SALVATORE DI MARIA, La questione del Mezzogiorno e la crisi identitaria del Sud

Negli ultimi anni, la questione meridionale ha assunto un tono talmente razzista da toccare i vertici della volgarità. Non si assiste più ad un dibattito serio e riflessivo, ma a diatribe alquanto sconce che tendono ad inasprire ogni speranza di intesa. Il presente intervento vuole essere un invito a riportare il discorso su un piano serio e costruttivo che impegni le parti a lavorare seriamente per una sensata risoluzione del secolare diverbio tra Nord e Sud.1 

Certamente non è la prima volta che il Sud si trova a subire e a difendere attacchi alla propria identità. Già alla fine dell‘Ottocento, il Sud si vedeva denigrato dalla scuola antropologica positivista che lo condannava a perenne arretratezza. Antropologi, come il veronese Cesare Lombroso, vedevano negli aspetti anatomici e psicologici del meridionale evidenza inconfondibile di una razza inferiore. La loro tesi si fondava principalmente sulla costatazione che il cranio di alcuni criminali meridionali, da loro scientificamente studiati, rivelava la persistenza di peculiarità somatiche ancestrali. In questo atavismo anatomico, gli studiosi individuavano l‘incapacità dell‘uomo del Sud di incivilirsi e di realizzarsi nella società moderna. Per loro, il meridionale sarebbe sempre rimasto predisposto alla violenza criminale e privo di un forte senso civico e morale. Questa teoria che, come ebbe a lamentare il parlamentare siciliano Napoleone Colajanni, faceva del Sud una razza maledetta, non solo attecchì in Italia, ma si propagò anche all‘estero, dove si faceva sempre più palese e più oltraggiosa la discriminazione contro i nostri emigrati. Ai positivisti facevano fronte studiosi di tendenze socialiste per i quali la causa dell‘arretratezza del Sud non si doveva cercare in scienze speciose come la craniologia, tanto vantata dal Lombroso, ma nella storia e nella cultura. Definendo gli studi dei positivisti “romanzi antropologici“, Colajanni attribuiva il sottosviluppo del Sud a secoli di vassallaggio feudale. A conferma di tutto ciò, bastavano le indagini dei parlamentari Franchetti e Sonnino, i due studiosi che nel 1876 si inoltrarono a piedi e a cavallo all‘interno della Sicilia osservando le condizioni primitive del territorio e della sua gente.2 Il meridionale, concludeva il socialista Colajanni, è più che capace di emanciparsi una volta fuori dall‘ambiente che l‘opprime, bastava considerare il successo economico, sociale e politico di tanti meridionali emigrati all‘estero.3

