Nella
sinistra di classe, omettendo di compiere sul punto la necessaria riflessione teorico-pratica,
si è data erroneamente per compiuta l’analisi dell’origine dello stalinismo e
delle sue conseguenze. Questione di cui parlerò in queste note (*)
****
Premetto che alcune analisi
critiche di seguito fatte anche del pensiero di Lenin, -che, consapevole dei
miei limiti, mi riservo di approfondire -, tengono ferma la lezione storica di
fondo del leninismo, lo spartiacque rappresentato dal salto da Egli compiuto su
un punto essenziale nei confronti della II Internazionale. La quale, come noto,
si mosse entro un concezione che postulava la necessità del capitalismo, come
fase ‘storico-tecnica’ della storia universale, sostenendo che il suo corso
storico si sarebbe concluso con la riduzione del tessuto produttivo a totalità
capitalistica: c e v + pv. Concezione che va fatta risalire alla revisione
condotta da Engels nel tentativo di dare risposta ad alcuni problemi teorici
lasciati aperti da Marx. Revisione che comportò una parziale messa da parte della
critica operata da Marx delle scienze borghesi ed in particolare della
filosofia hegeliana, con un certo qual conseguente abbandono delle categorie
logico-storiche marxiane, che si realizzò con la riduzione della ‘concezione
materialistica della storia’ di Marx, da teoria delle leggi specifiche
di movimento della società capitalistica a teoria generale
dell’evoluzione per fasi della storia dell’umanità. Cosa che avvenne con
la pretesa scoperta, da parte di Engels, di leggi immanenti di sviluppo della
natura, della società, della storia. La succitata tesi che il corso storico del
capitalismo si sarebbe concluso con la riduzione del tessuto produttivo a
totalità capitalistica: c e v + pv, nasceva dalla non
comprensione della funzionalità capitalistica delle unità e degli strati
produttivi che non creano plusvalore, pur partecipando alla redistribuzione sociale
di esso. Causa detta non comprensione si parlò - (posizione che si ritrova ancora
in Lenin e poi nelle tesi del vecchio PCI) - di compresenza di modi di
produzione eterogenei, specifici di fasi storiche diverse; di residui
precapitalistici destinati ad essere erosi e superati dalla ‘necessaria’
vittoriosa generalizzazione del modo di produzione capitalistico. E si disse
che la socializzazione oggettiva della produzione rimaneva compito storico del
capitalismo, mentre al proletariato sarebbe rimasto il compito – a
socializzazione della produzione avvenuta – di risolvere la ormai dispiegata
contraddizione tra grado di socializzazione raggiunto e persistenti forme di
appropriazione privata e organi statali a difesa di siffatte forme di
appropriazione.
Al di là delle
critiche che in parte muoverò, con riserva, ripeto, di approfondimento, va
detto che con la leniniana teoria della rottura rivoluzionaria per la conquista
del potere e del controllo e gestione del processo di socializzazione, nasce
una discriminante generale con la Seconda Internazionale: col rifiuto di relegare la lotta politica del proletariato a
contrattazione delle ‘condizioni democratiche’ entro cui perpetuare la
‘gestione democratica’ della forza-lavoro - (come farà il PCI in forma aperta a partire dall’VIII
congresso, dicendo che “l’azione
del partito doveva svolgersi nel quadro democratico -parlamentare, dentro gli
ambiti previsti dalla Costituzione repubblicana”), e con l’affermazione, al contrario, del
diritto della classe operaia a gestire gli strumenti di produzione, in quanto
soggetto e non oggetto alienato, gestito dalla borghesia e dal parlamento.
Compito strategico, questo, che, nei limiti e con le contraddizioni di cui
diremo, si specifica nella tematica del dualismo di potere e della dittatura
del proletariato, che si materializza nelle varie fasi della rivoluzione
bolscevica, e che comporta l’eliminazione della proprietà capitalistica.
