Cara compagna Castellina,
nell’articolo pubblicato
nell’inserto del Manifesto del 29 dicembre scorso,
“Nella mia agenda gli
indizi di futuro migliore”, scrivi che “la prima scadenza importante della mia agenda
2017 è in data 14 GENNAIO: a Palermo celebriamo il compleanno – il
95mo – di Nicola Cipolla. La sua storia coincide con quella delle grandi lotte
per la terra in Sicilia; e testimonia il prezzo che fu necessario pagare per
strappare la riforma agraria più avanzata d’Italia: 36 dirigenti
sindacali ammazzati fra ’46 e ’47”.
Osservo che è errato il giudizio che dai della riforma agraria
realizzata in Sicilia nel dicembre 1950.
Non c’è dubbio che le lotte per
l’occupazione delle terre del ‘44 - ’50, in Sicilia e non solo, segnarono una
svolta politica notevole di liberazione. Erano appena passati cinquant’anni e
quindi viva era la memoria nel ’44 del grande movimento di liberazione dei
Fasci Siciliani del 1893, represso militarmente dal governo Crispi e
soprattutto vivo era il ricordo delle lotte per la terra del 1919-20. Quelle
epiche del 44-50 ebbero soprattutto un grande movente nel d.lgs. Gullo n. 279
dell’ottobre ’44 sulla concessione delle terre incolte ed anche nel coevo
d.lgs., sempre di Gullo, n. 311/44 sulla ripartizione dei prodotti nella
mezzadria c.d. impropria. Lotte che mossero, ergendoli a soggetti, masse enormi
di contadini poveri e di braccianti - (gli iscritti nelle cooperative
concessionarie di terra incolta furono 100.311) -, soprattutto nell’agrigentino,
nel nisseno, nell’ennese e nel palermitano, zone in cui maggiormente prevaleva
il latifondo. Le conquiste pur ‘limitate’ di quel periodo: 86.420
ettari assegnati alle cooperative su ben 904.743 ettari richiesti, diedero
comunque un colpo serio al latifondo, e la conquista fu pagata col sangue dei
nostri martiri. Infatti, solo nel periodo dal novembre 1946 all’aprile
1948 il terrorismo mafioso anticontadino, sostenuto dai grandi agrari, dai loro
partiti di riferimento e dai gabelloti, provocò una media di due morti
ammazzati al mese: i migliori dirigenti sindacali; quelli di cui tu parli nel
tuo articolo. Ed il 1° maggio del ’47 fu compiuta a Portella della Ginestra la
prima strage di Stato per bloccare col terrore il movimento di lotta
sviluppatosi in tutta l’isola e la conseguente vittoria conseguita dal blocco
del Popolo alle elezioni dell’aprile precedente. Per cui si arrivò in Sicilia
alla riforma agraria con legge del 27 dicembre ’50,
operata dal democristiano Silvio Milazzo, (lo stesso della successiva
nefasta operazione del ’58, che segnò la pagina più nera del M.O. italiano), in
un clima di sostanziale restaurazione, e fu partorita, come la definirono i
comunisti ed i socialisti, una controriforma, il cui attore
principale fu il mercato.
Va detto innanzitutto che
non vennero invalidati con la succitata legge del dicembre ‘50 gli atti di
frazionamento fra parenti ed affini, perlopiù simulati, compiuti anche pochi
giorni prima dai grossi agrari per far apparire appezzamenti al disotto del limite,
non certo basso, fissato dalla legge in 200 ettari; e fu pure consentito e
comunque non impedito che gli stessi agrari, sempre anticipando l’applicazione
della legge, vendessero direttamente a terzi, contadini compresi, le superfici
migliori, realizzando in tal modo - spiega Renda nel III volume (p. 332 e
segg.) della sua “Storia della Sicilia” -, circa trenta miliardi che
la borghesia agraria poté destinare alla trasformazione capitalistica delle sue
terre.
