Avv. Vincenzo Falcone |
Le principali rivendicazioni portate
avanti dai Fasci erano la soppressione dei dazi, l’eliminazione del latifondo e
il generale miglioramento delle condizioni di vita di contadini, minatori ed
operai in genere. Organo del Comitato Centrale dei Fasci dei lavoratori fu Il
Siciliano, il cui ultimo numero uscì il 9-10 gennaio 1894, poco prima che il
commissario straordinario generale Morra di Lavriano ne ordinasse la
soppressione.
I Fasci Siciliani non possono considerarsi
un’organizzazione socialista in senso stretto. Furono piuttosto “un movimento
di protesta sociale, che accomunò le masse, stanche di decenni di ingiustizie
sociali, a quella parte del ceto medio borghese che vide in esso, più che
altro, una forma di protesta antigovernativa; era una manifestazione ibrida,
intrisa di sicilianismo, di religiosità commista ad elementi paganeggianti, di
repubblicanesimo e di fedeltà monarchica”. (Gabriella Portalone Gentile,
Impegno politico e sociale dei cattolici agrigentini alla fine del sec. XIX,
Palermo,1985) Ai Fasci si iscrivevano anche uomini devoti e durante le riunioni
non si parlava mai contro la religione, ma si trattavano solo questioni
relative al miglioramento delle condizioni di vita dei contadini e degli
operai; il crocifisso era quasi sempre presente nelle sedi dei Fasci.
Al Fascio di Canicattì erano iscritti
molti zolfatari che lavoravano nelle miniere della zona: Palumba, Deliella
e Fruscola in territorio di Delia; Bifara di Campobello di
Licata; Muculufa di Butera; Tallarita, Sofia e Grande di
Sommatino e Riesi; Conte Bosco di Ravanusa. Nel vasto territorio compreso tra
Santa Caterina Xirbi (l’attuale Santa Caterina Villarmosa), Porto
Empedocle, Canicattì e Licata, segnato da “montagne brulle, bruciate dal sole”
e da una desolata, plastica solitudine, “grandi cataste di pani di zolfo” erano
le prime immagini che nelle piccole stazioni ferroviarie si presentavano ai
viaggiatori (Adolfo Rossi, L’agitazione in Sicilia - Inchiesta sui Fasci dei
lavoratori, Palermo,1988). Il settore sarebbe ben presto entrato in grave
crisi, per la concorrenza degli americani dotati di tecnologie all’avanguardia,
e a poco sarebbe valsa l’iniziativa governativa di costituire, il 15 luglio
1906, il Consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana.
La condizione di vita degli zolfatari non
si discostava molto da quella assai grama dei contadini. Con l’aggiunta di
tante malattie professionali, come la deformità toracica, causata dal peso
enorme di zolfo che veniva trasportato a spalla all’esterno delle miniere dai
carusi. Questi rappresentavano, quasi esclusivamente, la forza lavoro impegnata
nelle miniere, ove c’erano anche catastieri, pesatori, picconieri e
scrivani. I carusi venivano quasi sempre venduti al pirriaturi (il
picconiere). Terribile l’istituto del soccorso morto: il picconiere, con un
anticipo di cento, duecento, trecento lire, comprava dai genitori, compiacenti
per necessità, il caruso, prima ancora che potesse iniziare a lavorare. Quando
il caruso cominciava a lavorare riceveva solo acconti in natura: farina di
grano, olio, pane. Era oggetto di proprietà del picconiere che, se vinto dai
debiti, cedeva in cambio il soccorso morto. Un certo Gaspare Amelia ad Aragona,
si tramanda, fu giocato a zicchinetta durante le feste di Natale:
l’indomani cambiò padrone.