Il rifiuto
complessivo della lezione storica del leninismo ha comportato e comporta il
ritorno, da parte di molti, alla tematica della II Internazionale, e specie al
pensiero di Kausky e di Bernstein.
***
♦ Intervento armato a Praga nell’agosto 1968.
Anche quest’anno, ricordando l’invasione armata della
Cecoslovacchia da parte dell’Urss e di altri paesi del patto di Varsavia per
porre fine all’esperimento riformatore di Dubcek, sono state espresse rinnovate
posizioni critiche sul Manifesto e in commenti fatti dal PRC.
- Quel che è mancato e manca in questi discorsi è il
carattere utopico presente nel modello proposto da Dubcek e dal partito
comunista. Cecoslovacco. Modello fondato sulla giustapposizione di democrazia
politica - (intesa questa, nell’accezione usata da Marx nella ‘Critica della filosofia hegeliana del
diritto pubblico’ e in ‘La questione
ebraica’) - e socializzazione ‘tecnica’
dello sviluppo economico. Dovendosi intendere con tale giustapposizione la
pretesa – che trova il suo fondamento negli scritti di Lenin – di voler e poter
risolvere il problema della gestione di massa del processo di socializzazione
per mezzo di una ‘presunta’ vivificazione, nella società socialista, della
democrazia statuale-politica, della teorizzata ‘democrazia reale’ o semi-Stato leniniano
(v. in Stato e rivoluzione, p. 50, ed. Samona e Savelli 1963).
Mentre, invece, la soluzione del problema della
gestione di massa del processo di socializzazione implicava ed implica, al
contrario, di dover far vivere, vivificandoli e non burocratizzandoli in organi
periferici del semi-Stato, e stimolandone comunque la creazione, istituti di
gestione sociale omogenei ai nuovi rapporti sociali di produzione e tali,
quindi, da vanificare la separazione tra società politica e società civile - (intesa
anche questa nell’accezione usata da Marx nella ‘Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico’ e in ‘La questione ebraica’) -, separazione che è la fondamentale caratteristica
della società capitalistica e della sua specifica ‘funzionale’ democrazia.
Infatti, lo Stato di diritto kantiano, che come diceva Della Volpe, in polemica
col revisionismo dei Bernstein e Mondolfo, trova il suo fondamento nel ‘Contratto sociale’ di Rousseau, è reso
necessario dai rapporti di produzione capitalistici, alla cui gestione è
funzionale (v. Marx nella ‘Critica
della filosofia hegeliana del diritto pubblico’ e in ‘La questione ebraica’, ed anche ne ‘Le lotte di classe in Francia dal
1848 al 1850, e nella ‘Critica del
programma di Gotha’, ed. di Mosca, 1947, p. 37, in cui scrive che ‘la presente radice dello Stato è la società
borghese’).
• Occorreva ed occorre compiere un ripensamento
critico della teoria affermata da Lenin, e fatta propria dalla III
Internazionale, e quindi anche dal PCI, circa il rapporto di continuità tra
democrazia (propria e funzionale allo stato borghese), e socialismo come ipotesi generale di trasformazione
rivoluzionaria. Ed osserviamo comunque che il riferimento fatto dal PCI a Lenin
circa il recupero della democrazia nella costruzione del socialismo, una volta negato
da esso (VIII congresso ed anche da prima) il concetto di ‘rottura’, si è sostanzialmente tradotto in negazione della strategia leninista di
conquista del potere. Negazione che anche nella odierna sinistra di classe è stata compiuta. (Il PRC l’ha reso esplicita
durante la segreteria di Bertinotti, confermando sino ad oggi tale posizione. Sono
al riguardo da tener presenti anche le tesi a mio avviso errate sulla guerra e
l’imperialismo del V congresso del PRC del 2002, in particolare le tesi 14 e
15. Che sostanzialmente combaciano con quella di Kautski dell’ultraimperialismo,
di cui sia Lenin che Liebknecht dimostrarono la piena infondatezza).
