Negli ultimi anni, la questione
meridionale ha assunto un tono talmente razzista da toccare i vertici della
volgarità. Non si assiste
più ad un dibattito serio e riflessivo, ma a diatribe
alquanto sconce che tendono ad inasprire ogni speranza di
intesa. Il presente intervento vuole essere un
invito a riportare il discorso su
un piano serio e costruttivo che impegni le parti a lavorare seriamente per una sensata risoluzione del secolare diverbio
tra Nord e Sud.1
Certamente non è la prima volta che il Sud si trova a
subire e a difendere attacchi alla propria identità. Già alla fine
dell‘Ottocento, il Sud si vedeva denigrato dalla scuola antropologica
positivista che lo condannava a perenne arretratezza. Antropologi, come il veronese
Cesare Lombroso, vedevano
negli aspetti anatomici e psicologici del meridionale evidenza inconfondibile di una razza
inferiore. La loro
tesi si fondava principalmente sulla costatazione che il cranio di alcuni
criminali meridionali, da loro scientificamente studiati, rivelava la
persistenza di peculiarità somatiche ancestrali. In questo atavismo anatomico,
gli studiosi individuavano l‘incapacità dell‘uomo del Sud di incivilirsi e di
realizzarsi nella società moderna. Per loro, il meridionale sarebbe sempre rimasto
predisposto alla violenza
criminale e privo
di un forte senso civico e morale. Questa teoria che, come ebbe a
lamentare il parlamentare siciliano Napoleone Colajanni, faceva del Sud una razza
maledetta, non solo attecchì in Italia, ma si propagò anche all‘estero, dove si
faceva sempre più palese e più oltraggiosa la discriminazione contro i nostri
emigrati. Ai positivisti facevano
fronte studiosi di tendenze socialiste per i quali
la causa dell‘arretratezza del Sud non si
doveva cercare in scienze speciose come la craniologia, tanto vantata dal
Lombroso, ma nella storia e nella cultura. Definendo gli studi dei positivisti “romanzi antropologici“, Colajanni attribuiva il sottosviluppo del Sud a secoli di vassallaggio
feudale. A conferma di tutto ciò, bastavano le indagini dei parlamentari
Franchetti e Sonnino, i due studiosi che nel 1876 si inoltrarono a piedi e a cavallo
all‘interno della Sicilia
osservando le condizioni primitive del territorio e della sua gente.2 Il meridionale, concludeva il
socialista Colajanni, è più che capace di emanciparsi
una volta fuori dall‘ambiente che
l‘opprime, bastava considerare il successo economico, sociale e politico di tanti meridionali emigrati all‘estero.3
Il
dibattito, dopo quasi un secolo d‘inerzia, è riemerso col nascere della Lega Nord negli anni novanta. La
discussione non si svolge più sulla
scia antropologica, ma sul fattore economico da cui scaturiscono
vari pregiudizi sociali. Denunciando l‘onerosa dipendenza del Sud
sull‘erario statale, la Lega chiede la revisione del codice fiscale e della
distribuzione di fondi per il Mezzogiorno. Leghisti di tendenze
separatiste aggiungono alle loro proteste lo spreco di fondi statali
per un Mezzogiorno avvilito
dal persistente abbrutimento della cultura, specialmente dalla collusione mafia-politica. In questo atteggiamento, il Sud avverte
il pericolo di essere abbandonato alla sua indigenza economica e chiede la resa dei
conti per i danni, subiti sin dall‘Unità, sotto l‘imperialismo industriale e commerciale del Nord. Purtroppo, il confronto non si attua
solamente tra studiosi
seri ma anche
in pubblico, con la partecipazione di quanti credono
di aver qualcosa
da dire. Oggi,
infatti, vi può prendere parte chiunque abbia accesso a un computer
dove si può dar voce e sfogo a idee e pregiudizi, a paure e rancori. Data la facile accessibilità e immediatezza di internet, si tratta spesso di
interventi tempestosi, colorati di accuse e preconcetti facilmente impugnabili e non di rado volgari.
Basta dare un‘occhiata ad alcuni siti web del Sud e della Lega per rendersi
conto dei termini
osceni con cui l‘uno insulta l‘altro. Da qui, la necessità di ancorare il discorso ad argomenti seri
e costruttivi che promettano di superare la controversia.
Spetta soprattutto ai dirigenti politici desistere dalla
retorica facile e rancorosa che tende a scaldare gli
animi dei costituenti e a raccontare la propria identità politica. Per quanto riguarda la Lega, è ovvio che i
leaders si ispirano all‘antica Lega di Legnano, vivo richiamo dell‘orgogliosa solidarietà dei comuni lombardi
che nel secolo XII sconfissero l‘imperatore Barbarossa. Ma per i promotori del movimento non bastava il ricordo del glorioso
passato, bisognava definirsi anche
in un contesto che parlasse
ai contemporanei del presente. In cerca
dunque di un‘identità attuale e di rilievo,
politici come Bossi,
Borghezio, Calderoli, Gentilini, e tanti altri banditori dell‘ideologia leghista,
puntarono sul contrasto
meridionale vs. settentrionale: il primo arretrato, terrone,
pigro, mafioso; il secondo tutto
l‘opposto. Insomma, loro, razza eletta di inciviliti,
industriosi, e ricchi, si distinguevano da quella razza già detta «maledetta». Le loro arringhe,
tonanti di disprezzo verso la razza «fatta di vermi e
parassiti», come lamenta Pino Aprile,4 continuano ad incoraggiare disgustose voci come “Forza
Etna“ mentre il vulcano brucia le case nei suoi pendii
e “Forza Terremoto“ mentre tanti Aquilani periscono sotto le
macerie delle loro case. La reazione
del Sud non è stata meno animata soprattutto su siti web, dove si leggono interventi non meno infuocati.
Inoltre, a controbilanciare la minaccia
secessionista della Lega, sono nati gruppi di smania separatista come, ad esempio, il Movimento Neoborbonico la cui identità
reclama lo splendore del Regno delle due Sicilie.
Questo fervore identitario ha dato luogo a tutta una serie di libri, saggi e convegni
tendenti alla commemorazione del Meridione borbonico e alla
condanna di un Nord
razzista, arricchitosi alle spalle del Sud.
Dal
2001, osserva Aprile, è cresciuta una vasta editoria con “oltre 700 convegni
all‘anno sul problema
del Sud, e un gran numero di nuovi
settimanali e mensili“ (290). In questo forum,
si attaccano i settentrionali
di oggi e i piemontesi del Risorgimento con lo stesso zelo che ispira il razzismo leghista. Molti attribuiscono il sottosviluppo del Sud ai Sabaudi
che hanno conquistato e sfruttato il Meridione, razziandone le risorse e abbandonandolo a un futuro
di arretratezza e d‘ingiustizia. Il loro
attacco si concentra su due fronti principali: uno di autocelebrazione,
l‘altro di denuncia. Col primo si rivendica l‘alta cultura del Sud, dove si
stava bene prima dell‘unificazione dell‘Italia; col secondo si rimprovera al Nord la rovina che vi ha apportato con la
sua devastante invasione. Tra i fautori di questa offensiva, marcia in prima fila Antonio Ciano col suo I Savoia e il massacro
del Sud, punto
di riferimento di altri meridionalisti interessati alla questione del
Sud.5 Dati alla mano,
Ciano ricorda che prima dell‘Unità, nel Meridione fioriva un‘industria che gareggiava nei mercati europei
con premi alle mostre di Londra e di Parigi. Sotto
Ferdinando II venne inaugurata la prima ferrovia italiana, e al cantiere di
Castellammare si costruivano motori navali di grande potenza.
I numerosi cantieri
navali del Regno, scrive Ciano, “erano rinomati
in tutto il mondo e […] davano
lavoro a migliaia d‘operai“
(81).6 Lo studioso loda
la pubblica istruzione del Sud soprattutto dell‘antica Sicilia, dove insegnarono
Pitagora e Archimede, e fa notare che sotto i Borbone fiorirono
l‘università di Palermo e scuole e accademie varie a Napoli.
Dopo aver rivendicato la gloria del Meridione antico e borbonico, i meridionalisti chiedono al Nord il rendiconto dei i danni subiti nel fare
l‘Italia. Danni che vanno dalle sanguinose rappresaglie dei soldati piemontesi alla razzia delle
banche e allo scarso interesse del governo verso le fatiscenti istituzioni e infrastrutture del Sud. Tra le rappresaglie
più esecrabili si ricordano gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, dove i
militari del nuovo Regno, avendo messo a ferro e a fuoco gli abitati,
si diedero al massacro indiscriminato degli abitanti.7 La resa dei conti
include la depredazione del tesoro del Regno delle due Sicilie e del patrimonio
personale dei Borbone, capitali che Torino pensò bene investire nello sviluppo
dell‘industria e delle infrastrutture del Nord. Se ciò non fosse bastato,
lamentano i meridionalisti, la politica del governo ha continuato a favorire l‘espansione industriale del Nord.
È un dato di fatto, scrive
Aprile, che “dal 1860 al 1998 lo stato spende
in Campania 400 volte meno che in Veneto“ (121). Non a caso, conclude lo studioso,
“oggi le infrastrutture – strade, porti,
ferrovie – sono dal 30 al 60 in meno del Nord“ (156).8 Ma la valutazione di questi dati, puntualizza Giorgio Bocca, prende la
sua rilevanza solo quando si considera che nell‘anno dell‘Unità il Nord
contava già 67.000
chilometri di strade contro
i 15.000 chilometri del Sud. Allora,
precisa il giornalista piemontese, nel Sud le merci si trasportavano ancora
sugli asini, a spalla o
sul capo delle
donne e “sotto
Salerno non c‘era
neanche un chilometro di ferrovia“ (268).