La vita del minatore si svolgeva in
perenne incertezza: Oggi ca cc’è lu pani nun si penza;
dumani, si nun c’è, si fa cridenza! La cena del minatore consisteva
in una mangiata di minuzzaglia (resti di vari tipi di pasta comprati a basso
prezzo), condita con poco olio e sale abbondante. Importante era acquietare lo
stomaco: Inchi la panza e inchila di spini. Per i minatori,
come per i contadini, la carne era un lusso che compariva sulla tavola,
fugacemente, solo nelle feste comandate. In provincia di Girgenti, in quegli
anni, il consumo medio di carne pro capite non arrivava ad un chilo in un anno.
Unica eccezione Girgenti, ove la media era di sei chili all’anno: nel capoluogo
infatti stazionavano ben seicento tra sacerdoti secolari e regolari che, avendo
fatto voto di rinunziare all’altra carne, si abbuffavano di quella appena
macellata (Francesco Geraci, Una terra feudale e proletaria: Aragona, Palermo,
2000).
Fortunatamente, anche per i poveri,
capitava di tanto in tanto un cunsulo: Accussì va la
vita: mentri ‘a pena c’è, ‘u mangiari ci voli. Un tredicenne con fame
arretrata, durante un cunsulo dedicato a piangere la dipartita del
nonno, ‘u papà ranni, chiese speranzoso alla mamma: “Quannu mori ‘a mamma
ranni?”.
Ai Fasci Siciliani si iscrissero anche
molti contadini, in grande fermento anche se alcuni proprietari terrieri più
ragionevoli da qualche anno avevano spontaneamente diminuito il canone delle
terre e aumentato l’importo della manodopera.
Con l’unità d’Italia le cose per la povera
gente non erano cambiate di molto. Dal 1860 al 1890 i fitti delle terre erano
aumentati fino del 40%, mentre il prezzo del frumento e degli altri prodotti
della terra diminuiva sempre di più. E tutto ciò in presenza di annate agrarie
particolarmente scarse, come quelle del 1891 e 1892, in cui la produzione
agricola in Sicilia fu meno della metà degli anni precedenti. Spesso i
contadini, non potendo pagare i debiti, erano costretti a cedere i loro piccoli
fondi agli agrari che avevano, d’altra parte, acquisito dal demanio dello Stato
molti dei terreni provenienti dalla confisca dei beni ecclesiastici. Un caso
emblematico si verificò in quegli anni nel territorio di Milocca(oggi
Milena), allora frazione di Sutera: i consistenti beni terrieri dei monaci
benedettini dell’abbazia di San Martino delle Scale (Palermo), dopo alcuni
passaggi, furono divisi in quote e acquistati da grossi proprietari.
Talora gli agrari osavano perfino
addossare alle organizzazioni dei lavoratori la responsabilità di quanto
accadeva. Su L’Avvenire di Caltanissetta dell’undici febbraio 1893 comparve una
corrispondenza, proprio da Canicattì ,datata 14 dicembre 1892: “I ricchi sono
quelli che assorbiscono la piccola proprietà privata. Ci vuole una gran dose di
faccia tosta per potere i nostri avversari asserire che noi siamo quelli che
vogliamo la distruzione della piccola proprietà privata: questa asserzione per
noi vale tanto quanto quella del ladro che, messo sulla pubblica strada per
spogliare l’onesto viandante, dice a questi: “Gettati a terra, ladro fottuto!”…
Nei nostri paesi e nel giro di pochissimi anni la proprietà fondiaria dei
piccoli e medi possidenti trovasi quasi distrutta…”.
Memorabile una visita a Canicattì dei capi
dei Fasci Siciliani: ne abbiamo la descrizione di Adolfo Rossi, inviato
nell’isola per conto de La Tribuna.
Nell’ottobre del 1893 Garibaldi Bosco ed
altri dirigenti partirono da Palermo, alle sei del mattino, alla volta di
Caltanissetta e Girgenti; nella stazione, allora piccola, di Santa
Caterina Xirbiincontrarono il deputato Giuseppe De Felice Giuffrida
proveniente dalla vicina Castrogiovanni (oggi Enna), ove il giorno
prima era stato inaugurato il Fascio con discorsi dell’on. Napoleone Colaianni,
dell’on. De Felice e della figlia di quest’ultimo.