Occorre quindi un ritorno a Marx ed una
riconsiderazione teorica sulla natura dello Stato borghese, fondato sulla
separazione tra società politica e società civile, e la cui democrazia è la
forma specifica più idonea, con la mediazione che avviene in particolare in Parlamento,
per la gestione dell’accumulazione capitalistica e quindi per il perseguimento dell’interesse
generale capitalistico.
Di conseguenza occorre riesaminare criticamente
l’ipotesi di una presunta continuità fra democrazia e socialismo con riguardo
alla politica del vecchio PCI ed anche alla teoria leniniana di dittatura del
proletariato quale ‘semi-Stato’.
***
♦ A proposito delle
condizioni che hanno dato origine alla dittatura staliniana va condotta a mio avviso un’analisi circa le scelte
compiute allora, in Urss, in campo economico. La gestione della società rimase
divisa in due settori: industria
nazionalizzata pubblica e agricoltura colcosiana privata, con conseguenti
rapporti sociali di produzione eterogenei e l’aprirsi di contraddizioni nel
modello di pianificazione.
Le conseguenze si manifestarono nella progressiva
crisi del rapporto fra partito, Stato e società.
Gli organi sovietici si dissolsero, come sopra
accennato, in gestori tecnici delle scelte operate dal partito e delle
direttive della pianificazione; massima fu la centralizzazione del partito e la
sua conseguente ossificazione; e, torna a dirsi, si manifestarono le
contraddizioni proprie ad un sistema di gestione del tessuto eterogeneo e
dualistico della società (industria pubblica e agricoltura privata). – Anziché assumere
il dualismo proprietario e produttivo come contraddizione propria dell’iter
pratico e teorico della Rivoluzione d’Ottobre – contraddizione da superare
generalizzando la socializzazione della produzione e della sua gestione -, lo
si istituzionalizzò e cristallizzò come ‘forma propria’ e ‘stabile’
dell’accumulazione socialista. In tal modo la dittatura del proletariato si
trasformò nella istituzionalizzazione del partito in gestione ‘politica’ di
recupero dell’agricoltura colcosiana privata all’accumulazione complessiva ed
in gestione autoritaria del settore industriale nazionalizzato. In tale
contesto maturò e si affermò la dittatura personale di Stalin, il quale aveva certamente
particolari problematiche psicologiche (vs. A. L. Strong in ‘L’era di Stalin’, capitolo V), che se spiegano in parte la sua criminale ossessione
persecutoria contro quello che era stato il gruppo dirigente bolscevico, non
costituiscono però la spiegazione centrale della organizzazione del potere consolidatasi
sotto la sua gestione a livello economico e plitico.
Va qui detto che se è vero che in Lenin la dittatura
del proletariato deve garantire la continuità del processo rivoluzionario, è
pur vero che va sottoposta ad esame critico proprio la specificità della
gestione ipotizzata da Lenin, in quanto fondata per un verso sull’elevazione ‘ideologica’
del partito del proletariato a coscienza dello sviluppo storico, per un altro
sul recupero del carattere oggettivo e necessario dello sviluppo delle basi
materiali quale premessa storico-tecnica del socialismo. E’ in questo ambito
che occorre, in particolare, ritrovare i presupposti teorici che
spiegano il vanificarsi del processo si socializzazione della società sovietica
e lo svuotamento dei soviet come organi
di gestione consapevole dello sviluppo della ricchezza. Problemi,
questi, di cui si è fatto cenno sopra.
***
♦ La teoria leniniana dell’accumulazione capitalistica.
Il libro di Lenin, di fondamentale importanza, cui far
riferimento al riguardo, è la ‘Cosiddetta
questione dei mercati’ del 1893.