Anche se, come giustamente insiste Giorgio Bocca,
il sottosviluppo del Sud
non è stato asfissiato dallo
sviluppo del Nord,
non si può
negare che la noncuranza dello
Stato lasciò che il Sud continuasse a languire nell‘arretratezza a cui l‘avevano destinato secoli di abusi e privilegi di stampo feudale. Già nel 1876, Sydney
Sonnino accusava il governo di negligenza e / o incompetenza riguardo i problemi del Mezzogiorno e lamentava che gli italiani ne impedivano
la trasformazione culturale, avendo “legalizzato l‘oppressione esistente ed
assicurato l‘impunità all‘oppressore“.9 Verso la fine del secolo, Luigi
Capuana s‘indignava contro il governo di Torino per aver mandato in Sicilia
impiegati e funzionari inetti solo “per sbarazzarsene“
(La
Sicilia 44). Quest‘atteggiamento
di trascuratezza verso il Meridione si traduce in aperta discriminazione
durante il ventennio fascista, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione delle terre sorte dalla bonifica dell‘Agro Pontino. Nel 1931,
l‘Opera Nazionale Combattenti, a cui era toccato un lotto di terreni di 18
mila ettari, assegnò la maggior parte delle terre, prima abitate da contadini e
pastori abruzzesi, romani e campani, quasi esclusivamente a contadini dell‘Alta Italia, in particolare del Triveneto e dell‘Emilia
Romagna. Questa politica preferenziale è felicemente drammatizzata nel Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, dove il narratore / contadino Perruzzi ricorda come “trentamila persone
nello spazio di tre anni – diecimila
all‘anno – venimmo
portati quaggiù dal Nord. Dal
Veneto, dal Friuli, dal Ferrarese, portati alla ventura in mezzo a gente
straniera che parlava un‘altra lingua. Ci chiamavano ‘polentoni‘ o peggio
ancora ‘cispadani‘“. Un po‘ più oltre, il narratore racconta come migliaia di settentrionali furono
“presi e trapiantati qui come un‘armata biblica, a diventare noi stessi, proprietari
della terra che coltivavamo“ (137, 224).
È
chiaro che finché si rimane su accuse e proteste la questione non potrà mai
approdare a conclusioni edificanti. Il Meridione
deve avvalorarsi di una sua identità che, forte di una disamina
coscienziosa del proprio passato,
possa far fronte
ai problemi attuali
ed entrare nel dibattito da pari, a testa alta. La
necessità di tornare sui passi della storia, già avvertito da meridionalisti
come Colajanni e Salvemini, è essenziale per capire
come e da dove si sia arrivati
ai problemi di oggi.10 Ed è
in questa
direzione che punta l‘iniziativa di una narrativa revisionistica e disinteressata
del Risorgimento, anche se non tutti vi
aderiscono rigorosamente. Alcuni
partono dal presupposto che bisogna smitizzare gli eroi decantati dalla storia
ufficiale come Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi, Crispi
ed altri. I veri eroi,
insistono, sono le vittime
della barbarie piemontese, poiché anche le vittime fanno e raccontano la
storia. Napoleone Colajanni ricorda come il silenzio straziante del sordomuto
Antonio Cappello racconti la brutalità dei militari che, volendone fare un soldato
e ritenendo simulato il suo sordomutismo, lo sottoposero alla tortura per farlo
parlare (La Sicilia 39). Altri veri eroi sarebbero i briganti che difesero a sangue il “benamato“ Regno contro un invasore assetato
di sangue e di denaro. In tutto questo, non bisogna
perdere di mira che la doverosa e nobile proposta di ripercorrere le orme della
storia alla ricerca della propria identità, è raggiungibile solo se si resiste
alla tentazione di costruire argomenti su affermazioni affrettate e non sempre sostenibili. Il lavoro sarà più
valido e più completo se oltre alla storia si tiene conto della letteratura ovvero
della maniera in cui poeti
e scrittori hanno
scelto di contestualizzare nella
finzione delle loro opere eventi
e personaggi di quella storia.
Il regime
borbonico
Nel rivedere
il passato, è essenziale evitare
affermazioni facilmente
contestabili come, ad esempio, la pretesa che Ferdinando II era un re
illuminato. Parlando della risolutezza del re Borbone di sviluppare l‘industria
del Regno, Ciano lamenta che “intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare
la grandezza illuminata di Ferdinando II“ (79). Tale giudizio non regge di
fronte alla violenza con cui Ferdinando soppresse i moti liberali
del ‘48. Perché
mai i suoi sudditi gli conferirono
il nomignolo di ‘Re Bomba‘
se non per i disastrosi bombardamenti con cui
ridusse Messina in macerie? Ferdinando si servì spesso dei suoi feroci soldati
“stranieri“, per la maggior parte
svizzeri e ungheresi, per sopprimere sommosse come la sanguinosa rivolta del ‘49 a
Catania. Dopo la riconquista della Sicilia,
l‘inasprimento reazionario di Ferdinando
consegnò alle carceri del regno migliaia di rivoltosi e dissidenti, e costrinse il fiore dell‘intellighenzia siciliana a lasciare
l‘isola. Pirandello coglie
bene la realtà di questo esodo ne I
vecchi e i giovani, dove il vecchio
generale Gerlando Laurentano è costretto a prendere la via dell‘esilio dopo il fallimento
della rivoluzione del ‘48, di cui era stato uno dei principali sostenitori.11 Tomasi di
Lampedusa denuncia l‘atmosfera poliziesca del regime quando nel Gattopardo fa dire al Principe di Salina
che a causa della “vessatoria censura borbonica“ la Sicilia ignorava
l‘esistenza dei grandi romanzieri d‘Europa (173-74). Napoli fu fortemente
condannata all‘estero a tal punto che William Gladstone, lo statista inglese
che denunciò al mondo la crudeltà degli
affollati penitenziari borbonici, definì il governo borbonico la “negazione di
Dio eretta a sistema di governo“ (“the negation of God erected into a system of
Government“ [Letter 1. 6]).12
Garibaldi
È
altrettanto insostenibile il tentativo di smitizzare personaggi del Risorgimento come Garibaldi, accusato, tra l‘altro,
di ruberie e assassinii. Pino Aprile, citando la Pellicciari, ricorda che Pier Carlo Boggio, uno
dei più severi critici di Garibaldi, già nel 1860 denunciava: “Somme ingenti,
somme favolose scompaiono con la facilità e rapidità stessa con la quale furono agguantate dalle
casse borboniche“ (115). Antonio
Ciano scrive che il generale, arrivato a Palermo, “saccheggiò il Banco di
Sicilia di ben cinque milioni di ducati, come fece saccheggiare tutte le chiese e tutto ciò che trovava
sulla strada“. Lo studioso
inveisce contro
il generale nizzardo
battezzandolo “assassino e criminale di guerra“ e servo del denaro e della massoneria
inglese (64-65).13 Accuse alquanto pesanti e non del tutto
sostenibili. Non c‘è dubbio che i garibaldini misero le mani sulle banche e sull‘erario delle Due Sicilie,
ma è difficile stabilire quanto di questo denaro servì per le spese dell‘impresa militare, quanto
andò per lo sviluppo industriale del Nord e quanto finì nelle tasche di alcuni liberatori. Quello che è certo è che Garibaldi
non trasse alcun profitto dalle razzie delle
banche e del
tesoro privato dei
Borbone. Basta pensare alle condizioni precarie
in cui passò gli ultimi
anni della sua vita quando non
solo dovette vendere lo yacht che gli avevano regalato gli inglesi, ma dovette
anche scrivere e vendere romanzi per provvedere alle sue modeste necessità,
tanta era la sua povertà.
Riguardo
all‘etichetta di “criminale di guerra“, il riferimento più ovvio sembra
essere ai “fatti“
di Bronte e di altri
comuni siciliani dove i contadini si diedero all‘occupazione
caotica delle terre e a vendette sanguinose contro gli odiati “galantuomini“. Sebbene quegli eccidi siano
ampiamente documentati, è da tener presente che l‘intervento dei
garibaldini fu necessario per domare le rivolte e porre fine
alla violenza. Dopotutto, era responsabilità del governo dell‘isola mantenere l‘ordine
pubblico e garantire la sicurezza di vita e di proprietà dei cittadini. È
comprensibile attribuire la causa di quelle insurrezioni rurali alle promesse garibaldine – mai attuate
– di dividere le terre demaniali. In un discorso
alla Camera nell‘ottobre del 1860, ricorda
Costanzo Maraldi,
Giuseppe Ferrari definiva le rivolte una guerra sociale ispirata dal
decreto garibaldino del 2 giugno (495). Anche se non si può negare l‘effetto
istigatore delle promesse garibaldine su un popolo da secoli angariato dalla fame e assetato di terra, non fu certamente Garibaldi a impedire
la distribuzione delle terre, bensì la ricca borghesia che da oltre mezzo
secolo ne ostacolava l‘esecuzione. Già dal 1816 vigevano leggi – mai applicate – per la quotizzazione e la spartizione delle terre
demaniali. Per Agostino Depretis, allora dittatore pro tempore della Sicilia, il decreto del 2 giugno altro non era se non “una modificazione
di una legge vigente“ (Maraldi
495). Infatti, si ispiravano a questa legge i vecchi tentativi anche violenti
di occupare le terre pubbliche. Va ricordato che alcuni capi della rivolta di
Bronte avevano partecipato all‘occupazione delle terre nel ‘48. Vide bene Francesco Crispi
quando definì le rivolte
rurali come “la guerra dei berretti contro
i cappelli, che è avvenuta in tutti i tempi e che
risorgerà sempre“ (Romano 220).14 Su queste orme,
il Massari e il Castagnola nei discorsi alla Camera del 1864 concludevano che “il brigantaggio è la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari
ingiustizie“ (Colajanni, Gli avvenimenti xviii).
Il tentativo
di smitizzare Garibaldi cede di fronte alla grande stima
in cui fu sempre tenuto dalle popolazioni del Sud. Sin dallo sbarco in Sicilia,
gli isolani lo accolsero dappertutto con grandi manifestazioni di affetto: lo storico
/ romanziere / giornalista parmense Franco Mistrali
(1833-1880) lo chiamò
“miracolo delle stirpe“ (88); il comune di
Partinico, aggiunge Mistrali, deliberò di onorarlo con un monumento che
lui non accettò, suggerendo di dedicare le risorse alla compera di armi per la
rivoluzione (152); perfino il siciliano Giuseppe La Farina, uno dei suoi più spietati detrattori, lo disse “amatissimo dagli isolani“
(Pellicciari 42). Denis MacSmith scrive che il Generale entrò a Napoli in
carrozza, e al San Carlo fu accolto con una “great ovation“ e con forti applausi al grido di Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi (Garibaldi
104-5). A condividere tanta ammirazione fu Victor Hugo che
nel suo “Discorso per Garibaldi“, pronunciato a Jersey il 13 giugno 1860, lo definì “un uomo della
libertà, un uomo dell‘umanità“.