   Il dibattito, dopo quasi un secolo d‘inerzia, è riemerso col nascere della Lega Nord negli anni novanta. La discussione non si svolge più sulla scia antropologica, ma sul fattore economico da cui scaturiscono vari pregiudizi sociali. Denunciando l‘onerosa dipendenza del Sud sull‘erario statale, la Lega chiede la revisione del codice fiscale e della distribuzione di fondi per il Mezzogiorno. Leghisti di tendenze separatiste aggiungono alle loro proteste lo spreco di fondi statali per un Mezzogiorno avvilito dal persistente abbrutimento della cultura, specialmente dalla collusione mafia-politica. In questo atteggiamento, il Sud avverte il pericolo di essere abbandonato alla sua indigenza economica e chiede la resa dei conti per i danni, subiti sin dall‘Unità, sotto l‘imperialismo industriale e commerciale del Nord. Purtroppo, il confronto non si attua solamente tra studiosi seri ma anche in pubblico, con la partecipazione di quanti credono di aver qualcosa da dire. Oggi, infatti, vi può prendere parte chiunque abbia accesso a un computer dove si può dar voce e sfogo a idee e pregiudizi, a paure e rancori. Data la facile accessibilità e immediatezza di internet, si tratta spesso di interventi tempestosi, colorati di accuse e preconcetti facilmente impugnabili e non di rado volgari. Basta dare un‘occhiata ad alcuni siti web del Sud e della Lega per rendersi conto dei termini osceni con cui l‘uno insulta l‘altro. Da qui, la necessità di ancorare il discorso ad argomenti seri e costruttivi che promettano di superare la controversia.
   Spetta soprattutto ai dirigenti politici desistere dalla retorica facile e rancorosa che tende a scaldare gli animi dei costituenti e a raccontare la propria identità politica. Per quanto riguarda la Lega, è ovvio che i leaders si ispirano all‘antica Lega di Legnano, vivo richiamo dell‘orgogliosa solidarietà dei comuni lombardi che nel secolo XII sconfissero l‘imperatore Barbarossa. Ma per i promotori del movimento non bastava il ricordo del glorioso passato, bisognava definirsi anche in un contesto che parlasse ai contemporanei del presente. In cerca dunque di un‘identità attuale e di rilievo, politici come Bossi, Borghezio, Calderoli, Gentilini, e tanti altri banditori dell‘ideologia leghista, puntarono sul contrasto meridionale vs. settentrionale: il primo arretrato, terrone, pigro, mafioso; il secondo tutto l‘opposto. Insomma, loro, razza eletta di inciviliti, industriosi, e ricchi, si distinguevano da quella razza già detta «maledetta». Le loro arringhe, tonanti di disprezzo verso la razza «fatta di vermi e parassiti», come lamenta Pino Aprile,4 continuano ad incoraggiare disgustose voci come “Forza Etna“ mentre il vulcano brucia le case nei suoi pendii e “Forza Terremoto“ mentre tanti Aquilani periscono sotto le macerie delle loro case. La reazione del Sud non è stata meno animata soprattutto su siti web, dove si leggono interventi non meno infuocati. Inoltre, a controbilanciare la minaccia secessionista della Lega, sono nati gruppi di smania separatista come, ad esempio, il Movimento Neoborbonico la cui identità reclama lo splendore del Regno delle due Sicilie. Questo fervore identitario ha dato luogo a tutta una serie di libri, saggi e convegni tendenti alla commemorazione del Meridione borbonico e alla condanna di un Nord razzista, arricchitosi alle spalle del Sud.
   Dal 2001, osserva Aprile, è cresciuta una vasta editoria con “oltre 700 convegni all‘anno sul problema del Sud, e un gran numero di nuovi settimanali e mensili“ (290). In questo forum, si attaccano i settentrionali di oggi e i piemontesi del Risorgimento con lo stesso zelo che ispira il razzismo leghista. Molti attribuiscono il sottosviluppo del Sud ai Sabaudi che hanno conquistato e sfruttato il Meridione, razziandone le risorse e abbandonandolo a un futuro di arretratezza e d‘ingiustizia. Il loro attacco si concentra su due fronti principali: uno di autocelebrazione, l‘altro di denuncia. Col primo si rivendica l‘alta cultura del Sud, dove si stava bene prima dell‘unificazione dell‘Italia; col secondo si rimprovera al Nord la rovina che vi ha apportato con la sua devastante invasione. Tra i fautori di questa offensiva, marcia in prima fila Antonio Ciano col suo I Savoia e il massacro del Sud, punto di riferimento di altri meridionalisti interessati alla questione del Sud.5 Dati alla mano, Ciano ricorda che prima dell‘Unità, nel Meridione fioriva un‘industria che gareggiava nei mercati europei con premi alle mostre di Londra e di Parigi. Sotto Ferdinando II venne inaugurata la prima ferrovia italiana, e al cantiere di Castellammare si costruivano motori navali di grande potenza. I numerosi cantieri navali del Regno, scrive Ciano, “erano rinomati in tutto il mondo e […] davano lavoro a migliaia d‘operai“ (81).6 Lo studioso loda la pubblica istruzione del Sud soprattutto dell‘antica Sicilia, dove insegnarono Pitagora e Archimede, e fa notare che sotto i Borbone fiorirono l‘università di Palermo e scuole e accademie varie a Napoli.
   Dopo aver rivendicato la gloria del Meridione antico e borbonico, i meridionalisti chiedono al Nord il rendiconto dei i danni subiti nel fare l‘Italia. Danni che vanno dalle sanguinose rappresaglie dei soldati piemontesi alla razzia delle banche e allo scarso interesse del governo verso le fatiscenti istituzioni e infrastrutture del Sud. Tra le rappresaglie più esecrabili si ricordano gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, dove i militari del nuovo Regno, avendo messo a ferro e a fuoco gli abitati, si diedero al massacro indiscriminato degli abitanti.7 La resa dei conti include la depredazione del tesoro del Regno delle due Sicilie e del patrimonio personale dei Borbone, capitali che Torino pensò bene investire nello sviluppo dell‘industria e delle infrastrutture del Nord. Se ciò non fosse bastato, lamentano i meridionalisti, la politica del governo ha continuato a favorire l‘espansione industriale del Nord. È un dato di fatto, scrive Aprile, che “dal 1860 al 1998 lo stato spende in Campania 400 volte meno che in Veneto“ (121). Non a caso, conclude lo studioso, “oggi le infrastrutture strade, porti, ferrovie sono dal 30 al 60 in meno del Nord“ (156).8 Ma la valutazione di questi dati, puntualizza Giorgio Bocca, prende la sua rilevanza solo quando si considera che nell‘anno dell‘Unità il Nord contava già 67.000 chilometri di strade contro i 15.000 chilometri del Sud. Allora, precisa il giornalista piemontese, nel Sud le merci si trasportavano ancora sugli asini, a spalla o sul capo delle donne e “sotto Salerno non c‘era neanche un chilometro di ferrovia“ (268).
   Anche se, come giustamente insiste Giorgio Bocca, il sottosviluppo del Sud non è stato asfissiato dallo sviluppo del Nord, non si può negare che la noncuranza dello Stato lasciò che il Sud continuasse a languire nell‘arretratezza a cui l‘avevano destinato secoli di abusi e privilegi di stampo feudale. Già nel 1876, Sydney Sonnino accusava il governo di negligenza e / o incompetenza riguardo i problemi del Mezzogiorno e lamentava che gli italiani ne impedivano la trasformazione culturale, avendo “legalizzato l‘oppressione esistente ed assicurato l‘impunità all‘oppressore“.9 Verso la fine del secolo, Luigi Capuana s‘indignava contro il governo di Torino per aver mandato in Sicilia impiegati e funzionari inetti solo “per sbarazzarsene“ (La Sicilia 44). Quest‘atteggiamento di trascuratezza verso il Meridione si traduce in aperta discriminazione durante il ventennio fascista, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione delle terre sorte dalla bonifica dell‘Agro Pontino. Nel 1931, l‘Opera Nazionale Combattenti, a cui era toccato un lotto di terreni di 18 mila ettari, assegnò la maggior parte delle terre, prima abitate da contadini e pastori abruzzesi, romani e campani, quasi esclusivamente a contadini dell‘Alta Italia, in particolare del Triveneto e dell‘Emilia Romagna. Questa politica preferenziale è felicemente drammatizzata nel Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, dove il narratore / contadino Perruzzi ricorda come “trentamila persone nello spazio di tre anni diecimila all‘anno venimmo portati quaggiù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli, dal Ferrarese, portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un‘altra lingua. Ci chiamavano ‘polentoni‘ o peggio ancora ‘cispadani‘“. Un po‘ più oltre, il narratore racconta come migliaia di settentrionali furono “presi e trapiantati qui come un‘armata biblica, a diventare noi stessi, proprietari della terra che coltivavamo“ (137, 224).
   È chiaro che finché si rimane su accuse e proteste la questione non potrà mai approdare a conclusioni edificanti. Il Meridione deve avvalorarsi di una sua identità che, forte di una disamina coscienziosa del proprio passato, possa far fronte ai problemi attuali ed entrare nel dibattito da pari, a testa alta. La necessità di tornare sui passi della storia, già avvertito da meridionalisti come Colajanni e Salvemini, è essenziale per capire come e da dove si sia arrivati ai problemi di oggi.10 Ed è in questa direzione che punta l‘iniziativa di una narrativa revisionistica e disinteressata del Risorgimento, anche se non tutti vi aderiscono rigorosamente. Alcuni partono dal presupposto che bisogna smitizzare gli eroi decantati dalla storia ufficiale come Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi, Crispi ed altri. I veri eroi, insistono, sono le vittime della barbarie piemontese, poiché anche le vittime fanno e raccontano la storia. Napoleone Colajanni ricorda come il silenzio straziante del sordomuto Antonio Cappello racconti la brutalità dei militari che, volendone fare un soldato e ritenendo simulato il suo sordomutismo, lo sottoposero alla tortura per farlo parlare (La Sicilia 39). Altri veri eroi sarebbero i briganti che difesero a sangue il “benamato“ Regno contro un invasore assetato di sangue e di denaro. In tutto questo, non bisogna perdere di mira che la doverosa e nobile proposta di ripercorrere le orme della storia alla ricerca della propria identità, è raggiungibile solo se si resiste alla tentazione di costruire argomenti su affermazioni affrettate e non sempre sostenibili. Il lavoro sarà più valido e più completo se oltre alla storia si tiene conto della letteratura ovvero della maniera in cui poeti e scrittori hanno scelto di contestualizzare nella finzione delle loro opere eventi e personaggi di quella storia.