Lenin, esaminati gli schemi di riproduzione di Marx,
nota che da essi “non si può trarre
alcuna conclusione circa la preponderanza della I sula II categoria: in questo schema entrambe si
sviluppano parallelamente ”: In quanto, scrive Lenin, lo schema di Marx non
prende in esame il progresso tecnico che “si
esprime nel fatto che il rapporto tra capitale variabile e capitale costante (v/c)
diminuisce gradualmente”. Quindi, Lenin introduce negli schemi marxiani
coefficienti di variazione nella composizione organica media sociale, per cui,
così modificato, il modello si evolve manifestando la preponderanza della I
sula II categoria, sicché, Egli scrive, “l’aumento
più rapido è quello della produzione dei mezzi di produzione;viene poi la
produzione dei mezzi di produzione per i mezzi di consumo, mentre l’aumento più
lento riguarda la produzione dei beni di consumo”. Quindi “nella società capitalistica la produzione
dei mezzi di produzione cresce più rapidamente della produzione dei beni di
consumo”. Tale tendenza – nota Lenin – risulta essere “la legge generale di sviluppo della società capitalistica”,
che la distingue, come suo carattere specifico, dalle altre formazioni
economiche precedenti. Per cui Lenin riduce in sostanza detta distinzione al
ritmo con cui si sviluppa la tecnica.
Nel compiere il suddetto passaggio dagli schemi di
riproduzione di Marx, in cui le due sezioni si sviluppano parallelamente, a
quelli suoi che includono il ‘ progresso
tecnico’, Lenin introduce indici di incremento della composizione organica
‘media sociale’ nelle due sezioni.
Introduzione che appare ‘gratuita’ così come quella della differenza di tali
incrementi nei singoli settori; e risulta quindi infondata l’introduzione di
una disfunzionalità fra i e II settore, e, di conseguenza, la pretesa legge
della ‘preponderanza’. Al riguardo va
osservata la ‘gratuità’della pretesa dimostrazione matematica da parte di Lenin
della legge della ‘preponderanza’, in
quanto è l’assunto aprioristico della succitata legge generale dello sviluppo capitalistico
a suggerire le cifre degli incrementi; sicché la dimostrazione matematica non è
altro che la mera illustrazione numerica di quanto già postulato prima.
In conclusione, il progresso tecnico, che è il fatto
da spiegare quale risultato di tutto il movimento dell’accumulazione, diviene
aprioristicamente tratto distintivo del capitalismo ‘nei confronti delle società che l’hanno preceduto’, e primo motore
immobile dell’accumulazione. Per cui in Lenin, per influenze, a nostro avviso,
engelsiane, si ha la riduzione del capitalismo a momento tecnico della storia
del progresso umano ed a base ‘tecnico-materiale’
del socialismo, erede della tecnica (processo di socializzazione
capitalistica) entrata in conflitto storico con
la sovrastruttura capitalistica. Donde, da un lato, l’abbandono del rapporto
posto da Marx tra aumento della composizione organica del capitale e caduta
tendenziale del saggio di profitto quale fondamento basilare della criticità
dell’accumulazione capitalistica; e, dall’altro, la fondazione, da parte di
Lenin, di una teoria che ridurrà le crisi capitalistiche a ‘squilibrio storico’
nella produzione dei valori d’uso, quale conseguenza inevitabile della
(supposta) preponderanza del I sul II settore.
- Analizzando poi l’origine e lo sviluppo del
capitalismo in Russia, analisi che occupa la seconda parte della “Questione dei mercati”, Lenin polemizza
con i populisti criticando la loro pretesa ‘artificialità’
di detto capitalismo. Notiamo, ai fini del discorso qui svolto, che la sua
analisi presenta tre punti importanti, che avranno a nostro avviso importanza
decisiva in tutta l’opera di Lenin rivoluzionario.
