Santa
Lucia è una delle figure più importanti del Martirologio Romano: conosciuta e
venerata in tutto il mondo, presente in celeberrime creazioni letterarie, a
cominciare dalla Divina Commedia di Dante, resa immortale da innumerevoli
capolavori artistici; ma è, soprattutto, presente nella cultura e nelle
tradizioni popolari delle grandi città e dei borghi più remoti.
La
venerazione di Santa Lucia – invocata come protettrice degli oculisti, degli
scalpellini e degli elettricisti – si poneva, in passato, in particolare
relazione con le varie fasi dell’attività agricola e con la stessa visione
cosmologica della cultura contadina, segnata dal succedersi eterno di luce e
buio, giorno e notte, vita e morte.
Molti
studiosi laici spiegano il culto della santa siracusana come una specie di
continuità con il culto pagano sia della dea greca Demetra sia della romana
Cerere, che venivano raffigurate con in mano delle spighe e una fiaccola.
Anche
Santa Lucia, soprattutto nelle stampe popolari di Siracusa, viene raffigurata
con un mazzo di spighe in mano ed un vassoio con degli occhi nell’altra. Alla
santa veniva offerto pane a forma di occhi, quasi a legare il simbolismo del
martirio con quello della fertilità.
Nella celebrazione delle festività in
onore di Cerere veniva consumato dai contadini frumento bollito ed anche in
questa usanza si coglie una stretta relazione con la festività di Santa Lucia,
caratterizzata soprattutto dalla cosiddetta cuccia. Il termine deriva proprio
dal sostantivo cocciu e cioè chicco di grano; cucciari a sua volta significa
mangiare un chicco alla volta. Il piatto fu variamente elaborato nei vari paesi
ed il grano bollito fu condito con latte o ricotta o miele o mosto cotto o,
ancora, cioccolato. La santa, il 13 dicembre, era richiesta di particolari
grazie, con questa invocazione: Santa Lucia, pani vurria; pani nun n’aiu,
accussì mi staiu!
Prima
dell’introduzione, nel 1582, del calendario moderno e cioè il calendario
gregoriano, la festa di Santa Lucia, il 13 dicembre, era assai vicina al
solstizio d’inverno: da ciò il detto popolare: Santa Lucia, il giorno più corto
che ci sia e Pi Santa Lucia la jurnata allonga un passo di cucciufia.
Alla
festa di Santa Lucia ed alla tradizionale cuccia fa riferimento il proverbio: A
Santa Lucia un cuecciu di cuccia; vuole indicare il lieve prolungarsi della
luce del giorno dal 13 dicembre in poi. I contadini erano soliti osservare il
verificarsi dei vari fattori climatici, come pioggia, grandine, gelo, sereno
nei giorni posteriori alla festa di Santa Lucia, nella convinzione che la
scansione di ciascun mese dell’anno avrebbe ripercorso l’andamento climatico
dei giorni successivi alla festa. Questo pronostico - proprio dei contadini
canicattinesi - era un tempo detto la prova di li misi oppure li calanni (le
calende) di Santa Lucia.
Prima
della festa di Santa Lucia, dalle nostre parti, debbono concludersi le
operazioni della semina: Cu simina pi Santa Lucia, nun porta frumentu pi la
via!
La festa
di Santa Lucia è, a Canicatti, una delle più sentite ed era, fino a pochi anni
fa, strettamente legata al mondo contadino. Nei giorni che precedevano il 13
dicembre, attorno all'antica chiesa, era
un pullulare di baracche e di venditori ambulanti. La gente faceva gli ultimi
acquisti in vista dell'inverno ormai imminente: coperte, ombrelli, tele varie,
maglioni e giubbotti, scialli e le cosiddette incerate per proteggersi dalla
pioggia.
Gli acquisti più importanti erano già stati
effettuati, durante la festa del patrono San Diego (ultima domenica di agosto),
per quanto riguardava gli animali ed i grossi attrezzi, e per la fiera della
Madonna del Rosario (terza domenica di ottobre) per il vestiario più
importante, gli utensili domestici ed i piccoli attrezzi agricoli.
Per
Santa Lucia i contadini spesso vendevano i quadrupedi che avevano utilizzato
per la semina ormai completata. Si fornivano anche di utensili in ferro: vòmmari,
zappidduna, sonagliere, coltelli, picconi. I fabbri – li firrara – per
pubblicizzare la loro merce battevano in alto tra le mani due oggetti tra
loro.