L‘entusiasmo
e l‘affetto dei siciliani per il generale nizzardo non si spensero con la rivoluzione. Nel 1882, quando
già vecchio e prossimo
alla morte accettò l‘invito di partecipare alle celebrazioni del VI centenario dei Vespri Siciliani, venne accolto con grande giubilo
prima a Napoli e poi a Palermo. Con la sua morte, avvenuta
pochi mesi dopo il
viaggio in Sicilia,
non morì “il sogno garibaldino di giustizia e libertà“,
come sostengono alcuni (Carvello 49). Se poi si visse “l‘inganno della ‘terra ai contadini‘“, che si esternò
nei tumulti di Bronte e di tanti
altri comuni in tutto
il Mezzogiorno, la delusione fu solo nell‘immediatezza delle promesse del
decreto del 2 giugno 1860. Ma in quelle promesse non si deve vedere "l‘inganno", bensì le buone intenzioni di un uomo che, sebbene grande leader di uomini,
non apprezzava, come giustamente gli rimproveravano i suoi detrattori, le difficoltà politiche, amministrative e finanziarie
che comportava l‘attuazione di un tale decreto.15 Sottovalutava, infine, il tenace
egoismo della classe
dirigente che da secoli resisteva ad ogni forma di spartizione delle terre demaniali.
Lo capirono i proletari siciliani che verso la fine dell‘Ottocento lo
elevarono a simbolo della loro lotta contro
i baroni e la ricca borghesia.
Organizzatisi in Fasci dei Lavoratori nel 1892-3, gli operai chiedevano contratti agrari dignitosi (i
patti di Corleone), e migliori condizioni di lavoro nelle zolfare. In tutta la Sicilia, elevarono Garibaldi a campione della loro causa, tappezzando le
sezioni dei Fasci con il suo ritratto e con manifesti di stampo garibaldino.
Nelle loro cerimonie, sfilate, e manifestazioni
non mancavano di sventolare gonfaloni, bandiere, coccarde,
tutti in rosso, il distintivo colore dei Mille.
Perfino
il Fascismo che, come scrive Piero Bevilacqua, scatenò una lotta violenta
contro leghe contadine e Camere del lavoro, non riuscì ad abbattere il mito garibaldino che si era
venuto creando nella
seconda metà dell‘Ottocento (124).16 Dopo il ventennio fascista e con
l‘avvento della Repubblica, il Partito Comunista Italiano adottò l‘immagine di
Garibaldi come simbolo della lotta dei lavoratori, sbandierandone il ritratto accanto al distintivo simbolo della falce e martello. Personalmente, ricordo le campagne elettorali dei primi anni
cinquanta, quando i comunisti costellavano i muri
del paese con manifesti ricoperti dall‘immagine del generale
nizzardo. Ricordo anche quando, poco prima
della riforma agraria decretata dalla legge Sila del 1950, i contadini si
recavano a piedi, a cavallo e sui carretti all‘occupazione, puramente simbolica, delle terre, ostentando camicie e fazzoletti rossi e sventolando bandiere rosse con l‘effigie del Generale.
Ancor oggi, il mito di Garibaldi vive in tutta
la sua grandezza nella vita degli italiani che lo onorano con convegni, mostre,
musei, associazioni e società operaie. Basta pensare
al bicentenario della
sua nascita (2007)
celebrato in tutta Italia
e all‘estero. Per l‘occasione, La Società Operaia
di Mutuo Soccorso “Giuseppe
Garibaldi“ di Ispica (Ragusa), che nel 1865 conferì
al Generale la carica di Presidente onorario e perpetuo,
scelse di onorarlo con manifestazioni locali e con
la pubblicazione dell‘opuscolo Ispica
nell‘Epopea Garibaldina.
Viene da chiedersi come mai Garibaldi
più di ogni altro “padre della
patria“, come Vittorio Emanuele II, Cavour,
Mazzini, continui a ispirare
passioni e discorsi in Italia
e all‘estero. Tanti
personaggi della mitologia risorgimentale sono stati
impressi nella coscienza storica nazionale attraverso l‘istruzione pubblica, statue,
nomi di piazze, strade, scuole, musei, associazioni, società ecc.
Insomma, non c‘è una città italiana dove non capiti di vedere una statua o
passare per una via che non ricordi il nome di un protagonista del
Risorgimento. A tutta prima potrebbe sembrare strano che sia proprio Garibaldi
a suscitare tanto interesse, soprattutto se si tiene presente che parecchi
studiosi hanno ridotto a dimensioni realistiche l‘uomo e le sue leggendarie
gesta militari. Si è parlato del suo rapporto
non del tutto decoroso con varie
donne/mogli, di scandali
finanziari, battaglie perse per incompetenza e battaglie vinte per
vigliaccherie e tradimenti nelle schiere nemiche. Ciò nonostante, l‘epopea persiste. Se il perdurare del mito garibaldino non si può attribuire alle sue qualità
personali è perché
la vera ragione della sua grandezza non sta nel fatto storico,
ma nell‘ideale di libertà e di giustizia sociale
di cui il momento lo fece eroe.
Nella storia visse da
uomo e da leader di uomini; nella
cultura e nell‘ethos nazionale assurse a
simbolo di lotta per la dignità umana. Ed è in questo contesto che bisogna accogliere il giudizio di Victor Hugo
e le parole di Cesare
Bruno che, in un discorso commemorativo pronunciato a Ispica nel 1910,
lo disse simbolo della
“tendenza infrenabile dell‘anima umana a insorgere contro l‘iniquità […] la prepotenza e l‘ingiustizia“ (42).
Un altro
aspetto fondamentale della
cultura meridionale che merita
una giusta rivalutazione è il livello dell‘istruzione pubblica prima e dopo l‘Unificazione. Alcuni revisionisti meridionali, lamentando lo stato deplorevole delle scuole del Sud,
rimpiangono l‘alto livello culturale sotto i Borbone. Con tono velato di
nostalgia, Ciano scrive che sotto i Borbone l‘insegnamento nelle scuole
pubbliche “permise a tutti di imparare l‘arte del leggere e dello scrivere,
consentendo ai figli di contadini l‘accesso agli uffici
pubblici, la carriera nell‘esercito e soprattutto la presa di coscienza
delle libertà individuali e dell‘indipendenza di cui godeva
il Regno delle
Due Sicilie […]. Dopo il 1810,
in tutti i comuni s‘istituirono scuole primarie gratuite
a spese dei comuni; molte ne furono istituite nei
capoluoghi di provincia“ (84). È certo che a Napoli e a Palermo c‘erano
accademie e università dove si formavano le nuove generazioni di avvocati, impiegati statali e ufficiali militari. È da dubitare,
però, che queste opportunità si presentassero a molti “figli di contadini“, i quali
spesso non avevano nemmeno la possibilità di frequentare le scuole elementari. Se la dura vita dei campi
lasciava loro poco tempo libero per lo studio, e la stanchezza ne assopiva la voglia, la carenza di strade rendeva praticamente impossibile raggiungere le rare e sparse
scuole rurali. Da aggiungere che queste cosiddette scuole consistevano solo di
una stanzetta fornita di un piccolo tavolo, a cui rimediava il maestro, e delle
sedie che gli studenti portavano quelle poche volte che riuscivano ad andare a
lezione. Rosario Romeo fa notare che nel 1861, dei 358 comuni siciliani solo 268 avevano
scuole elementari. In tutto, si contavano circa 21.000 alunni, ossia lo 0,86% della popolazione, con un rapporto
inferiore a quello
di ogni altra regione italiana (201).
Se si considera che i Borbone
non avevano imposto
nessun obbligo scolastico e
che avevano in effetti abbandonato l‘istruzione pubblica alla noncuranza delle
amministrazioni comunali si capisce come nel 1864 gli analfabeti meridionali fossero
835 su mille per i maschi e 938 per le femmine. Per la rilevanza di questi
dati, basta ricordare che nel 1881 in Lombardia
circa 37 abitanti
su cento erano analfabeti contro 80
per ogni
cento abitanti nel Meridione.
Non dovrebbe, dunque, sorprendere
se nei paesi e nelle campagne del Sud il livello culturale fosse deplorevolmente
basso. Ad accentuare il mediocre livello d‘istruzione contribuiva l‘atteggiamento di alcuni galantuomini che non vedevano di buon occhio l‘istruzione pubblica e non si curavano,
quindi, di mandare i propri
figli a scuola. La loro diffidenza nasceva in parte dalla paura che i figli
sviluppassero un senso di cameratismo con i giovani cafoni, e in parte dal
sospetto che la scuola ispirasse idee sovversive e potenzialmente
destabilizzanti nei giovani, soprattutto nelle umili menti dei contadini.17 Non fu puro caso,
quindi, che una volta, quando io frequentavo il ginnasio, due signori mi
chiesero che ne facevo di quei libri
che portavo sotto il braccio.
Quando risposi che li leggevo, uno di loro in tono
rassegnatamente allarmante si volse all‘altro
e lamentò: “Dove
sta andando a finire questo
mondo, perfino i figli di
contadini pretendono di istruirsi“. Il loro timore non era del tutto infondato, poiché i giovani studenti della mia generazione
cominciarono a contestare quel mondo di usi, abusi e soprusi che da
secoli angariava la vita dei nostri padri.
Nondimeno, perfino dopo un
intero secolo dalla caduta dei Borbone, si era ancora
lungi da un sistema
d‘istruzione pubblica che “avrebbe consentito“ ai diseredati una vera e propria
scalata sociale.
La
celebrazione chiaramente nostalgica dell‘era
borbonica e il risentimento verso
un Nord percettibilmente arrogante hanno portato alcuni meridionalisti a insistere
che il Sud non aderì volontariamente al nascente Regno
d‘Italia, ma fu conquistato
e colonizzato da un‘invasione armata. I termini “colonia“
e “conquista“ e le loro varie forme lessicali costellano le pagine
di scrittori meridionalisti come quelle
di Carlo Alianello che nel 1972 pubblicò La conquista del Sud. Già nel 1892, Luigi Capuana lamentava la
tendenza del nuovo governo di trattare i siciliani come “gente conquistata, tenuta in poco conto, quasi da sfruttare soltanto“ (La Sicilia 45). Pochi anni dopo, Napoleone
Colajanni dava voce a una simile protesta, denunciando l‘indole predatoria del Nord e accusando i settentrionali di vedere nel Sud “una terra coloniale da sfruttare e imporvi funzionari“ (La Sicilia
dai Borbone 66). Recentemente, Pino Aprile ha reiterato che
il Sud, dopo
essere stato depredato delle
sue ricchezze, fu “declassato a colonia“ (95).