Bosco, De Felice e gli altri dirigenti del
Fascio giunsero a Canicattì intorno a mezzogiorno, accolti dal dirigente del
locale Fascio Gaetano Rao, un possidente convertitosi al socialismo. Non
era prevista alcuna sosta nella cittadina ed in effetti Rao era
stato avvisato per telegrafo solo per scambiare un veloce saluto, poiché la
comitiva era attesa a Campobello di Licata. Ma alla stazione di
Canicattì Rao si presentò con più di mille persone con le bandiere
rosse che costrinsero i dirigenti a fermarsi. Poi si svolse un incontro nella
sede del Fascio, che aveva come unico arredo un Cristo illuminato dalla flebile
luce di un lumino; presenti, tra gli altri, il sindaco della città, avvocato
Vincenzo Falcone, e un giovane ricco proprietario terriero dalle idee
progressiste, Gaetano Bartoccelli. Alle cinque del pomeriggio i dirigenti,
costretti a cambiare itinerario, raggiunsero in carrozza Delia e poi
Sommatino.
La costituzione del Fascio a Canicattì era
stata preceduta dalla elezione del primo sindaco di idee socialiste, anche se
non militante, e cioè l’avvocato Vincenzo Falcone. Il Consiglio Comunale lo
aveva eletto nella seduta del 25 settembre 1892. Al Fascio di Canicattì
aderirono più di millequattrocento soci: soprattutto contadini, piccoli
proprietari terrieri, artigiani e minatori. Tra questi ultimi da ricordare
Angelo Ficarra, padre dell’omonimo vescovo di Patti, che, da modesto muratore e
capomastro, prestava nelle miniere di zolfo la propria opera, consistente
prevalentemente nella realizzazione di muretti di sostegno e pilastri. Ed uno
zio paterno del vescovo Angelo Ficarra, di nome Giuseppe, morì in miniera a
seguito di un incidente sul lavoro.
Il Fascio di Canicattì ebbe come
principale dirigente l’avvocato Gaetano Rao, che fu anche assessore nella
giunta Falcone fino al gennaio 1893. Di famiglia benestante e componente della
Congregazione della Carità, si dedicò con entusiasmo alla difesa dei più
deboli, attuando le idealità proprie del socialismo riformista. Il Fascio di
Canicattì lo inviò come suo delegato al congresso socialista regionale di
Palermo, in segno di adesione al nuovo partito. Tra gli organizzatori del
Fascio di Canicattì anche l’avvocato Giovanni Guarino Amella, che avrebbe
assunto ruoli di grande prestigio, e non solo a livello locale, nei decenni
successivi.
La stagione dei Fasci Siciliani era però
destinata a concludersi ben presto. A seguito delle dimostrazioni e dei tumulti
del 1893, il Consiglio dei Ministri, presieduto da Francesco Crispi, il 23
dicembre autorizzò la proclamazione dello stato d’assedio. Con decreto del re
Umberto I, il 3 gennaio 1894 Roberto Morra di Lavriano e della Montà
(Torino 1830 – Roma 1917), tenente generale e comandante del XII Corpo d’Armata
e reggente la Prefettura di Palermo, fu nominato Commissario Straordinario con
pieni poteri. In pari data il generale proclamò in Sicilia lo stato d’assedio
al fine di reprimere il movimento dei Fasci. Il movimento fu messo fuori legge
e ne fu vietata la ricostituzione. Portato a termine il suo incarico, il
generale, in data 13 agosto 1894, consegnò al Governo la sua Relazione
sull’andamento dello stato d’assedio in Sicilia durante l’anno 1894. Dal
documento appaiono con estrema chiarezza le opinioni del generale: “I fasci
ebbero appunto in sul principio apparentemente lo scopo di resistere legalmente
ai capitalisti e proprietarii, a mezzo della mutualità e della
cooperazione, per ottenere più equi contratti agrari e di salario… Ben presto
però le cose mutarono, un gruppo di sovvertitori intuì quali vantaggi avrebbe
potuto ritrarre da un’organizzazione siffatta e così potente, e professando per
lo più in mala fede principii socialistici, cominciò ad adescare le masse, già
preparate da una lunga sovrapposizione di odii, di rancori, d’ingiustizie,
con miraggi d’inattuabili utopie”.