Addossati al muro della chiesa, venivano esposti oggetti casalinghi di legno: maidda,
scanaturi, sagnaturi, pili, scarfaletti, chirchi di liettu. Per terra: fusi,
criva, cucchiari e cucchiareddi di lignu, stanghi pi la porta, fusti di lignu
pi l’aratu e le misure di capacità: tumminu, tirzaruni, munnieddu, miezzu
munnieddu, quartu. E ancora: scapucci o scapulara (mantelli chiusi con
cappuccio fisso) d’abilasciu o di burdigliuni bilù, tila ‘ncirata, canzittuna,
frazzati, cilona di lana e cuttunini.
Sul
ciglio della strada che porta alla chiesa, li fimmini di li iardinara, elegantemente
vestite, vendevano lumiuna e trizzi di ficu.
Le
famiglie spendevano i soldi racimolati con la vendita del frumento, dell'olio e
dell'uva per effettuare le ultime compere. Soddisfatte le esigenze più
importanti, il popolino poteva finalmente pensare agli acquisti per il Natale.
La festa
canicattinese di Santa Lucia era così importante in passato al punto che, in un
articolo pubblicato su Il Regime Fascista del 14 dicembre 1933 - dal titolo
Santa Lucia in Sicilia - dopo la descrizione della festa nella città di
Siracusa, tra tutti i comuni dell’Isola si citava solo Canicattì ed una
tradizione da tempo scomparsa “I fedeli di Canicattì, poi, ricevono in chiesa
la “misuredda”, che è una fettuccia benedetta, da mettere al polso destro, a
mo’ di braccialetto; e offrono chi fiori, chi ceri, chi torte, chi pani, chi
grano. I pani, piccoli, hanno la forma degli occhi”. La misuredda era di vari
colori, per lo più verde o gialla, lunga dieci o quindici centimetri. Secondo
la devozione popolare preservava dalle malattie degli occhi.
Oggi
tutto è cambiato e, attorno alla Villa Comunale e lungo la via Vittorio Veneto
che sale su a Santa Lucia, si vendono solo arance, mandarini e soprattutto dei
grossi cedri, detti lumiuna, mentre fino a qualche anno fa era possibile
acquistare anche frutta secca, in particolare pistacchi, noci e noccioline,
fichi secchi incannati e a collana. Un tempo si vendevano anche galline, polli,
conigli, capponi e soprattutto i tacchini che, portati a casa, venivano
allevati per altri dieci giorni con mangime genuino in attesa di essere
sacrificati sulle tavole natalizie.
Ma il piatto tipico del Natale canicattinese era il cappone
ripieno: budella, fegato, interiora varie venivano tagliati a pezzi, impastati
con formaggio, tritato, tuorli di uova sode, sale, pepe, prezzemolo e cipolla.
L’impasto veniva introdotto nel cappone che veniva cucito in ingresso e in
uscita. Col brodo si cuoceva la pasta; con lo stesso cappone e il suo ripieno
si otteneva uno squisito secondo piatto.
Dal punto di vista strettamente religioso, ancora oggi, il
giorno della festa, per tutto il pomeriggio e fino a tarda sera, è un
pellegrinaggio ininterrotto verso la chiesa sfarzosamente addobbata ed
illuminata. Quanti aspettano o hanno ricevuto una grazia portano come semplice
ex voto una maschera di cera, ove sono raffigurati degli occhi, e candele di
varia foggia. In passato gli ex voto in cera, soprattutto occhi, erano venduti
direttamente dai loro creatori, li pupara, insieme ai bambinelli di cera, a li
cascittini di lu prisepiu, ai pastori, animali e altri personaggi modellati in
creta che sarebbero stati utilizzati, dopo pochissimi giorni, nei presepi
natalizi.
Un tempo, dopo la benedizione da parte del prete, veniva
distribuito, a quanti erano davanti la
chiesa, un piatto di pasta o di cuccia: un filu della prima o un pizzuluni
della seconda.
Anche a Canicatti Santa Lucia è invocata da quanti hanno
problemi alla vista e si tramandano filastrocche e proverbi collegati a questo
tema. Per una delle malattie più frequenti, lu purpu di l’uecchiu, Santa Lucia
era così invocata:
Santa Lucia tagliava e cusia.
Oru tagliava e argentu cusia.
Passa la Santa Vergini Maria:
Chi avi Lucia ca chianci e lacrimia?
Chiddru ca un vulissi o Matri mia,
passà lu purpu e mi
trasì 'nnì l'uecchiu
e un mi lassa vidiri e talariari.
Zitta Lucia, un lacrimari.
Scinni 'nni l’uertu
Scippa agliu e finuecchiu.
Cu li to manu li chiantasti.
cu li to pedi li scrapisasti.
Siddru è sangu squaglierà
Siddru è purpu si 'nni va.
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