Per quanto riguarda il Plebiscito che decretò l‘annessione del Sud, molti ne hanno messo
in dubbio la validità, accusando adulterazioni, raggiri e
intimidazioni. Gigi Di Fiore non è l‘unico ad affermare che i voti per i vari
plebisciti locali furono traviati da innumerevoli imbrogli, inclusi casi di votanti illegittimi e di urne sorvegliate da garibaldini e
camorristi.18 Tomasi di Lampedusa drammatizza con maestria semplice e incisiva il traviamento del Plebiscito quando fa giurare
a Don Ciccio Tumeo di aver votato contro l‘annessione. Al principe Don
Fabrizio che durante una delle loro solite battute
di caccia gli chiede di spiegare
come mai il risultato finale della
votazione non abbia registrato
nemmeno un “no“, il povero Don Ciccio non sa dire altro che ripetere “Io, Eccellenza, avevo votato
‘no.‘ ‘No‘, cento volte ‘no‘“ ( 136).
Per quante
irregolarità e manipolazioni ci possano essere
state, “esse non oscurano
la vastità del consenso“, scrive
Andrea Camilleri (48). In
altri termini, la votazione non può essere definita una farsa, come vogliono
alcuni19, perché
centinaia di migliaia di voti positivi non avrebbero
inciso sull‘esito finale, anzi vi avrebbero
conferito più legittimità. A
dirla con Don Fabrizio, “il voto negativo di Don Ciccio, cinquanta voti simili
a Donnafugata, centomila ‘no‘ in tutto il regno, non avrebbero mutato nulla al
risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo“ (Il gattopardo 137). Considerando che la votazione è stata di 1.302.064
“sì“ contro 10.309 “no“ nelle province napoletane, e di 432,053 “sì“ contro 709 “no“ in Sicilia, non è difficile
vedere la logica di
Don Fabrizio né si può mettere in dubbio l‘asserzione di Mac Smith, secondo cui,
“most Sicilians wanted annexation“ (Cavour 11). Il sentimento
pro-unitario può essere ravvisato anche nella leggerezza con cui militari e
politici borbonici abbandonarono Francesco II per passare al nemico. Il
generale Ignazio Cataldo, responsabile della Piazza di Napoli, ed altri alti
ufficiali dell‘esercito si consegnarono ai garibaldini senza sparare un colpo.
Ufficiali della marina, come il capitano di vascello
Giovanni Vacca e il capitano
Amilcare Anguissola, non esitarono a schierarsi con Garibaldi. La defezione dell‘Anguissola fu particolarmente dannosa perché
consegnò al nemico
la pirocorvetta Veloce con tutti i marinai a bordo, i quali scelsero
di entrare al servizio
dei piemontesi.20 Nel settembre del
1860, l‘intera flotta borbonica si rifiutò di seguire
il re a Gaeta, deludendo profondamente e scoraggiando il giovane monarca che partì, dice
Gigi Di Fiore, con la “morte nel cuore“ (45).
Brigantaggio
È il caso tener
presente che il risultato del referendum, nonostante la traboccante predominanza dei “sì“, non rappresentava la scelta della maggioranza della popolazione, poiché su nove milioni di meridionali
solo circa due milioni vi presero parte, presso a poco il 19% dell‘intera popolazione. Nondimeno, non si può
mettere in dubbio
che l‘annessione del Sud alla nuova Italia fu espressamente voluta
da una stragrande maggioranza dei votanti.
A questa evidenza
aritmetica, alcuni studiosi di parte oppongono il fenomeno
del brigantaggio come prova della forte resistenza meridionale all‘annessione. Per loro,
il brigantaggio fu espressione di fedeltà verso i Borbone
e di vigore patriottico contro l‘invasione
piemontese. Antonio Ciano, ad esempio,
considera il fenomeno del
brigantaggio un “movimento
di massa“ contro i piemontesi e definisce i briganti partigiani (I Savoia, 43, 109). Questa voglia di voler fare dei briganti
tutto un fascio
cede di fronte
alla varietà delle cause
che li aveva indotti alla
latitanza. C‘erano criminali, renitenti di leva, vecchi soldati borbonici, diseredati
allettati dalla buona paga e, soprattutto, i ribelli contro le ingiustizie
sociali tra cui le tasse sul macinato, sulle bestie
e sulle pompe
funebri.21 Insomma, i briganti non erano tutti della stessa pasta: tra i
criminali e i patrioti, c‘erano anche gli avventurieri stranieri, in buona
parte blasonati belgi, tedeschi, francesi, spagnoli, e inglesi.
Con
ciò non si vuol negare che molti meridionali fossero contrari all‘annessione e che migliaia
di reduci dell‘estinto esercito borbonico e di uomini economicamente disastrati dal
crollo del Regno decisero di aggregarsi a bande
di briganti che guerreggiavano contro
i piemontesi. Ma si è lungi
dal definire “movimento di massa“ un brigantaggio che non solo era spesso
strumentalizzato dai regnanti, ma era anche responsabile di fatti brutali
e sanguinosi contro interi villaggi.
Già nel passato, i Borbone, per riconquistare il regno, si erano serviti
di quello stesso brigantaggio che avevano combattuto, perseguitato. Nel 1799,
il cardinale Fabrizio Ruffo, vicario
generale del regno, si servì
del famigerato Fra‘ Diavolo e
la sua banda di lazzaroni per riconquistare Napoli che i francesi avevano trasformato
in Repubblica Partenopea. Nel 1806, ancora una volta al servizio di Ferdinando
IV, che come nel 1799 aveva riparato a Palermo, Fra‘ Diavolo tentò invano di riconquistare Napoli dove si era installato Giuseppe Bonaparte.
Per il suo servizio, il bandito fu onorevolmente ricompensato con il titolo di
Duca di Cassano. Tra il 1861 e il 1863, comitati filo-borbonici a Napoli, a Roma e
Marsiglia, erano impegnati a reclutare uomini e a procurare denaro per irrobustire il brigantaggio che continuava a guerreggiare i piemontesi sulle montagne e nei villaggi
del meridione (Di Fiore 251).22 Nell‘ottobre del ‘61 il generale
spagnolo José Borjes, incaricato di fomentare disagi alle spalle del nemico
facendo uso dei briganti, si incontrò con il bandito Carmine Crocco. Lo stesso
Crocco, nella sua biografia Come divenni brigante,
ricorda che i borbonici lo acclamavano
“fiero generale del buon Francesco
II“ (cap. II).
Più
instrumentum regni che “movimento di
massa“, il brigantaggio era spesso il terrore di quella stessa massa di cui si
diceva portavoce. La violenza distruttiva e spesso sanguinosa dei briganti nei
confronti di poveri contadini e di interi villaggi era altrettanto brutale
quanto quella dei soldati
che davano loro la caccia.
La crudeltà dei piemontesi
sarà per sempre narrata dalle
stragi di Pontelandolfo e Casalduni, dove si contarono centinaia di morti tra
fucilati, impiccati e “abbrustoliti“ dentro le proprie
case date alle fiamme. Con
lo stato d‘assedio autorizzato dalla
legge Pica (1863),
i militari piemontesi, protesta Antonio
Gramsci, misero “a ferro e a foco l‘Italia meridionale e le isole
crocifiggendo, squartando, e seppellendo vivi i contadini poveri“ (in Aprile 67). Non si può e non si potrà mai sminuire o giustificare tanta ferocia come, d‘altronde, non si deve tacere la crudeltà di cui i briganti
si fecero protagonisti. Lo stesso Carmine Crocco,
scrivendo dal carcere di Portoferraio dove morirà nel
1905 all‘età di 75 anni, parla della brutalità e dei massacri con cui le sue
bande terrorizzavano paesi e campagne del Sud: “le nostre bande erano il
terrore e la disperazione delle Puglie della
Basilicata e della
Campania“ (cap. VI).
Nelle contrade dove operavano varie bande, inclusa quella di
questo famigerato ergastolano, la paura era tale che i contadini spesso
abbandonavano campagne e bestiame per racchiudersi nella presunta sicurezza del
villaggio. “Terrorizzate dalle carneficine della mia banda,“ racconta Crocco,
“le campagne erano spopolate, le strade deserte, vuote le masserie“ (cap. IV). Non meno brutale era la banda di Chiavone
o quella di Pietro Monaco e di tanti banditi siciliani tra cui
Varsalona, Failla Mulone, e il ricercatissimo Salamone.23 La leggenda
romantica del brigante protettore dei deboli, come ad esempio era stato Antonio
Catinella, dava luogo “all‘industria del delitto“ (Romano 272).
Tale
comportamento contesta ai briganti gli edificanti appellativi di partigiani
e di patrioti, anche se a volte
il popolino vedeva nel fuorilegge un Robin Hood, il paladino
che sfida le forze oppressive dell‘ordine. È appunto
in questo scontro
titanico e fatale che il brigante
spesso si erge ad eroe agli occhi degli oppressi, che ne mitizzano la baldanza
e vivono in lui il sogno di avventura e di libertà. Leopoldo Franchetti nota
che, in Sicilia, nelle persone di tutte le classi si sentiva “spesso trapelare nella conversazione una certa compiacenza per il tipo brigantesco, una tendenza a farne un
tipo da leggenda“ (Condizioni politiche §23.
p. 42).24 Ma
un conto è il vagar
nel sogno, altro
è la realtà delle cose, poiché se da un canto la massa mitizza i briganti, dall‘altro vive nel terrore della loro
prepotenza. La sua collaborazione con i banditi non è espressione di rispetto,
ma paura delle inevitabili ritorsioni e della violenza anche
contro le donne.
Così la pensava
Luigi Capuana che polemizzava
aspramente con i “professori di cattedra,“ come Franchetti e Sonnino, perché confondevano la paura dei contadini per convivenza con i banditi, trasformando così “le vittime del brigantaggio in complici dei propri persecutori e
carnefici“. Accusando questi “socialisti della cattedra“ di “fervida immaginazione scientifica- socialista“, Capuana spiegava
che se il contadino e il proprietario terriero
piegavano la testa davanti alla ferocia dei fuorilegge,
proteggendoli dalle autorità
e provvedendo alloggio
e ristoro, non era
perché li ammiravano, ma perché non erano per niente disposti a “farsi
ammazzare“ (La Sicilia 60-61).