Lo storico Giuseppe Carlo
Marino, nel suo ‘Storia della mafia’, parlando della legge di riforma
agraria del dicembre ’50 scrive (p. 202 e segg.) che “conteneva
norme ... che davano possibilità di elusioni ai grandi proprietari terrieri”
e riporta al riguardo il giudizio molto negativo di Nicola Cipolla. Precisa in
particolare che l’ERAS (Ente Riforma Agraria Siciliana) “costituito
per i contadini, cominciò a funzionare contro contadini, mettendosi al servizio
dei proprietari e dei mafiosi interessati ad eludere la riforma”; divenendo
– spiega - solo un carrozzone di sottogoverno clientelare con ben 2000
dipendenti. Sottolinea il fatto molto grave che “la mafia ottenne che
Commissario dell’ERAS venisse nominato (un amico degli amici),
Arcangelo Cammarata”. Il quale – precisa ancora Marino nel libro citato
- “nominò suo collaboratore il capo mafia Giuseppe Genco Russo”; e
“quale altro suo consulente il boss Vanni Sacco”. Pertanto, commenta
Marino, “una folta schiera di ex gabelloti si inserì nei ranghi dei
riformatori”, sì che in sostanza “il principale effetto della riforma fu
una accelerata modernizzazione del sistema mafioso”. Ed infine a p.
205 della sua ‘Storia della mafia’ Marino precisa che “di norma
ai contadini andarono le terre peggiori, quelle che gli stessi proprietari
avevano interesse a cedere all’Ente di riforma per incassare gli indennizzi”.
Pertanto, conclude, la riforma del dicembre ’50 fu una sostanziale
controriforma, come attestato dal “fallimento sociale, in
relazione alle attese dei contadini poveri”. I quali – come scrisse Giuliana
Saladino in “Terra di rapina”, polemizzando con l’assurda
interpretazione positiva della Riforma fatta da Macaluso -, “non avrebbero
avuto altra via per sottrarsi alle conseguenze della delusione subita … che
quella di emigrare”.
E’ una storia da
approfondire, ma è noto che nel PCI si scontravano due linee di politica
agraria, quella riformista e quella rivoluzionaria. Sereni, rappresentante
della prima linea, manifestò apertamente la sua contrapposizione alla linea di
Grieco dopo che questi morì, in una nota intervista a “Mondo Operaio” del marzo
1975, dicendo che: “una linea interpretativa diversa da quella
togliattiana era quella di chi, penso ad un compagno come Ruggero Grieco,
vedeva nella lotta in corso il compito della ‘rivoluzione democratico borghese’
e nient’altro che questo. Un giudizio che coinvolgeva la Resistenza e
gli anni successivi. Un giudizio che nel Partito è stato largamente presente
sino all’VIII congresso. Nel 45 - 48 quei compagni pensavano fosse compito
del Partito portare a termine la rivoluzione borghese; la rivoluzione
socialista era un’altra cosa. Togliatti, Longo, io e molti altri pensavamo
invece di star lavorando, in modo originale, su una piattaforma democratica e
socialista”. Un dissidio radicale, perché mentre per Sereni e gli altri –
la maggioranza riformista - la formula “rivoluzione democratica e socialista”
significò l’assorbimento del secondo termine (socialista) nel primo
(democratico), come si legge in Reichlin ‘Battaglia meridionalista e lotte
operaie’ (Critica Marxista, 1970 n. 1 e 2, p. 35-36), per Grieco le due
fasi, quella democratico - borghese e quella socialista, rimanevano ben
distinte, non solo cronologicamente, ma nel senso leniniano, per cui il
proletariato industriale, lottando per la rivoluzione socialista, guida quella
democratico-borghese dei contadini.
Per quei comunisti che sono
agli antipodi di questa impostazione e di quella data da Gramsci ne La
questione meridionale‘, anche la controriforma agraria varata da Milazzo in
Sicilia nel dicembre 1950 poteva essere fatta rientrare, invero con alcuni
grossi salti, nella ‘rivoluzione democratica’.
Sono questioni che hanno un
legame col presente, perché oggi molti compagni della sinistra radicale sono
attestati in una linea politica come quella scelta dal PCI con Togliatti
nell’VIII congresso del 1956, e quindi per la via parlamentare al socialismo,
attraverso le istituzioni borghesi, ed entro, di conseguenza, i limiti della
Costituzione, che peraltro non è più neppure quella liberaldemocratica del ’47,
ma una costituzione essenzialmente liberale.
Luigi Ficarra (PRC Padova)
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