Che il disorientamento in proposito sia
un fenomeno universale sembra confermato, e reso ancor più inquietante, dalla
vacuità di contenuti e di senno critico di una sempre più vistosa
proliferazione di saggi, libri, libretti e libercoli sulla globalizzazione e
sugli altri contestuali processi in fieri nel nostro tempo (tra gli altri,
soprattutto le fortune dei populismi autoritari, il neonazionalismo detto
“sovranismo”, il revival mascherato di inedite forme politiche e culturali di
fascismo, l’irreversibile crisi della liberal democrazia, ecc.).
Nell’interpretazione diffusa e prevalente il tutto è di solito consegnato ad
una generica nozione di “crisi” di cui soprattutto i sopravviventi di
generazioni in estinzione (ed anche molti giovani) avvertono angosciosamente
l’intollerabilità e la presa soffocante. Ma, per quanto non sia facile
avvedersene, il contenitore di tale interpretazione diffusa e prevalente è
lo stesso “pensiero unico” (Gramsci direbbe l’egemonia) della globalizzazione
capitalistico-finanziaria. Per quanto siano colte e raffinate le analisi,
non se ne esce; vi si rimane dentro in confusione; la cosiddetta ”crisi” messa
sotto osservazione viene letta e interpretata con le categorie stesse della…
crisi, sicché l’impegno dispiegato per tentare di comprenderla (se non
addirittura di fornire i mezzi critici per il suo superamento) si riduce a
qualcosa di simile ad un pestare acqua torbida in un mortaio, senza che emerga
la benché minima ipotesi di conoscenza circa il PERCHE’ quell’acqua affannosamente
pestata sia stata messa lì nel mortaio e sia tanto torbida e maleodorante. La
conseguenza inevitabile è un quasi patetico piangersi addosso, che fa da
pendant alle tumultuose e impotenti reazioni alla cosiddetta “crisi” di quanti,
subendone gli effetti, non hanno altro di meglio che protestare, imprecare ed
insultare (in specie contro politici e banchieri).
Tra i più titolati e ed insistenti
fomentatori e protagonisti del piagnisteo sono ben evidenziabili
soprattutto quegli intellettuali assai critici e dolenti che, spesso per
vergogna del loro stesso passato, non oserebbero più pronunziare persino il
nome di Marx senza un impaurito “vade retro!”. Ma ci sono anche tutti quelli
del “popolo” e delle folle che tanto più detestano la globalizzazione quanto più
non riescono a farne a meno (soprattutto in termini di desideri e di consumi).
Essi mentre da una parte accettano in toto il diktat del “pensiero unico” della
globalizzazione che vieta le ideologie e tendono a rappresentarsi come delle
soggettività neutre, per quanto combattive e giudicanti, “al di là di ogni
destra e di ogni sinistra” (per esempio come i nostri “grillini”); dall’altra ,
piangono sugli effetti di un processo di cambiamento epocale che sta
annientando le loro sicurezze e li condanna ad una drastica deprivazione di
opportunità, di giustizia sociale e di diritti. E’ fin troppo comprensibile che
essi non riescano a capire che è proprio il fatto di non riuscire più a
distinguere in che cosa la “sinistra” differisce dalla “destra” quel che li inchioda
al processo di arretramento di cui si lagnano, diventandone così, pur
protestando, tanto vittime quanto inconsapevoli complici. Meno comprensibile è
che un’analoga incapacità riguardi gli intellettuali, a maggior ragione se
dotati di indiscutibile prestigio internazionale come i quindici autori (tra
essi anche un inedito Bauman) raccolti, “da tutto il mondo”, con un buon lavoro
del curatore Heinrich Geiselberger, in un recente libro edito da Feltrinelli,
intitolato “LA GRANDE REGRESSIONE”, che dovrebbe “spiegare la crisi del nostro
tempo”. Invero, se si insiste nel leggerlo con attenzione, si finisce per
scoprire che il libro (nel caso, senza eccessivo pudore, con una certa moderata
profumazione di “sinistra”) invero, mentre abbonda nell’analisi (per restare
alla nostra metafora, pestando l’acqua nel mortaio), in realtà non riesce a
spiegare proprio niente! Si potrebbe anche dire che si tratta di un libro
paradossalmente reazionario fin dal titolo. Perché, vivaddio, come si fa a
pensare che sia una “grande regressione” quel che sta avvenendo da alcuni
decenni, che è uno dei più radicali e rivoluzionari processi di cambiamento
epocale fin qui registratisi nella storia dell’umanità ovvero il passaggio
dall’età della “rivoluzione industriale” a quella del tutto inedita (così l’ho
per primo chiamata fin dall’anno 2000) della “rivoluzione
elettronico-informatica”? A volere un po’ esagerare si potrebbe dire che
ciascuno oggi può portarsi questa rivoluzione in tasca: basta possedere uno
smartphone di modesta qualità.
Certo, per quanto fosse più armonico e
rassicurante, provvido e benefico per molta gente, l’antico mondo su basi
agricole non sarebbe mai stato migliore e più desiderabile di quello poi
formatosi con la “rivoluzione industriale”. Lo stesso può dirsi oggi per
l’ormai superato mondo della “rivoluzione industriale” rispetto a quello nuovo
della “rivoluzione elettronico-informatica” che stiamo vivendo. Il problema,
per quanti in esso oggi riescano ad avere sufficiente consapevolezza del valore
rivoluzionario (e pertanto oggettivamente progressista) di quanto sta
accadendo, non è tanto quello di temere una qualsiasi “regressione”, ma di
riuscire a conseguire una gestione sociale e socializzante dei vantaggi
e, se si vuole, anche dei rischi, della nuova rivoluzione. Un’impresa ardua di
cui sono ancora deboli ed indecisi i primi tentativi che, per un lungo tempo,
consisteranno in un faticoso provare e riprovare. Ed è questa l’impresa
dell’avanzare verso il futuro nella quale la Sinistra è chiamata a traferire
operosamente, innovandone l’incidenza civile e morale, la memoria della sua
specifica tradizione per eliminare o almeno ridurre la portata dello
sfruttamento capitalistico e per difendere e potenziare ad ogni livello le
libertà civili e i diritti umani. Finché – verrebbe da sperarlo subito con una
visione dialettica della storia, anche se pochi oggi, persino a sinistra, osano
pensarlo - lo stesso capitalismo non sarà superato.
Giuseppe Carlo Marino
Nessun commento:
Posta un commento