• Circa il rapporto fra capitalismo e suoi
antecedenti storici, va notato che la separazione di cui parla Lenin tra
‘società naturale’ (in realtà società feudale) e società mercantile, e l’assunzione di quest’ultima a ‘ponte storico’ della produzione
capitalistica, finiscono per operare un’astrazione ‘arbitraria’ che porta a
considerare capitalistico tutto ciò che nasce dalla società mercantile e
precapitalistico tutto ciò che resiste a trapassare nel suddetto stato ed a
trasformarsi conseguentemente in capitalismo. Da tale impostazione deriva la
bipartizione della società in capitalismo e residui feudali - (tesi che fu al
centro di tuta l’analisi del vecchio PCI) –, che, mentre impedisce di vedere
l’origine del capitalismo nella trasformazione dello specifico plusprodotto
feudale in specifico plusvalore capitalistico, porta a scambiare la sostanza
specificamente capitalistica dello sfruttamento (in effetti ormai
generalizzata nella Russia zarista) con la forma
precapitalistica dell’appropriazione di lavoro non pagato (rendita in
natura ad esempio).
• Circa il rapporto fra accumulazione e crisi,
l’assunto aprioristico della preponderanza riduce le contraddizioni che si
manifestano ad inevitabili sperequazioni fra I e II settore. Donde, trova in
dette tesi il suo fondamento la riduzione della criticità del capitalismo a
crisi storica tra sviluppo tecnico e appropriazione, nella fase monopolistica.
Va tenuto conto inoltre dell’affermazione di Lenin (in
‘Questione dei mercati’, p. 96, Opere
complete, V. I) che “nella
produzione capitalistica l’equilibrio della produzione con il consumo viene
raggiunto solo attraverso una serie di oscillazioni; (e che) quanto maggiore è la
produzione, quanto più vasta è la cerchia dei consumatori ai quali essa è destinata,
tanto più forti sono le oscillazioni. Si comprende perciò che quando la
produzione borghese ha raggiunto un alto grado di sviluppo, non ha più la
possibilità di mantenersi nel quadro dello Stato nazionale: la concorrenza costringe i capitalisti a estendere continuamente
la produzione ed a cercarsi mercati esteri per la vendita in massa dei prodotti ”. Tesi,
questa, in cui, assieme alla precedente, trova il suo fondamento la teoria leniniana
dell’imperialismo.
-----
- Nei libri di Lenin ”Che cosa sono gli amici del popolo” del 1894 e nel successivo “Contenuto economico del populismo” si
delinea una concezione dello sviluppo della società come processo storico
naturale, nel quale le cause del passaggio da una forma di produzione ad
un’altra non sono ricondotte al modo di procedere delle contraddizioni interne
specifiche ai rapporti sociali esistenti ed alle soluzione che esse postulano,
ma allo sviluppo delle forze produttive generato dal progresso della tecnica.
Per cui quest’ultimo, da momento dipendente dai rapporti di produzione dati,
nel cui solo ambito trova una sua funzionalità specifica, viene invece visto,
come più sopra accennato, come motore della storia universale. Poi, rinnovata
la confutazione della tesi dei populisti sull’inesistenza del capitalismo in
Russia e affermatone, anzi, lo sviluppo nell’agricoltura, Lenin, riprendendo
quanto già teorizzato nella ‘Questione
dei mercati’, sostiene che nelle campagne permangono residui feudali che –
dice – debbono essere distrutti “il più
rapidamente possibile per sbarazzare la società borghese dai vincoli
semifeudali ereditati dal passato, e quindi rendere più libera la classe
operaia e facilitare la lotta contro la borghesia” (in ‘Amici del popolo’, Opere I, p. 253). Scrive Lenin che “i populisti sono incapaci di capire come si
può lottare contro il capitalismo non ‘ostacolandone’ lo sviluppo, ma
affrettandolo …. in avanti, …. in modo progressivo” (in ‘Il contenuto economico del populismo’,
Opere, I, p. 360). In sostanza l’indagine di Lenin è tutta tesa a dimostrare il
suo assunto centrale della nascita ‘necessaria’ di un’economia mercantile
capitalistica, erede dell’ormai superata società feudale, economia mercantile
che deve adempiere alla sua funzione nella continuità progressiva dello sviluppo
storico-tecnico.