A Canicattì fu arrestato Gaetano Rao;
liberato dopo mesi di carcere e nuovamente ricercato, si diede alla latitanza.
Anche Guarino Amella si diede alla latitanza. L’otto febbraio 1894 si concludeva
l’esperienza della giunta Falcone.
La creazione della “Società di mutuo
soccorso Figli del lavoro” e soprattutto la costituzione del Fascio, anche se
nessuna delle due organizzazioni si contrapponeva in alcun modo alla Chiesa,
misero egualmente in allarme gli ambienti clericali. Come azione di contrasto
fu subito costituita una società di mutuo soccorso dal nome di per sé
emblematico, “Immacolata”, cui si iscrissero non solo contadini e artigiani, ma
anche proprietari terrieri, esponenti della piccola nobiltà, maestri,
professionisti e perfino preti. La Chiesa era consapevole di non aver difeso
adeguatamente i deboli, anzi di essere stata, o almeno apparsa, schierata con i
feudatari prima ed i grossi proprietari terrieri poi.
L’attacco più forte ai Fasci fu portato da
monsignor Giovanni Guttadauro, secondo vescovo della diocesi di
Caltanissetta (1859-1896), nel cui territorio si trovavano quasi tutte le
miniere e molti terreni ove lavoravano tanti canicattinesi. La diocesi nissena
era stata eretta il 25 maggio del 1844 con territorio sottratto in gran parte
alla diocesi di Girgenti e quindi contiguo al territorio di Canicattì.
La voce del
vescovo Guttadauro tuonò contro i socialisti, in una apposita lettera
pastorale del 12 ottobre 1893, proprio nel periodo di massimo sviluppo dei
Fasci Siciliani. Nel documento il presule, nel prendere atto delle misere
condizioni in cui viveva il proletariato, sfruttato dai proprietari terrieri e
dai gabelloti, esortava i parroci ad intervenire per ristabilire i diritti dei
lavoratori, ricomporre “le recenti vertenze cagionate in gran parte
dall’ingiustizia di talune condizioni apposte nei contratti delle mezzadrie,
colonie parziarie, inquilinaggi” ed abolire l’usura che impediva qualsiasi
crescita delle piccole aziende agricole. Della situazione, aggiungeva il
vescovo, profittano i “mestatori socialisti” che “eccitano le masse a
sollevarsi contro coloro che dovrebbero conoscere le regole della giustizia ed
osservarle secondo lo spirito della carità cristiana”. (Gabriella Portalone
Gentile, Impegno politico e sociale dei cattolici agrigentini alla fine del
sec. XIX, Palermo, 1985)
Dopo un breve periodo di apparente stasi,
seguita alla repressione dei Fasci, i socialisti canicattinesi cominciarono a
riorganizzarsi. Nel 1897 venne a Canicattì l’ex capo del Fascio di Piana dei
Greci, il medico Nicola Barbato, che tenne un affollato comizio nell’atrio
delle scuole elementari di San Domenico. Lo presentò il diciannovenne Domenico
Cigna, che ben presto sarebbe diventato in città il referente dei socialisti
intransigenti, in contrapposizione ai socialisti riformisti guidati da
Gaetano Rao. A quest’ultimo gruppo appartenne anche l’avvocato Francesco
Macaluso. A livello provinciale prevalevano le posizioni intransigenti, sostenute
soprattutto dal maestro elementare di Santo Stefano Quisquina Lorenzo
Panepinto, che sarebbe stato ucciso in un agguato il 16 maggio del 1911.
Gaetano Augello
Nessun commento:
Posta un commento