La
carriera di molti briganti fu tutt‘altro che partigiana o patriottica. A dirla
con Giordano Guerri,
“molti briganti sarebbero stati comunque
delinquenti, con o senza l‘invasione piemontese, e approfittarono
dell‘invasione per nascondere un‘attività criminosa dietro gli ideali“ (174). Lo scopo
principale delle attività dei briganti
era quello di sopravvivere, difendendosi da chi dava loro la caccia
e saccheggiando campagne e villaggi per potersi sostenere
alla macchia e, in alcuni casi,
per farsi un piccolo gruzzolo.25 A parte i sussidi
che alcune bande ricevevano da esponenti filo-borbonici “per sollevare le popolazioni“, profittavano da estorsioni, sequestri di persona
e del bottino che razziavano nei frequenti assalti
ai paesi. Un‘impresa brigantesca molto
diffusa e altamente lucrativa era l‘abigeato, ossia il furto di bestiame,
soprattutto di mandrie di buoi. Lo stesso Crocco, con riferimento alla
scorreria di Trivigno, un paese della Basilicata, racconta:
sconfitto
il presidio piemontese che lo difendeva, i miei compagni anelanti di sangue e
più ancora di bottino, appena penetrati in paese cominciarono a scassinare porte per rubare tutto ciò che a loro capitava di meglio nelle case. Chi resisteva, chi rifiutava di consegnare il denaro
o i gioielli, era scannato senza pietà [...] Il paese fu messo a ferro e fuoco
[...] M‘imbatto sulla pubblica via in una donna barbaramente trucidata e vedo all‘intorno innalzarsi un denso
fumo, sono i miserabili
casolari di quei coloni posti
a fuoco dopo il saccheggio. Il saccheggio e l‘incendio durano tutta la notte; i
morti sono parecchi, qualcuno è trovato carbonizzato tra le fumanti macerie“
(cap. V).
Anche
se alcuni banditi s‘ispirarono a sentimenti patriottici, il loro ruolo
antiunitario va visto non già come espressione di patriottismo, ma nel contesto della
loro natura ribelle,
del loro rifiuto
di sottomettersi a leggi da
loro considerate ingiuste e angarianti. Intanto, va ricordato che il fenomeno
del brigantaggio precede di secoli il Risorgimento e che tende a fiorire
nelle società dove l‘individuo, avvilito
da un sistema che gli impedisce di far valer
i propri diritti,
sceglie di farsi
giustizia da sé e di vivere
fuori della “ingiusta“ legge. Da bandito,
cerca sempre di aggregarsi ad elementi sovversivi o criminali, come
ad esempio la mafia
o alcuni galantuomini, che, come
lui, disprezzano o cercano di raggirare
l‘ordine costituito. Se è vero che, come dice il barone Lucio Tasca Bordonaro, i moti in Sicilia hanno
sempre “avuto il convinto appoggio del brigantaggio“ (Camilleri 69), la ragione
è che il fuorilegge tende ad
appoggiarsi a qualsiasi tentativo armato
o ideologico che si prefigge
di ostacolare o addirittura destituire quel sistema socio-politico che,
avendolo costretto alla latitanza, gli dà poi la caccia senza tregua. In questo sodalizio, il bandito spera in una specie di redenzione o riconoscimento che non esclude
il condono di reati commessi e la speranza di poter vivere in un mondo più equo e più giusto. Ma il suo non è che un sogno, poiché presto o
tardi finisce nelle morse fatali di un ordine che non gli consente di reintegrarsi nella
società e continua a perseguitarlo. Fra‘ Diavolo
ottenne il condono di tanti omicidi e il titolo di duca, ma alla fine fu
catturato, processato e impiccato. Non meno
innaturale fu la fine di Gaetano Mammone, il brigante che Ferdinando IV aveva chiamato “il
vero sostegno del Trono“.
Il sanguinario Mammone fu agguantato e giustiziato nel 1802.
Carmine Cocco, dopo essersi
adoperato invano per
ottenere il condono, trascorse in carcere il resto della
sua vita. In tempi più recenti, il bandito Salvatore Giuliano non esitò ad associarsi al Movimento Indipendentista Siciliano che nel 1945 gli conferì il grado di colonnello
nell‘esercito separatista. Ma a nulla gli valsero gli onori, perché proprio coloro
che l‘avevano onorato decisero di farlo assassinare. Il misfatto non sfuggì ai siciliani
che, come sentiamo dal cantastorie Cicciu Busacca, videro il giovane bandito
vittima dei suoi adulatori:
Ora
nun semu cchiù cu l‘occhi chiusi,
Sapemu
Giulianu zocco fu;
Nni
ficiru di iddu tutti l‘usi
Ca
ci sirvia e ora un servi cchiù.
(Or
non siamo più con gli occhi chiusi
Sappiamo
chi fu Giuliano;
Di
lui [i politici e la mafia] ne fecero ogni uso
Chè
[fu loro] utile e adesso non serve più).
Alla fin fine, il brigante è una vittima
fatale della sua natura ribelle, per cui è un‘esagerazione voler mitizzare i briganti del Risorgimento e scambiare per atti di patriottismo il loro banditismo. Con esagerazioni e affermazioni un po‘ troppo
istintive, di cui qui si viene discorrendo, si corre il rischio di
creare miti e leggende più falsi di quelli che si vogliono abbattere. Il
dibattito con il Nord, specialmente contro il razzismo della Lega Nord, va
meglio affrontato se il Sud vi partecipa con
una sua identità
legittimata dal coraggio
morale di farsi
carico delle proprie responsabilità. I Meridionali devono
scavare onestamente nel loro passato e ritrovare la propria
identità per poi sventolarla contro quella umiliante che il Nord narra da oltre
un secolo. Il compito di portare avanti il dibattito cade
soprattutto sulle spalle
dell‘intellettuale, che invece di “fuggire e perdersi nel classico e nel
passato“, come lamentava Corrado Alvaro nel 1958 (in Teti 73), deve impegnarsi ad articolare un discorso rigoroso e ben
informato. A questo proposto, bisogna desistere dal continuare a dare la colpa al Nord per i problemi che continuano ad assillare il
Meridione. Bisogna prendere le dovute distanze da certe posizioni poco
sostenibili come, ad esempio, quella di Pino Aprile
secondo cui “il tessuto civile
del Sud è stato lacerato
da una guerra d‘invasione e occupazione“ (264). A questo punto, viene da chiedere
a quale tessuto
civile si riferisca lo studioso. Quello
logorato dalla mafia, quello asfissiato dall‘analfabetismo, o quello
strozzato da secoli di usanze feudali?
Se
persistono ancor oggi istituzioni corrotte, logiche perverse e condizioni disagiate, dovute in parte alla mancanza
di senso civico,
la colpa non è nei piemontesi del Risorgimento “né nelle nostre stelle,
ma,“ come dice Cassio al suo amico
shakespeariano Bruto, “in noi che siamo schiavi“ (“The fault, dear
Brutus, is not in our stars, / But in
ourselves, that we are underlings“, Julius
Caesar 1.2.140-41). Le radici del male del
Sud vanno cercate, appunto, in quell‘ourselves, ovvero nella secolare cultura di vassallaggio che anche dopo
l‘abolizione ufficiale della feudalità del 1806 nel napoletano e nel 1812 in Sicilia,
continuò a contrassegnare la vita del Sud.26 Del vecchio
sistema feudale solo l‘impalcatura giuridica era stata spazzata
via perché, in realtà, osserva Bevilacqua, “permanevano le vecchie culture
e mentalità“ (67). In una società agrario-feudale, come quella
del Meridione, era nell‘interesse dei baroni e della ricca borghesia terriera
scoraggiare ogni forma di vita sociale tra
i contadini. Si temeva il grido collettivo e potenzialmente
violento con cui i nuovi servi della gleba avrebbero potuto dar sfogo alla
propria miseria. A scoraggiarli era la stessa vita dei campi con le sue lunghe
giornate lavorative dall‘alba al tramonto. Inoltre, i luoghi dove idealmente
avrebbero potuto ritrovarsi (chiesette, scuole, ambulatori
sanitari), erano sparsi e lontani
dalle campagne dove vivevano. Non
solo, molti di questi
punti di riferimento erano difficilmente accessibili per la
carenza di strade e di ponti.
A
tante difficoltà si aggiungeva il ruolo intimidatorio delle Compagnie d‘armi e delle guardie campestri, che Pirandello
descrive con sottile ironia
attraverso il personaggio del sergente Placido
Sciaralla ne I vecchi e i giovani. Il maestro di scuola Sciaralla, quasi un personaggio dell‘opera dei pupi, comanda
una soldataglia di venticinque uomini in
divisa borbonica al servizio di don Ippolito Laurentano, principe di
Colimbètra. Il povero
Sciaralla è atterrito dall‘idea che la sicurezza del feudo
e del principe riposa “su lui e sul valore e la devozione dei suoi
uomini“. Ma costretto
a guadagnarsi il pane in “qualche
porca maniera“, è pronto a
subire con placida rassegnazione le ingiurie e le beffe di coloro che lo
deridono, chiamandolo ‘buffo fantasma‘ […] burattino scappato dalla storia […] don Chisciottino“ e degradandolo a caporale
o a
semplice campiere (22-31).
Simili compagnie, da tempo istituite per mantenere la sicurezza dei villaggi e delle campagne,
erano, in realtà, bande infiltrate da delinquenti e pregiudicati, al servizio di signorotti,
mafia e galantuomini intenti a tenere a bada i contadini. Anche se col passar del tempo gruppi
armati come questi furono aboliti
e sostituiti da organi
di polizia nazionale, i padroni non
rinunciarono mai ai vecchi metodi di intimidazione. Chi non
ricorda la strage del 1947 a Portella della Ginestra, dove Giuliano e la sua
banda spararono sulla folla che si
era recata in campagna per la festa del primo maggio? Nonostante niente di
concreto si fosse mai trovato per provare la complicità di esponenti politici e
proprietari terrieri, è sulle labbra di tutti che il giovane bandito fu
strumentalizzato da “galantuomini“ mafiosi per intimidire i Comunisti che allora agitavano le masse per rivendicare la distribuzione delle terre. Poco,
quindi, era cambiato
dai tempi dei Fasci
Siciliani quando la mafia aveva seminato morte e terrore
tra coloro che reclamavano la quotizzazione delle terre e migliori contratti
di lavoro.