Poi, distinguendo i rapporti di produzione esistenti
nelle campagne in rapporti di produzione di tipo feudale (aziende
nobiliari) e rapporti di produzione borghesi (nuova
classe media), opera una classificazione che
prescinde dall’esistenza di un mercato capitalistico unico, e ciò lo
porta a definire le aziende nobiliari come un impaccio (da eliminare) allo sviluppo capitalistico. In tal modo non vede che
le aziende nobiliari costituiscono invece settore essenziale
dell’accumulazione capitalistica in agricoltura, e come in esse
l’appropriazione di plusvalore sotto forma di plusprodotto fosse elemento
formale nella produzione di merci che si realizza nel mercato capitalistico.
***
♦ La teoria leniniana dello Stato
Scrive Lenin in “Una
caricatura dl marxismo” (in Opere, XXIII, p. 72) che <<1) il proletariato non può realizzare la
rivoluzione socialista se non si prepara ad essa con la lotta per la
democrazia; 2) il socialismo vittorioso non potrà consolidare la sua vittoria e
condurre l’umanità verso l’estinzione dello stato, se non avrà realizzato
integralmente la democrazia>>. Nell’ambito di tale concezione Egli elabora
compiutamente la sua teoria dello Stato in generale e della dittatura
proletaria in particolare, quale specifica forma di gestione statuale per la creazione delle basi
tecnico-materiali per il passaggio al socialismo.
In “Stato e
rivoluzione” (Ed. Samonà e Savelli, 1963) Lenin fa propria la teoria dello Stato di cui parla Engels in ‘L’origine della famiglia, della proprietà
privata e dello Stato’ (Ed, Riuniti, 1963). Opera in cui, parlandosi non dello Stato rappresentativo
borghese, di cui tratta Marx nella ‘Critica
della filosofia hegeliana del diritto pubblico’ e in ‘La questione ebraica’, bensì, in forma astratta, dello Stato in
generale, si dice, a p. 200, che “lo Stato ….. è un prodotto della società
giunta ad un determinato stadio di sviluppo, … scissa in antagonismi
inconciliabili; e perché … (le) classi
.. in conflitto non distruggano se stesse e la società in una sterile lotta,
sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della
società, che …. mantenga il conflitto nei limiti dell’ordine; e questa potenza
che si pone al disopra di essa e che si estranea sempre di più da essa è lo
Stato”. Lenin scrive infatti in ‘Stato
e rivoluzione’ che “lo Stato è il
prodotto dell’inconciliabilità delle contraddizioni di classe. Lo Stato sorge …. nella misura in cui le
contraddizioni di classe non possono oggettivamente essere conciliate’ (p. 9, ed. cit.) e si istituzionalizza in ‘forza che è sorta dalla società, ma che
si pone al disopra di essa e si estranea sempre più da essa’ (p.11, ed. cit.).
Rilevo che Lenin usa le stesse espressioni e parole di Engels. Il quale, in
sostanza, fa riferimento non alla specifica società borghese, in cui dominano i
rapporti di produzione capitalistici, come, ripeto fa Marx, ma, in generale, a
’qualsiasi società e quali che siano le classi’; una forza, lo Stato, avente la
funzione di affermare e conservare il dominio della classe dominante sulla
subalterna e dominata. Engels, parlando, ripeto, dello Stato in generale, non
dello ‘Stato politico’ specifico-capitalistico, vanifica di fatto l’intuizione-scoperta
marxiana della omogeneità e funzionalità dello stato rappresentativo agli
specifici rapporti di produzione capitalistici, approdando alla riduzione della
teoria dello Stato a teoria dell’apparato. Lo Stato capitalistico in tal modo
in nulla si differenzia dallo Stato in generale, divenendo la sua specificità
solo strumentazione tecnica della macchina statale che si adegua al nuovo
rapporto di sfruttamento.
