A metà degli anni ottanta
del secolo scorso, a quasi settant’anni dalla rivoluzione di ottobre, accade a Prizzi
un evento epocale: per la prima volta nella storia, il Partito Comunista va al
potere in quella cittadina.
Veramente non fu proprio
la prima volta, perché a metà degli anni sessanta vi fu un precedente che però
più che frutto di un accordo politico vero e proprio era stato il risultato di
una serie di dissidi interni alla Democrazia Cristiana di quel periodo che
portò alla (momentanea) scissione di quel partito e all’accordo dei dissidenti
con le sinistre per la formazione della giunta cittadina.
La formazione di una
giunta di coalizione DC-PRI-PCI negli anni 80 rappresentò un fatto politicamente anomalo, se solo si pensa al
panorama politico dell’epoca; e non fu un fatto semplice né scontato: al
Partito Comunista da sempre a Prizzi era stato interdetto il potere rimanendo ”ghettizzato” alla opposizione; e non
poteva essere altrimenti in una comunità ad alta “densità clericale” e con un
elettorato pesantemente condizionato dalla presenza della Chiesa e della mafia;
e se è pur vero che storicamente vi era stata una marcata presenza laica, era
pur sempre una presenza minoritaria; né era mancata la presenza di un forte
movimento contadino con le sue legittime rivendicazioni e però - come tutti
sanno - combattuto e piegato dalla forze reazionarie e mafiose. Anzi, in Sicilia
il pericolo comunista era considerato più incombente di quello mafioso.
Insomma la democrazia
cristiana aveva monopolizzato a partire dal dopoguerra il potere condividendolo
nelle diverse fasi in parte con i socialisti ma anche con i partiti laici minori;
ed era così anche quando a Prizzi negli anni ‘70 fecero la loro comparsa gli “estremisti
extraparlamentari”, quelli posti più a sinistra del PCI, la cui presenza,
seppure ebbe molta eco nell’ambiente conservatore di Prizzi di quegli anni,
tuttavia non si può dire che incise su quella realtà politica e nel sistema
consolidato di potere: chi comandava a Prizzi continuò a farlo a dispetto dei
collettivi vari che volevano cambiare il mondo.
Allora cosa accadde perché
un partito “rivoluzionario e bolscevico” poteva sedere in giunta a governare - seppure
con altre forze - la città mentre un altro partito quello socialista partito “riformista”
veniva relegato all’opposizione dopo una lunga stagione di sodalizio con la DC?
Si verificarono in
effetti una serie di variabili che portarono a questo: le vicende giudiziarie
che coinvolsero giunta e consiglieri nel quinquennio 1980/1985 favorirono un
rinnovamento nelle candidature e successivamente un mutamento di equilibrio
all’interno della Democrazia Cristiana: scomparvero alcune figure “di rilevo”
delle vecchie maggioranze e si affacciò alla pratica della politica una nuova
generazione di soggetti prevalentemente medici e come tali grandi collettori di
voti: la corrente progressista facente capo a Sergio Mattarella, i così detti mattarelliani,
che era divenuta maggioritaria nel partito era più incline a un dialogo con i
comunisti.
Dopo le elezioni comunali
della primavera del 1985 si formò dapprima una giunta di coalizione coi
socialisti e repubblicani guidata dal sindaco democristiano Bino Lorito: dopo
una breve durata, il partito socialista aprì la crisi il cui epilogo fu ,appunto,
la esclusione del P.S.I. dei Gullo e dei Butera dalla nuova giunta che andò
alla opposizione con i cinque consiglieri eletti nelle sue fila e con l’entrata
del P.C.I. nella nuova giunta.
Come si diceva non fu
operazione semplice e ci vollero più di due mesi di discussioni che coinvolsero
anche gli organi provinciali di quel partito per addivenire finalmente ad una
apertura ai comunisti.
Ma va detto, altresì, che
quello che consentì l’operazione fu anche la presenza di un piccolo partito che
riuscì a imporre il nuovo corso, ne fu uno degli artefice e garante al tempo
stesso.