Mafia
Naturalmente
la mafia poteva far valere la sua influenza solo su casi locali e isolati, ma
per domare rivolte di gruppi di cittadini o di intere comunità era necessario
il braccio di ferro dello Stato. Così fu nell‘agosto del 1860, quando
il governo garibaldino inviò Nino Bixio
a sopprimere le insurrezioni sorte in varie
località siciliane. Nota
tra tutte fu la strage di
Bronte, celebrata nel cinema e nella letteratura. Nel ristabilire l‘ordine
pubblico, lo Stato si ergeva a garante dei diritti, usi ed abusi cui era
avvezza la classe dirigente, cioè i “galantuomini“ o cappeddri, come erano detti allora per metonimia. Non è dunque da
escludere che Bixio fosse stato mandato soprattutto per salvaguardare gli interessi dei ricchi proprietari. Nel 1894 ancora
una volta il governo
inviò l‘esercito in Sicilia per
stroncare i Fasci che
agitavano violentemente contro le deplorevoli condizioni di vita e di lavoro.
Anche in questo caso è lecito supporre
che Crispi avesse prestato orecchio
alle richieste dei possidenti, specialmente gabellotti che si sentivano minacciati
nei loro vecchi diritti e privilegi. Alla
soppressione sanguinosa del
governo contribuì la mafia con minacce e assassinii. Noto alla storia e al cinema è il massacro di Caltavuturo (1893),
come è anche documentato l‘assassinio di mandato
mafioso del leader
dei Fasci di Corleone
Bernardino Verro.27 Negli anni ‘50,
il ruolo intimidatorio della mafia si aggiunse al tentativo della polizia di Scelba di controllare
i contadini e i braccianti che si recavano
ad ‘occupare le terre‘. Mentre i carabinieri affrontavano con durezza i manifestanti,
i mafiosi intimidivano e ammazzavano i protagonisti più audaci.28
Il
connubio mafia-polizia ha le sue radici nell‘istituzione della pubblica sicurezza affidata a
compagnie d‘armi ramificate in guardie urbane,
guardie cittadine, guardie
campestri, il cui compito era quello
di garantire la sicurezza nei paesi e nelle campagne.29 Nate dopo la
costituzione del 1812, queste organizzazioni spesso servivano, scrive Salvatore
Romano, da “forza ausiliare della polizia regia“ (277). In effetti, si trattava di organismi infiltrati da elementi criminali al servizio di
galantuomini e/o della classe dirigente. In questo ruolo “pseudo poliziesco“
non mancavano di intimidire la popolazione con
minacce di sangue e di arricchirsi rapinando e ricattando padroni e coloni.
Non sorprende che proprio
in questo periodo
si diffonda l‘abigeato a danno di
gabellotti e di mandriani grossi e minuti. Nel 1875, l‘onorevole calabrese Diego Tajani nella sua requisitoria contro il Governo
italiano illustrò ampiamente, denunciando ministri e prefetti, giudici e questori, il rapporto collaborativo e criminoso
tra queste organizzazioni e lo Stato.
L‘onorevole chiudeva il suo lungo discorso dichiarando che in Sicilia la
mafia non si poteva combattere perché era de
facto “strumento di governo locale.“30 Alla conclusione del Tajani ha dato
voce di recente lo storico inglese
John Dickie nel suo Cosa nostra,
uno dei più completi
studi sulla mafia, dove osserva
che il 1876 è il momento in cui la mafia
divenne “integral to Italy‘s sytem of government“ (67). È dunque nella
storia del rapporto collaborativo tra il governo
e queste organizzazioni criminose / parastatali che bisogna trovare le radici
della collusione mafia-Stato che perdura ancor
oggi.
Analfabetismo
Lunga
è la lista dei problemi del Sud, ma la radice di tutti i mali è senza dubbio
l‘analfabetismo, il più grande ostacolo allo sviluppo di un tessuto civico e ad
una riduzione del divario socio/economico che tuttora informa la vita
dei meridionali. Già nell‘anno dell‘Unità il nuovo Regno contava
il 78% di analfabeti con valori massimi
del 90% nel Sud
contro il 60% in Lombardia e il 57% in Piemonte. Con l‘estensione della legge Casati (1859) a tutto il Regno e con la legge Coppino
del 1877, lo Stato
dichiarava obbligatoria e gratuita l‘istruzione elementare, addossando ai comuni l‘onere di
istituire e mantenere le scuole. L‘iniziativa, lenta di tempo
e dai risultati modesti, rimase
quasi lettera morta nelle
località povere e sperdute dove mancavano sia le risorse che l‘interesse delle
autorità locali.31 I signori avevano
da sempre scoraggiato la diffusione dell‘educazione pubblica, preferendo signoreggiare un popolino incolto
e ignaro dei propri diritti
e del proprio potenziale umano. Ma se da un canto l‘ignoranza
permetteva ai signori di condizionare e manipolare i ceti popolari,
dall‘altro rendeva questi ultimi
facilmente suggestionabili a idee ed influenze provenienti dal di fuori, come si avverò
con l‘arrivo di Garibaldi nel 1860. Con proclami e promesse – poi risultati
vuoti – , il generale dalla camicia rossa risvegliò nella povera gente il
diritto ad una vita libera e più umana, riaffermando il diritto del viddranu di possedere e coltivare il
proprio pezzo di terra. Anche
se di questo diritto se ne parlava
sin dai tempi del
Caracciolo (1780-1786), le promesse garibaldine infiammarono tanto le passioni
del proletariato che furono la scintilla delle
sanguinose rivolte di quell‘agosto in tutto il Sud.32
Sprigionando
istinti e rancori selvaggi che da tempo serpeggiavano nel seno dei diseredati, le rivolte mettevano
a fuoco l‘effetto pernicioso
dell‘ignoranza che si manifestava nelle
bestialità della violenza
con cui i rivoltosi si illudevano di rivendicare i
propri diritti. Esasperati, disperati, inferociti, i contadini si scagliavano contro
la ricca borghesia che, ai loro occhi, continuava ad
arricchirsi con privilegi, abusi e usurpazioni. L‘ignoranza
ha un impatto particolarmente devastante quando l‘individuo, nel tentativo
di reclamare un più umano tenore di vita, viene a trovarsi di fronte alla
realtà della sua ignoranza che gli impedisce
di realizzarsi come uomo libero,
capace di gestire
la propria vita. Nella novella “Libertà”, basata sulla rivolta
di Bronte nell‘agosto del 1860, Giovanni Verga
drammatizza brillantemente il paradosso degli
incolti che si rendono conto di non essere capaci di vivere senza
la guida o il governo
degli oppressori contro cui si ribellano. Il racconto
è spesso citato come evidenza
delle misure repressive del nuovo Stato verso
gli insorti di Bronte che, illusi dalle promesse garibaldine, reclamavano il diritto alle
terre demaniali. In realtà
si trattò di un‘insurrezione cruenta
e selvaggia che il duro intervento di Nino Bixio spense col sangue di cittadini
speditamente messi al muro e fucilati.33 Ma c‘è di più nella novella: c‘è
l‘amara scoperta del contadino il cui analfabetismo non gli consente di diventare
libero proprio quando crede di
aver debellato i suoi oppressori. All‘indomani del massacro, i contadini di Bronte rimpiangono
la fuga dei preti impauriti, perché “senza messa non potevano starci,
un giorno di domenica, come
i cani“. Senza quegli odiati cappeddri
“non si sapeva dove andare a prendere gli
ordini dei padroni
per la settimana“. Se non c‘era più il “perito
per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno
avrebbe fatto a riffa e a raffa“ (Novelle
rusticane 493). Ecco dunque, la tragica ironia dell‘analfabetismo: l‘analfabeta, a causa della
sua ignoranza, non può
fare a meno di chi lo schiavizza.
Si trattava
di una schiavitù disumanizzante che negava ai proletari
ogni diritto a un più civile e umano sistema di vita. Anche se con la legge del 1824 tutti i servizi
angarici imposti ai servi della gleba erano stati soppressi, in realtà molti
rimasero in uso per molto tempo. Se la storia
registra e dettaglia
gli abusi e soprusi dei privilegiati attraverso gli anni, la letteratura ce li
mette davanti agli occhi e ce li fa rivivere nell‘immaginazione,
rappresentando la tirannia dei padroni
e la sofferenza dei bisognosi.
Lo fa bene Luigi Capuana nel Marchese di
Roccaverdina, dove il marchese Antonio Schiraldi, per continuare a godersi la sua amante-serva, costringe il suo massaro
a sposarla, imponendogli di
non consumare mai il matrimonio. Tre anni dopo, il marchese, accecato di
gelosia, assassina il mezzadro e lascia cadere la colpa su un povero indigente
che, ingiustamente condannato, muore in prigione. In quegli stessi anni,
Pirandello creava il personaggio di Flaminio
Salvo, il cinico e ricco padrone di zolfare de I vecchi e i giovani. Per dispetto degli
scioperanti, il Salvo lascia allagare le miniere e ne ordina la chiusura, abbandonando i poveri minatori
in preda alla fame
e alla disperazione. Per il suo ingegnere
Aurelio Costa, gli scioperanti
sono dei bruti che solo “con la verga si riducono a ragione“ (336). Più vicino
a noi, abbiamo l‘esempio dell‘odioso Filippo Mezzatesta, il signorotto che
Corrado Alvaro ci fa detestare in Gente
in Aspromonte. Quando il povero
mezzadro viene ad informarlo della perdita dei loro
buoi caduti in un burrone, l‘ingordo Malatesta non solo lo aggredisce
fisicamente e verbalmente, ma gli nega con fiere minacce il diritto al denaro
che gli spettava.
Inerzia
imprenditoriale e corruzione politica
Derubando le masse popolari
della propria dignità
umana e di ogni opportunità di
emanciparsi economicamente e socialmente, la classe ricca consegnava alla
storia una società povera di morale civile e di valori intellettuali, il cui
senso di comunità non si estendeva oltre il nucleo familiare. Ma nel loro
compiacimento di grandeggiare su un popolo notevolmente arretrato, i signori stessi
si condannavano ad una
perpetua stasi economica
e ad una fiacca vita morale e politica. Invece di bonificare le proprie
terre e di investire in colture di nuovi prodotti agricoli e svecchiare i mezzi di produzione agrario-industriale, i baroni
sprecavano le loro ricchezze e s‘indebitavano costruendo imponenti palazzi e
andando a fare shopping a Londra o a Parigi. La piccola borghesia, i nuovi
arrivati e i professionisti, anch‘essi diffidenti e sdegnosi d‘ogni avventura
aziendale, pensavano solo ad arricchirsi e ad
imparentarsi con l‘aristocrazia
per acquistare titoli nobiliari. Insomma,
il ceto dominante si tramandava alla posterità priva di quell‘iniziativa e di
quelle ambizioni imprenditoriali che ancor oggi informano l‘ethos
dell‘imprenditoria del Sud. La nostra letteratura è ricca di personaggi le cui
attività e aspirazioni esemplificano questa forma di arrivismo sociale e
d‘insufficienza imprenditoriale. Penso al duca di Leyra e a suo suocero
Mastro-don Gesualdo, dell‘omonimo romanzo, a Flaminio
Salvo, al matrimonio della baronessa Palmi con il duca Raimondo Uzeda de‘ I Viceré che sposa la baronessa Palmi
per affari, e a Don Calogero Sedàra del Gattopardo.