Lenin in ‘Stato
e rivoluzione’ (p.15, ed. cit.) scrive: “non
solo lo Stato antico e lo Stato feudale erano organi dello sfruttamento degli
schiavi e dei servi della gleba, ma anche lo Stato rappresentativo moderno è lo
strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale”.
Ed afferma, compiendo una generalizzazione ed ipostatizzazione, che la
riduzione dello Stato rappresentativo moderno a Stato-forza avviene attraverso
la vanificazione degli organi democratici, i quali, con la corruzione ed il
parlamentarismo, vengono trasformati in orpello ‘democratico’. Vanificazione ed
annullamento della democrazia – dice Lenin - che diviene massima nella fase
imperialistica, con la conseguente identificazione tra governo – ridotto a
‘comitato d’affari’ dei principali gruppi monopolistici – ed apparato
coercitivo. E cita sempre in ‘Stato e rivoluzione’ (p.16, ed. cit.) un
intero passo di Engels in cui questi dice che “l’onnipotenza della ricchezza è più sicura in una repubblica
democratica, …… (che) è il miglior
involucro del capitalismo”. In quanto consente in sostanza alla potenza del
denaro di vanificare la democrazia.
La riduzione dello Stato essenzialmente ad apparato
coercitivo riteniamo porti ad ignorare la complessiva azione di gestione
dell’accumulazione capitalistica da parte dello Stato rappresentativo borghese
attraverso i suoi istituti: parlamento,
esecutivo e burocrazia ministeriale, funzionalmente specifici, come aveva colto
Marx, ai rapporti di produzione capitalistici.
Lenin, comunque, sulla base delle succitate
teorizzazioni, creò tra riformisti e rivoluzionari lo spartiacque della rottura
e distruzione della macchina militare e burocratica dello Stato, e della
liquidazione del parlamentarismo fondato sulla divisione fra potere legislativo
ed esecutivo (cap. III,, ed. cit.). Ed al riguardo Lenin
richiama in ‘Stato e rivoluzione’ (p.44,
ed. cit.) la notazione fatta da Marx ed
Engels nel 1872 nella prefazione alla nuova edizione del ‘Manifesto del partito
comunista’, in cui dicono che l’esperienza della ‘Comune’ dimostrò che “la classe operaia non può impossessarsi
puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto
per i propri fini”; e cita pure (p.45, ed. cit.) la
lettera di Marx a Kugelman del 12.4.1871 in cui scrive che “il prossimo tentativo della rivoluzione
francese non consisterà nel trasferire da una mano ad un’altra la macchina
militare e burocratica, come è avvenuto sino ad ora, ma nello spezzarla …. Tale è la condizione
preliminare di ogni rivoluzione sul continente”. E così Lenin conclude: “spezzare
la macchina militare e burocratica dello Stato è la lezione principale del
marxismo sul problema dei compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò
che concerne lo Stato” (p.45, ed.
cit.). E più avanti, parlando della Comune che
abolisce il parlamentarismo, trasformando “gli
istituti rappresentativi da sedi di chiacchiere inutili in organismi di lavoro”,
scrive che “la Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro,
esecutivo e legislativo nello stesso tempo ”, uno Stato in cui “le istituzioni rappresentative restano,
ma il parlamentarismo come sistema particolare, come divisione del legislativo
dall’esecutivo, come condizione privilegiata per i deputati non esiste più”
(p.55 e 56, ed. cit.).
In sostanza Lenin recupera la ‘democrazia politica’ come forma statuale di ‘vera democrazia’, nella quale “la
democrazia attuata tanto integralmente e coerentemente, per quanto è
concepibile, si trasforma da democrazia borghese in democrazia proletaria, da
Stato in qualche cosa che non è più
uno Stato” (p. 50, ed. cit.) – che noi appelliamo semi-Stato, e nella quale si
perpetua lo Stato come corpo politico separato della società civile.