Il regime borbonico

   Nel rivedere il passato, è essenziale evitare affermazioni facilmente contestabili come, ad esempio, la pretesa che Ferdinando II era un re illuminato. Parlando della risolutezza del re Borbone di sviluppare l‘industria del Regno, Ciano lamenta che “intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare la grandezza illuminata di Ferdinando II“ (79). Tale giudizio non regge di fronte alla violenza con cui Ferdinando soppresse i moti liberali del ‘48. Perché mai i suoi sudditi gli conferirono il nomignolo di ‘Re Bomba‘ se non per i disastrosi bombardamenti con cui ridusse Messina in macerie? Ferdinando si servì spesso dei suoi feroci soldati “stranieri“, per la maggior parte svizzeri e ungheresi, per sopprimere sommosse come la sanguinosa rivolta del ‘49 a Catania. Dopo la riconquista della Sicilia, l‘inasprimento reazionario di Ferdinando consegnò alle carceri del regno migliaia di rivoltosi e dissidenti, e costrinse il fiore dell‘intellighenzia siciliana a lasciare l‘isola. Pirandello coglie bene la realtà di questo esodo ne I vecchi e i giovani, dove il vecchio generale Gerlando Laurentano è costretto a prendere la via dell‘esilio dopo il fallimento della rivoluzione del ‘48, di cui era stato uno dei principali sostenitori.11 Tomasi di Lampedusa denuncia l‘atmosfera poliziesca del regime quando nel Gattopardo fa dire al Principe di Salina che a causa della “vessatoria censura borbonica“ la Sicilia ignorava l‘esistenza dei grandi romanzieri d‘Europa (173-74). Napoli fu fortemente condannata all‘estero a tal punto che William Gladstone, lo statista inglese che denunciò al mondo la crudeltà degli affollati penitenziari borbonici, definì il governo borbonico la “negazione di Dio eretta a sistema di governo“ (“the negation of God erected into a system of Government“ [Letter 1. 6]).12