Se
squallidi valori sociali caratterizzavano l‘ethos della borghesia, la
corruzione politica o la mancanza di una coscienza civica minava seriamente le
istituzioni sociali. Composta quasi esclusivamente di nobili, borghesi e professionisti, la classe politica pensava a fare
i propri interessi, poco curandosi del bene comune, come d‘altronde
succede ancor oggi. Già nel 1863,
la giunta d‘inchiesta sul brigantaggio, affidata ad Antonio Mosca, attribuiva
buona parte della responsabilità dei disordini
del Sud a deputati meridionali, accusandoli, spiega Giordano Guerri, “di aver usurpato le
terre demaniali destinate ai contadini“ (212).
Uno dei casi più eclatanti della corruzione politica di fine Ottocento fu senza dubbio lo scandalo
della Banca Romana che coinvolse molti parlamentari e diversi presidenti del Consiglio, tra cui
Crispi e Giolitti e persino
Re Umberto I. Il processo
si concluse nel 1894
con assoluzione degli imputati, naturalmente. Nello stesso periodo il tribunale di
Milano apriva il processo
contro gli assassini del commendatore Emanuele Notarbartolo, ex
sindaco di Palermo, ex direttore del Banco
di Sicilia, senatore
del Regno di Italia. Il caso portò a processo
l‘onorevole palermitano Raffaele Palizzolo, ritenuto il mandante dell‘assassinio. Nel 1901,
sette anni dopo l‘omicidio, Don Raffaele fu condannato dal tribunale di Bologna a trent‘anni di carcere,
nonostante abilmente rappresentato dall‘ex ministro
Giovanni Codronchi. Ma nel 1904 “l‘onorevole padrino“ venne assolto dalla Corte
d‘Assise di Firenze per insufficienza di prove e ritornò a Palermo tra
manifestazioni di giubilo. Commentando le rivelazioni emerse durante il processo di Milano, Napoleone Colajanni scrive che il processo
“rivelò uno sfacelo politico e morale da fare spavento“ (La Sicilia
6).34
I nostri scrittori rappresentarono questa deplorevole realtà
nei loro romanzi, dando vita a
personaggi politici inetti e/o corrotti. Tra i più negligenti ricordiamo il
duca Gaspare Uzeda de I Vicerè, il
vecchio parlamentare catanese che nonostante fosse loquace come una “pica
vecchia“, dice il narratore, “non aveva aperto bocca, in Parlamento, neppure per dire sì o no“ (p. 131).
Pirandello, muovendosi tra storia e finzione, personifica la corruzione dei tempi nel personaggio di Corrado Solmi, il parlamentare agrigentino direttamente coinvolto nello scandalo
della Banca Romana. Ma è Caterina Auriti, la sorella del principe di
Colimbétra, a fornire un abbozzo dell‘abbrutimento politico e morale dei tempi
allorché consiglia il figlio Roberto a non presentarsi alle elezioni nazionali
perché, dice cinicamente la vecchia nobildonna, non ne ha i titoli, ovvero non è abbastanza corrotto: “Tu non
hai rubato, figlio, non hai prestato man forte a tutte le ingiustizie e le
turpitudini che qua si perpetrano protette dai
prefetti e dai deputati, non
hai favorito la prepotenza delle consorterie locali
che appestano l‘aria delle nostre città come la malaria
le nostre campagne! E allora perché?
che titoli hai per essere eletto? chi ti sostiene?
chi ti vuole?“ (I vecchi e i giovani 91-
92). Più vicino ai nostri
tempi, Leonardo Sciascia ci ha lasciato una lunga serie di
personaggi politici corrotti, tra cui il deputato Abello di A ciascuno il suo, il ministro Mancuso e
l‘onorevole Livigni de Il giorno della civetta.
Da
queste riflessioni risulta evidente che non mancano esempi per concludere che
tanto dalla storia quanto dalla letteratura emerge un mondo marcio che per
secoli ha soffocato lo sviluppo di ogni senso civico, morale, economico e
politico del Sud. Ma non basta prendere coscienza dei mali del proprio passato,
bisogna anche farsene
carico e impegnarsi a lavorare per un futuro
di orgoglio e prosperità. A un certo momento nella storia, dice lo shakespeariano Cassio, “spetta agli uomini
/ farsi padroni
dei loro destini“
(“Men at some time are masters of their
fates“, 1.2.139). Io non ho la ricetta
per raggiungere un tale traguardo, posso solo suggerire un primo passo:
infondere nei giovani,
sin dalle scuole elementari, un forte senso di comunità
che vada oltre il cerchio
ristretto della famiglia
che purtroppo, come percepisce bene il capitano
Bellodi di Sciascia, continua ad essere “l‘unico istituto
veramente vivo nella coscienza del siciliano […] lo Stato del siciliano“ (Il giorno della civetta 110).35 Una ferma fede nell‘importanza del bene comune
permetterebbe ai giovani
di riconoscersi non solo nel personale MIO ma nel collettivo NOSTRO. Ispirandosi ad un saldo principio civico
si potrà affrontare l‘arretratezza e la collusione politico-mafiosa, il cancro che continua ad affliggere la vita e le istituzioni del Sud. Io intravedo un futuro quando i
meridionali, forti di una cultura civica, saranno in grado di eleggere una
classe politica che s‘impegni non a dare il posto, ma a creare posti di lavoro;
quando il lavoro non sarà un favore concesso dal politico o dal mafioso,
ma un diritto; quando il meridionale non sarà più costretto a lasciare i suoi e la sua terra in cerca
di un futuro migliore. Il mio desiderio si ispira alla speranza di Napoleone
Colajanni che oltre un secolo fa si augurava
che “governi previdenti e perseveranti in concorso
con cittadini illuminati ed energici, potrebbero ricondurre all‘antico splendore“ (Per la razza maledetta 38).
Benché
ancora lontani dall'“antico splendore“, non c‘è dubbio che si è sulla dritta via. Il percorso
continuerà lento e faticoso, perché una cultura fondata su secoli di vassallaggio ha bisogno di tempo e generazioni per trovare le giuste coordinate e cambiare rotta. Intanto, l‘analfabetismo è quasi scomparso e i
cittadini, consapevoli più che mai
dei loro diritti
e dei loro doveri, hanno l‘opportunità di esercitarli secondo una sana coscienza civica. Oggi,
anche il ceto popolare ha la possibilità di accedere a qualsiasi professione e impiego pubblico,
privilegio una volta riservato ai galantuomini. Il Sud si mostra progressivamente più disposto ad abbracciare una cultura imprenditoriale, soprattutto nel settore agricolo, turistico e tecnologico.
Le aride campagne
traversate da Franchetti e Sonnino si fanno sempre più verdi e feconde
di prodotti agricoli
che si vendono in negozi
e mercati di tutto
il mondo. Si continua ad investire in infrastrutture
balneari e agro-turistiche, sempre più frequentate da turisti italiani
e stranieri. Sul campo scientifico-tecnologico, la Sicilia in particolare ha fatto passi
giganteschi soprattutto con il Parco
Scientifico e Tecnologico della Sicilia (PST) con sede principale a Catania,
la Silicon Valley d‘Italia. L‘industria
criminale, infine, è più che mai vulnerabile
alle forze dell‘ordine che, sulle tracce
delle sue operazioni finanziarie, cercano e scoprono come e dove ricicla e investe
i suoi sporchi guadagni. Fu il giudice
Giovanni Falcone a intuire che per combattere
la mafia bisognava attaccarla dal lato fiscale, come d‘altronde
avevano capito gli agenti del Tesoro americano che inchiodarono Al Capone. Con l‘uso
di nuove
tecnologie e di stretti rapporti con organi polizieschi-giudiziari-bancari stranieri, la Guardia di Finanza riesce
con più facilità ad incriminare i malavitosi, a
confiscarne i beni e a denunciarli alla giustizia. Oggi, come mai nella storia
d‘Italia, anche gli untouchables di ieri vanno a finire in manette e in carcere.
Non solo nel Sud, ma in tutto il
territorio italiano, si processano governatori e senatori, preti
e prelati, finanzieri e imprenditori, medici e docenti
universitari, giudici, procuratori e poliziotti. Nuove tecnologie mediatiche, soprattutto i social networks, permettono di denunciare anonimamente reati in fieri e di chiamare i cittadini a raduno
nelle piazze, nelle strade e alle urne per protestare contro ingiustizie, corruzione e altri mali
sociali. Organizzazioni
antimafia gridano pubblicamente sul web e sulle piazze quello che una volta si diceva a bassa voce,
in casa e tra amici.36 È da
romantici pensare che un giorno si
riuscirà ad eliminare
completamente la criminalità, tarma malefica nel tessuto civico
di ogni società di tutti i tempi. Ma è realistico augurarsi che col tempo si riuscirà
a indebolirla e ad emarginarla sì da non poter più intralciare seriamente la vita del Paese.
Oggi più che mai si può essere
ottimisti sul fatto
che il Sud si sta avviando
verso il traguardo di “splendore“ auspicato da Colajanni.
SALVATORE DI MARIA
University
of Tennessee
NOTE
1 Qui e in quanto
segue, con i termini Mezzogiorno e Sud si intende il Meridione continentale e
la Sicilia.
2 Nei due volumi
dal titolo La Sicilia nel 1876, i due
studiosi mettevano l‘accento sul bisogno di liberare il popolo isolano da uno
stato di semi-schiavitù. La Sicilia soffriva d‘ingiustizie, miseria,
analfabetismo, tradizioni feudali
ancora in uso, mancanza di senso
comunitario, e di zone letteralmente inaccessibili per mancanza
di strade. Cose insomma,
concludono i due osservatori, che potevano essere rettificate da un governo
interessato alla vera unificazione d‘Italia o, come aveva detto Massimo d‘Azeglio, a “fare italiano“.