Entro questa nuova forma di Stato - (“Stato di transizione”, “non più Stato in senso proprio” - p. 104, ed. cit.)
– “comincerà a scomparire la necessità di
qualsiasi amministrazione in genere” (p.
106, ed. cit.) - ……. “Allora sarà spalancata la porta …. alla
completa estinzione dello Stato” (p.
117, ed. cit.).
• Circa il controllo che i nuovi organi del potere
sovietico devono esercitare sul processo di accumulazione, Lenin decide in un
primo tempo che le organizzazioni operaie (comitati di fabbrica e di officina) esercitino
un controllo sul processo produttivo delle fabbriche che non vengono confiscate
(v. “I
bolsceviche conserveranno il potere statale?”, in Opere, XXVI, p. 93-97).
Però, dopo il decreto del 28 giugno 1918 con cui si
procede alla nazionalizzazione dei principali settori industriali, lo Stato
sovietico si trova di fronte alla necessità di gestire direttamente
l’economia, sicché il rapporto tra Stato e sviluppo economico-tecnico
postula una soluzione diversa da quella prevista dalla tematica del controllo,
alla quale sin dal 1917 Lenin aveva tentato di dare risposta con il ‘Consiglio superiore dell’Economia Nazionale
(Vesenchà)’.
Lenin, quindi, come sostenitore dello sviluppo tecnico
in alternativa alle ipotesi di socializzazione, e quindi sostenitore di una
rigida centralizzazione tecnica della gestione dell’economoa, dà inizio a quel
processo di trasformazione della ‘Vesenchà’
da organo di controllo dell’economia nel suo complesso a organo di direzione
tecnica dell’industria, su cui si fonderà quel rapporto tra Stato e gestione che si perpetuerà sino
a Breznev e dopo. Esclusa infatti così ogni forma consiliare od elettiva nella
direzione di fabbrica, la ‘Vesenchà’,
assorbito e soppiantato l’apparato del controllo operaio, dirigerà la gestione
dei mezzi pubblici di produzione attraverso i direttori di fabbrica.
La volontà
della classe operaia viene recuperata in una prima fase solo attraverso il
sindacato o il comitato di fabbrica, come momento di controllo sul tema della
organizzazione del lavoro, “sulla via …
che permetta di conciliare il compito di ‘discutere’ nelle riunioni sulle
condizioni di lavoro con il compito di obbedire senza riserve alla volontà del
dirigente’” (v. Lenin, “I
compiti immediati del potere sovietico”, in Opere XXVII, p. 241-42).
Il discorso andrebbe sviluppato anche per quanto
riguarda il settore dell’agricoltura, tema che mi riservo di riprendere in
futuro.
• Va comunque qui ricordato e tenuto presente che Stalin, nel suo rapporto al XVIII Congresso
sull’attività del Comitato centrale del partito comunista dell’Urss, delineò una teoria dello Stato, in cui disse
che “per abbattere il capitalismo fu
necessario non soltanto cacciare dal ‘potere’ la borghesia, ma anche
distruggere (i suoi organi di gestione della macchina statale) e mettere al loro posto … una forma
proletaria di Stato. …. Ma da ciò – aggiunse - non deriva affatto che il nuovo Stato proletario non possa conservare certe funzioni del vecchio Stato”. Ed in conclusione ne affermava la continuità sino a quando …...
“non verrà liquidato l’accerchiamento
capitalistico” (v. Stalin, ‘Questioni
del leninismo’, ed. Rinascita, 1952, p. 722-725).
Luigi Ficarra 23 marzo 2017
(*) Ho utilizzato per intero, in queste note, appunti e documenti risalenti alla
seconda metà degli anni ’60, e connessi alla mia frequenza dell’attività del
Centro K. Marx di Roma, diretta ed organizzata dal compagno Carlo Cicerchia,
che ne fu in tutto l’ideatore ed il promotore.
Nessun commento:
Posta un commento