LUIGI FICARRA, La classe dirigente della periferia italiana nella sua connessione con quella nazionale

E’ interessante l’articolo di Galli della Loggia sulle “oligarchie che dominano nella periferia italiana e che attraverso i loro esponenti troviamo ogni volta alla testa degli istituti in bancarotta”.
E’ una radiografia ben fatta, utile a leggersi.
Con un limite di classe di fondo però: ritenere che non vi sia un nesso delle oligarchie locali con la politica nazionale e cioè col potere statale centrale.

E con altri due errori, dovuti pur essi all’ideologia borghese propria dell’autore, che lo portano a dire che lo “Stato italiano nella sua storia unitaria” “ha sempre combattuto” contro le oligarchie che dominano nella periferia per “far valere regole di legalità e fini collettivi più ampi e più civili”; e ad affermare altresì che il dominio delle oligarchie nella periferia, da Egli, ripeto, visto sconnesso dal potere statale centrale, ha impedito di perseguire “l’interesse generale” capitalistico.
La verità è che le oligarchie della periferia intanto vivono e prosperano in quanto sono strettamente connesse con il potere centrale statale. Cosi come avveniva ed avviene per la mafia. L’avevano ben capito, parlando di questa, Franchetti e Sonnino nella loro famosa inchiesta del 1876.
Sul punto riporto quanto scritto in una mia passata relazione sulla mafia.
Scarpinato in un interessante saggio, scritto assieme ad Ingroia, dal titolo <<Un programma per la lotta alla mafia>>, pubblicato nella rivista “Micromega”, n. 1/2003, così scrive: <<Paradossalmente il punto in cui la riflessione per l’elaborazione del programma dovrebbe prendere il suo avvio – il rapporto mafia e politica – è anche quello in cui, a muoversi sul piano di una rigorosa aderenza alla realtà, la riflessione dovrebbe concludersi a causa di un’intima contraddizione sistemica che ha reso sinora il problema irrisolvibile. Tale contraddizione potrebbe formularsi nei seguenti termini : se il fenomeno mafioso è espressione sistemica della “polis”, come può la “polis” estirpare tale fenomeno senza contraddire se stessa ?>>. E per chiarire quanto detto, Scarpinato e Ingroia riportano in nota al loro articolo un passo della famosa relazione di Franchetti e Sonnino del 1876 :Questa facilità alla violenza nella classe che è fondamento di tutte le relazioni sociali in Sicilia, fa sì che non solo essa non possa usare la forza, che sola avrebbe, di distruggere l’autorità materiale e morale della classe facinorosa (cioè della mafia), e d’impedire in generale l’uso della violenza, ma ancora ch’essa sia cagione diretta per cui la pubblica sicurezza persista nelle sue condizioni attuali”. --- “La forza – continuano  Franchetti e Sonnino – che deve dar la prima spinta al mutamento di queste condizioni deve dunque essere assolutamente estranea alla società siciliana, e deve venir da fuori: deve essere il governo”. – (Qui emerge a mio avviso un errore proprio alla posizione di classe di Franchetti e Sonnino, che impediva loro di vedere l’esistenza dell’autonomia delle classi popolari in Sicilia, che si manifesterà in tutta la sua forza dirompente col movimento dei Fasci dei lavoratori dal ’892 al gennaio ‘894, che fu represso con lo stato d’assedio proclamato da Crispi e processi farsa che inflissero decine di anni di galera ai suoi dirigenti). – “Ma – rilevano ancora Franchetti e Sonnino – il governo appoggiandosi, …. come avremo luogo di dimostrarlo, principalmente su quella classe dominante stessa, si trova in posizione singolare. Da un lato il suo fine più immediato ed importante è di sopprimere la violenza; dall’altro, per i principi che lo informano, si regge sulla classe dominante (in Sicilia); e l’adopera come consigliera e in gran parte come strumento nella legislazione e nella pratica di governo. Di modo che