In quelle elezioni del
1985 il PRI rappresentò una autentica novità: presentò una lista completamente rinnovata
con in prevalenza giovani, che per la prima volta si impegnavano in politica,
anche se c’era più di un filo di legame con il passato e la tradizione: come il
padre nobile del repubblicanesimo di Prizzi,
l’anziano Dott. Giorgio Sparacio, primo sindaco laico del dopoguerra a Prizzi,
che aveva incoraggiato la formazione del nuovo gruppo; novità , come tale accolta
benissimo tant’è che ebbe un gran successo con circa 520 voti e una percentuale
del 13%: due consiglieri furono eletti Giovanni Milazzo e Luciano Vallone e un
terzo mancò l’obiettivo per pochi voti. I giovani rappresentanti del PRI fedeli
a una politica di rinnovamento, eredi anche di quella tradizione azionista che
aveva sempre guardato con interesse al
partito comunista ed ai suoi uomini, volle perseguire fino in fondo
questa vocazione; seppero cogliere il momento comprendendo che c’era il
contesto per una svolta: il PRI pur non avendo i numeri rappresentava l’ago della bilancia e il vero
arbitro per la formazione del governo cittadino.
Esso pose come condicio sine qua non alla
partecipazione che a guidare la nuova giunta fosse un uomo nuovo, sì da creare
una sorta di discontinuità con il passato e una netta cesura con le giunte
precedenti proponendo il nome di Garofalo.
Che fu cosa anomala che
stravolgeva equilibri di potere ormai da tempo consolidati fu subito evidente:
basti pensare che Aristide Gunnella, dominus
del P.R.I. in Sicilia, disapprovò la linea del partito ma di fronte alla netta
determinazione dei giovani consiglieri repubblicani dovette accettare obtorto collo che i socialisti
rimanessero all’opposizione.
E fu cosi che in un
memorabile consiglio comunale del maggio 1986 fu eletto sindaco il
democristiano Garofalo e si consacrò lo storico accordo.
Ma fino all’ultimo ci fu suspance: i numeri erano risicati, nelle
file della DC vi erano due consiglieri assenti “giustificati”; i socialisti
uscirono dall’aula e vi rientrarono poco prima della votazione; c’era molta tensione: volarono paroloni
e anche qualche offesa; il capogruppo socialista definì l’accordo Dc-Pci-Pri –
come riporta il cronista dell’epoca sul Giornale di Sicilia- “un pateracchio fuori dalla legge” perché “fuori della logica nazionale“ quasi
che in democrazia gli accordi politici fossero sanzionati dalla legge come
nelle dittature, definì il Partito Repubblicano
“un partito sconquassato”; ma ci
pensò il consigliere repubblicano Giovanni Milazzo a raffreddare gli animi offrendo
simbolicamente ai socialisti un garofano, simbolo del loro glorioso
partito, invitandoli “ad elevare il livello culturale
dell’assemblea”.
A suggellare l’importanza
ed il ruolo strategico avuti dal Partito Repubblicano nella epocale svolta, vicesindaco
fu nominato il neo consigliere Luciano Vallone, mentre Giuseppe Leone, fratello
dello storico e anziano leader dei comunisti prizzesi Nino Leone, ed il giovane
combattivo Nuccio Canzoneri entrarono a far parte in rappresentanza dei
comunisti della nuova giunta, oltre naturalmente i democristiani con i loro
assessori.
Sia il capogruppo della
DC che quello del P.C.I. nelle loro dichiarazioni ufficiali dopo la storica
svolta si premurarono di sottolineare, tanto per non confondere le acque, che l’accordo
era solo programmatico e che le diversità ideologiche permanevano: ma si era
ancora in piena guerra fredda e la caduta del muro di Berlino e lo sfascio della
prima Repubblica erano di là da venire; men che meno era lungi da venire quel Partito
Democratico che di quelle due aree politiche e culturali avrebbe operato circa
venti anni dopo una fusione, a freddo come dicono i maldicenti e forse - col
senno del poi - non a torto....ma questa è un’altra storia.
Salvatore Sulli
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