3 In Latini e anglo-sassoni, 386-409,
Colajanni difende il successo dell‘emigrato in generale e, prendendo l‘esempio
degli italiani in Argentina, scrive: “Chi vuole vedere come gli italiani dal nulla si siano innalzati
nella Repubblica Argentina
legga: Un principe mercante. Studi sulle forme della colonizzazione italiana nell‘America latina
di Luigi Einaudi. Ivi non vi troverà
soltanto la storia
del Dall‘Acqua: ma attorno alla sua ne troverà molte altre d‘italiani che seppero
crearsi una brillante situazione economica“
(403).
4 Dopo aver citato
la definizione del “disgusto“ di Hauser, Pino Aprile conclude: “Parassiti, vermi,
topi…, così parlano
i razzisti nostrani, così parlavano di noi meridionali i loro bisavoli che vennero a
unire l‘Italia“ (254).
5 Pubblicato nel 1996, il libro è stato ristampato nel 2011 con una entusiasta prefazione di Pino Aprile.
6 Vedi anche Aprile
174.
7 Non si hanno dati
precisi sul numero delle vittime; Ciano pensa che “i morti superarono
sicuramente il migliaio“ (173).
8 Per altri dati
relativi alle razzie dei piemontesi e alla disparità di investimenti tra Nord e
Sud, Vedi Aprile 114 -125.
9 Ne
I
contadini in Sicilia,
§128, 339, Sonnino
riferisce: “E quel che trovammo
nel 1860, dura tuttora. La
Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti
particolari, e ce ne assicurano l‘intelligenza e l‘energia della sua
popolazione, e l‘immensa ricchezza delle sue risorse.
Una trasformazione sociale accadrebbe
necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per
effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, Italiani delle altre provincie,
impediamo che tutto ciò avvenga. Abbiamo
legalizzato l‘oppressione esistente; ed assicuriamo l‘impunità all‘oppressore“.
10 Oggi quasi tutti
avvertono la necessità di capire meglio il passato perché, come osserva Carlo
Alianello, “i torti
di oggi sono la conseguenza precisa di quelli
di ieri“ (81). Su
questa falsariga, Angela
Pellicciari insiste sulla
revisione del passato
per capire «cosa sia successo allora, e capire
meglio cosa succede adesso“ ( 7).
11 Rosario Romeo scrive che dopo la rivoluzione del ‘48 ci fu un‘ondata
di emigrazione politica dal
Sud verso Torino, Genova, Firenze, Marsiglia, Londra, Malta. Lo studioso nota
che in questo periodo “si trasferì all‘estero il meglio della coscienza
politica e dell‘energia morale del paese“ (346)
12 Il parlamentare inglese scriveva al suo governo: “The general belief is
that the prisoners for political
offences in the Kingdom of the Two Sicilies are between fifteen,
or twenty, and thirty
thousand. The Government witholds all means of accurate
information, and accordingly there can be no certainty
on the point. I have, however, found that
this belief is shared by persons the most intelligent, considerate, and well-informed […] I have heard
these numbers for example at Reggio, and at Salerno;
and from an effort to estimate them in reference
to population, I do believe
that twenty thousand
is no unreasonable estimate“ (Letter
I, p. 7).
13 Aprile, 113, nota
che Garibaldi con la sua impresa “prosciuga la ricchezza delle Due Sicilie
e la trasferisce al Nord e nelle
tasche dei liberatori (il segretario del generale
passa da nullatenente a un patrimonio personale più che doppio rispetto alla
cassa dell‘intero granducato di Toscana)“. Gigi Di Fiore reitera lo stesso
aspetto depredante facendo osservare che Garibaldi si “impossessò di 184.608
ducati che rappresentavano l‘eredità lasciata da Ferdinando II ai suoi dieci figli“.
In, più, continua Di Fiore,
i garibaldini misero le mani su circa 72.000 ducati di Francesco
II (98).
14 Su questa stessa
falsariga, Tommaso Pedìo attribuisce la causa dei tumulti al fallimento di
ottenere la divisione delle terre demaniali impedita dai secolari abusi e
soprusi dei padroni: “i soprusi, le angherie, e violenze caratterizzano una reazione spietata che non conosce limiti“ (135).
15 Basta ricordare
le critiche mossegli da La Farina, da Boggio, e dallo stesso Vittorio Emanuele.
In una sua lettera a Cavour, il Re lamentava che “ce personnage [Garibaldi]
n‘est pas si docile et si honnête homme de ce que on le fait et de ce que vous
le croyez vous-même“, e finisce per accusarlo di aver “plongé ce malheureux
pays dans un état épouvantable“ (Le
lettere 1. 651-54).
16 Per una
drammatizzazione della violenza da parte di squadre fasciste contro i
comunisti, vedi Canale Mussolini di
Antonio Pennacchi.
17 L‘Arcivescovo
Cataldo Naro racconta che nel 1894 i galantuomini di San Cataldo chiesero alla
prefettura di Caltanissetta il permesso di licenziare il veneziano Augusto
Ghelli, direttore della scuola elementare del paese, citando le sue idee per
loro un po‘ troppo avanzate. Nella loro petizione auspicavano perfino
l‘abolizione della legge sull‘istruzione obbligatoria del 1877 perché dalla
scuola, si legge, “nasce nella plebe la presunzione del sapere, la voglia d‘ingerirsi delle cose pubbliche che mal si comprendono; da ciò si ha il facile
mezzo d‘imprimere nelle
loro rozze menti
le più sovversive dottrine,
il malcontento, la sfiducia contro tutto e tutti […] mal soffrono le
amministrazioni comunali le tanto esorbitanti spese delle pubblica istruzione“
(Metodi e figure 167). Su questo atteggiamento della classe ‘dotta‘,
vedi “Il carattere
del Mezzogiorno d‘Italia“ di Pasquale Rossi ne La
razza maledetta 154-55, di Vito Teti.
18 Tra le tante
accuse, spiccano la mancanza di legittimazione di alcuni votanti, intimidazioni
e arresti. Sulle irregolarità del Plebiscito, vedi anche Pedìo 82.
19 Vedi, Ciano
53. Nel 2012,
il Movimento Neoborbonico chiedeva la revisione del voto del Plebiscito alla Corte di Giustizia in Lussemburgo
e alla Corte di Giustizia dell‘Aja/
(file:///Users/saldimaria/Desktop/%20Movimento%20neoborbonico)
20 Alianello, 91, si
sofferma sulla diserzione della borghesia, dei militari, dei politici, della
burocrazia, della magistratura e di altre istituzioni borboniche.
21 Bruno Guerri scrive: “Fra i briganti
è difficile distinguere i criminali puri, che furono coinvolti in una vicenda storica
più grande di loro (e spesso ne approfittarono per compiere razzie miscelate
con amore per “‘o Re“ e ‘o Papa“) da quelli che davvero combatterono una guerra di liberazione“ (124).
22 Per ulteriori
dettagli sulla strumentalizzazione del brigantaggio, vedi Romano 279-82.
23 Del terrore e
della violenza sparse dal brigantaggio siciliano ne parla Salvatore Vaiana 126
et passim.
24 Del Franchetti,
vedi anche “I Briganti“ in Condizioni
politiche §61, 144-50.
25 Vaiana nota che a
Salamone le autorità trovarono in tasca la considerevole somma di trecento monete
d‘oro. L‘intraprendente bandito considerava il tesoro “frutto preziosissimo
[…] delle sue fatiche“ (132).
26 Nel 1806 Giuseppe Bonaparte, divenuto re di
Napoli, con una sola legge abolì la feudalità
del Regno. Nell‘isola, il sistema feudale
fu abolito nel 1812 con la proclamazione della Costituzione Siciliana. Ciò nonostante, osserva Rosario Romeo,
“nella conduzione delle terre
dei latifondi i vecchi e oppressivi sistemi permanevano inalterati“ (199).
27 Il
massacro, avvenuto il 20 gennaio
1893, ha ispirato
il film Il giorno di San Sebastiano
di Pasquale Scimeca. In quel giorno festivo di sangue, un plotone di
bersaglieri, su istigazione di campieri mafiosi, spara su una folla di contadini
che reclamano la spartizione delle terre pubbliche.
Quindici contadini ci rimettono la vita.
28 Tra
i più noti sindacalisti vittime
dalla mafia, ricordiamo Girolamo Li Causi,
Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Francesco Nigro, Marziano
Girelli. Per un elenco più completo di politici e sindacalisti uccisi dalla
mafia tra il 1945 e il 1966, vedi Francesco Renda 270-271.
29 Sulla natura e
ruolo delle guardie campestri o guardie di feudo, vedi Franchetti §71.
30 Colajanni (La Sicilia 42-52) offre un commento
dettagliato del lungo discorso del Tajani pronunciato alla Camera l‘11-12
giugno 1875.
31 Giulia De Candia,
interpretando il censimento post-unitario del 1871, riferisce che il 68,8%
della popolazione italiana
di età superiore ai sei anni era analfabeta. Le percentuali
di analfabeti, continua la studiosa, erano “pari a 45,3% nel nord-ovest, 67,8%
nel nord- est, 71,8% nel centro, 83,4%
nel sud e 85,4% nelle
isole“ (“Il calo dell‘analfabetismo“, 78), ma vedi tutta la relazione,
specialmente Figura I.
32 Per
l‘insurrezione dei contadini nella Basilicata, vedi Tommaso Pedìo 61 et passim.
33 L‘insurrezione causò incendi di case private
e palazzi pubblici, saccheggi, rapine, e 21 vittime, inclusi
16 morti tra galantuomini e ufficiali della
polizia e 5 proletari condannati alla fucilazione subito dopo
un breve processo di fronte al tribunale militare.
34 Per una recente
versione dei fatti intorno all‘assassinio di Notarbartolo, vedi “Il primo
delitto ‘eccellente‘“, nel giornale La
Sicilia, Palermo, p. 33. Domenica 1 febbraio, 2009.
35 Franchetti osservava che “i siciliani non si considerano come un unico
corpo sociale sottoposto uniformemente a legge comune,
uguale per tutti e inflessibile, ma come tanti gruppi di persone formati
e mantenuti da legami personali. Il legame personale
è il solo che intendano. …Nella società siciliana, tutte le relazioni
si fondano sul concetto degl‘interessi individuali e dei doveri fra individuo e
individuo, ad esclusione di qualunque interesse sociale e pubblico“ (§ 25, 44) .
36 Tra le
associazioni antimafia più attive, ricordiamo Libera, Fondazione Antonio
Caponnetto, Comitato Addiopizzo di Palermo, Addiopizzo di Catania, Movimento
Ammazzateci tutti in Calabria, Movimento delle Agende Rosse.
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ITALICA
Volume 93 Number 4 (2014)
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