ha in mano dei mezzi che sono in contraddizione col suo fine, e conviene che rinunzi o al suo fine, o all’aiuto, e all’appoggio della classe dominante. Non avendo rinunciato a questo, ha, per necessità, sacrificato quello”. “Dunque – concludono Franchetti e Sonnino – nelle presenti condizioni di fatto e coll’attuale sistema di governo che si appoggia sulla classe dominante (in Sicilia), la cagione prima e il fondamento, non dell’esistenza, ma della persistenza delle condizioni della pubblica sicurezza in Palermo e dintorni, è la parte diretta e indiretta che ha in queste condizioni la classe dominante” (siciliana).
La contraddizione sistemica del rapporto stato – mafia, individuato da Scarppinato e Ingroia e molto tempo prima da Franchetti e Sonnino nella loro lucida inchiesta, postula, per essere superato, una rottura rivoluzionaria.
La stessa rottura che è necessaria per superare – abbattere le oligarchie economiche-finanziarie che dominano nella periferia italiana ed il potere statale borghese col quale sono in necessaria simbiosi.
E’ falso quanto afferma Galli della Loggia: che lo “Stato italiano nella sua storia unitaria” “ha sempre combattuto” contro le oligarchie che dominano nella periferia per “far valere regole di legalità e fini collettivi più ampi e più civili”. Basterebbe solo pensare allo scandalo del Banco di Roma del 1888, nel quale fu coinvolta tutta la classe dirigente nazionale dell’epoca, da Giolitti a Crispi. E ricordare lo scandalo del Banco di Sicilia ed il primo grande delitto di Stato,  l’assassinio Notarbartolo del gennaio 1893, che fu ordito da un politico legato al Crispi, Raffaele Palizzolo, detto ‘Il Cigno’. Ed in epoca a noi vicina la pagina nera della P2 che vide coinvolta gran parte della classe dirigente italiana.
E’ pure falso che Galli della Loggia dica che il dominio delle oligarchie nella periferia – (che, all’apposto di quanto Egli scrive, va visto connesso al potere statale centrale) - abbia impedito di perseguire “l’interesse generale” capitalistico.
E’ al riguardo sufficiente ricordare che le guerre coloniali iniziate nel 1882 col proto-fascista Crispi videro l’unità di tutta la classe dirigente nel perseguire un comune interesse imperialistico, il quale conobbe una meritata sconfitta con la gloriosa vittoria degli etiopi nella battaglia di Adua del 1896.  E ricordare poi l’unità di tutta la classe dirigente nella violenta guerra contro la Libia del 1911, nella partecipazione alla prima guerra mondiale, nella nuova guerra contro l’Etiopia - Abissinia del 1935 condotta con armi di sterminio di massa; armi che Badoglio usò pure per sconfiggere la gloriosa resistenza del popolo libico contro l’occupazione coloniale italiana.
Così come è indubbio che Giolitti col suo malgoverno e con la sua politica di integrazione di gran parte del socialismo italiano, perseguì allora un interesse generale capitalistico.
Lanaro, nel suo più importante saggio storico, ‘Nazione e Lavoro’, evidenziò giustamente la continuità della classe dirigente borghese dello stato unitario italiano, dall’800 al fascismo, nel perseguire comuni generali interessi di classe e di dominio. E non a caso, Galli della Loggia, nel prendere la parola al convegno organizzato dall’Istituto di Storia di Padova l’anno successivo alla morte di Lanaro, si preoccupò di attaccare a fondo le tesi da quest’ultimo svolte nel suo succitato saggio ‘Nazione e Lavoro’.

Mi rendo conto che sono argomenti che meritano un maggiore ed ulteriore approfondimento, e quindi mi scuso della estrema sinteticità della mia nota.
Luigi Ficarra

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http://www.corriere.it/opinioni/16_agosto_07/quei-notabili-locali-soldi-potere-a910a6ee-5c0d-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml

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