà di Benedetta, una nipote di Caterina, anche lei una Turano di Campello da Ribera. La ragazzafu chiesta in matrimonio da molti principi, tra cui uno dei figli di Francesco Bonanno. Respinta questa proposta di matrimonio, sposò don Francesco Bartoccelli da Caltanissetta, uno dei figli del barone di Altamira. I Bartoccelli si imparentarono in seguito con altre famiglie nobili canicattinesi e, non più considerati forestieri, parteciparono da protagonisti alle iniziative volte all’abolizione dei diritti feudali e ai primi movimenti risorgimentali che avrebbero portato all’unità d’Italia. Un discendente della famiglia Bartoccelli, il barone Gaetano, fu nel 1848 presidente del Comitato Rivoluzionario e in seguito sindaco della città fino al 14 giugno 1860 allorché Presidente del Magistrato Municipale fu nominato Salvatore Gangitano, che sarebbe stato indiscusso protagonista della vita politica cittadina nel secondo Ottocento. Gaetano Bartoccelli, non più sindaco, ottenne nel 1860 la carica di consigliere municipale e di comandante della Guardia Nazionale.
Il Palazzo Adamo Bartoccelli nel Novecento non fu più curato e sarebbe andato in rovina, come purtroppo accaduto a tanti altri edifici religiosi e civili della città, se il 3 maggio 1987 non fosse stato acquistato dai coniugi Salvatore Cucurullo e Silvana Fazio Tirrozzo che nei primi anni Novanta lo hanno sottoposto ad un intelligente intervento di restauro conservativo.
Il prospetto, abbellito da un imponente portale con apertura ad arco a tutto sesto, è in bugnato rustico in pietra di Donato, un materiale tenero e quindi facile da lavorare che col passare degli anni acquista ai raggi del sole una patina dorata assai gradevole. La pietra, che trae il suo nome da una contrada del territorio di Naro, risente tuttavia molto dell’azione del caldo, del freddo e degli altri agenti atmosferici ed è pertanto destinata a deteriorarsi sempre più.
Al Palazzo si accede attraverso un atrio, con volte a crociera e pavimento in pietra lavica, utilizzato in passato anche come luogo di sosta per le carrozze. Come in tutti i palazzi del Settecento sono presenti tre parti fondamentali: le sale di ricevimento e rappresentanza, le camere private dei proprietari e gli ambienti della servitù. Dall’atrio si accede ad un cortile ove si trova una grande cisterna; su via Dandolo pare che anticamente esistesse un’uscita secondaria usata dalla servitù. 
Al piano terra erano allocati granai, pagliere, stalle, cavallerizze di varie dimensionie rimesse per oli, formaggi (la zambateria) ed altri prodotti. Nell’ammezzato si trovavano le abitazioni dei dipendenti ed il particolare della famiglia del guardaportone. Attraverso un elegante scalone si accede al piano nobile ove, oltre alle camere private dei proprietari, si trovano la sala di accoglienza, il salone per la conversazione ed il salone dei ricevimenti. Le splendide maioliche del pavimento sono state recuperate soltanto in parte mentre sono andati in rovina molti degli stucchi dipinti e degli affreschi che adornavano le pareti e le volte. Di particolare pregio la cappella privata di cui gli Adamo Bartoccelli, per antico privilegio, godevano come tante altre famiglie in vista della città: l’altare è collocato all’interno di un artistico armadio incassato nel vano di una finestra, su via Minghetti, murata all’esterno.
Ma i signori, pur nella loro intimità, non perdevano mai di vista la roba: dal salone più importante era possibile, sollevando una piastrella amovibile di cm 10 x 10, controllare la quantità di frumento ammassato nel granaio sottostante e ascoltare i discorsi della servitù che ivi lavorava. 
Il Palazzo, se nella sua imponenza esteriore dava plastica rappresentazione del potere conquistato dalla famiglia, al suo interno ribadiva i segni distintivi della scala gerarchica attraverso l’uso di scale diverse da parte di quanti vi abitavano a vario titolo. Distinzione gerarchica presente perfino nelle stesse porte che consentivano l’accesso dalle sale di rappresentanza agli ambienti utilizzati dalla servitù: la parte esterna è sempre più alta di quella interna.
La finestra da cui si affacciò Ferdinando II, dicono alcuni narratori di storia locale, sarebbe stata chiusa dai Bartoccelli, anarchici, risorgimentali e, a loro modo, progressisti, per vergogna: non potevano accettare che nella loro casa, seppure per una sola notte, avesse dimorato un re borbonico.
Progressisti sì ma cum grano salis, avendo somma cura di restare sempre protagonisti della storia del potere locale: in fondo le loro terre distavano soltanto una ventina di chilometri da quelle che il Principe di Salina possedeva negli stessi anni a Donnafugata.











La dedica di questo libro testimonia l'importanza della famiglia Adamo nella storia religiosa di Canicattì (foto di Giuseppe Caruso).


Gaetano Augello

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