Garibaldi

   È altrettanto insostenibile il tentativo di smitizzare personaggi del Risorgimento come Garibaldi, accusato, tra l‘altro, di ruberie e assassinii. Pino Aprile, citando la Pellicciari, ricorda che Pier Carlo Boggio, uno dei più severi critici di Garibaldi, già nel 1860 denunciava: “Somme ingenti, somme favolose scompaiono con la facilità e rapidità stessa con la quale furono agguantate dalle casse borboniche“ (115). Antonio Ciano scrive che il generale, arrivato a Palermo, “saccheggiò il Banco di Sicilia di ben cinque milioni di ducati, come fece saccheggiare tutte le chiese e tutto ciò che trovava sulla strada“. Lo studioso inveisce contro il generale nizzardo battezzandolo “assassino e criminale di guerra“ e servo del denaro e della massoneria inglese (64-65).13 Accuse alquanto pesanti e non del tutto sostenibili. Non c‘è dubbio che i garibaldini misero le mani sulle banche e sull‘erario delle Due Sicilie, ma è difficile stabilire quanto di questo denaro servì per le spese dell‘impresa militare, quanto andò per lo sviluppo industriale del Nord e quanto finì nelle tasche di alcuni liberatori. Quello che è certo è che Garibaldi non trasse alcun profitto dalle razzie delle banche e del tesoro privato dei Borbone. Basta pensare alle condizioni precarie in cui passò gli ultimi anni della sua vita quando non solo dovette vendere lo yacht che gli avevano regalato gli inglesi, ma dovette anche scrivere e vendere romanzi per provvedere alle sue modeste necessità, tanta era la sua povertà.
   Riguardo all‘etichetta di “criminale di guerra“, il riferimento più ovvio sembra essere ai “fatti“ di Bronte e di altri comuni siciliani dove i contadini si diedero all‘occupazione caotica delle terre e a vendette sanguinose contro gli odiati “galantuomini“. Sebbene quegli eccidi siano ampiamente documentati, è da tener presente che l‘intervento dei garibaldini fu necessario per domare le rivolte e porre fine alla violenza. Dopotutto, era responsabilità del governo dell‘isola mantenere l‘ordine pubblico e garantire la sicurezza di vita e di proprietà dei cittadini. È comprensibile attribuire la causa di quelle insurrezioni rurali alle promesse garibaldine mai attuate di dividere le terre demaniali. In un discorso alla Camera nell‘ottobre del 1860, ricorda Costanzo Maraldi, Giuseppe Ferrari definiva le rivolte una guerra sociale ispirata dal decreto garibaldino del 2 giugno (495). Anche se non si può negare l‘effetto istigatore delle promesse garibaldine su un popolo da secoli angariato dalla fame e assetato di terra, non fu certamente Garibaldi a impedire la distribuzione delle terre, bensì la ricca borghesia che da oltre mezzo secolo ne ostacolava l‘esecuzione. Già dal 1816 vigevano leggi mai applicate per la quotizzazione e la spartizione delle terre demaniali. Per Agostino Depretis, allora dittatore pro tempore della Sicilia, il decreto del 2 giugno altro non era se non “una modificazione di una legge vigente“ (Maraldi 495). Infatti, si ispiravano a questa legge i vecchi tentativi anche violenti di occupare le terre pubbliche. Va ricordato che alcuni capi della rivolta di Bronte avevano partecipato all‘occupazione delle terre nel ‘48. Vide bene Francesco Crispi quando definì le rivolte rurali come “la guerra dei berretti contro i cappelli, che è avvenuta in tutti i tempi e che risorgerà sempre“ (Romano 220).14 Su queste orme, il Massari e il Castagnola nei discorsi alla Camera del 1864 concludevano che “il brigantaggio è la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie“ (Colajanni, Gli avvenimenti xviii).
   Il tentativo di smitizzare Garibaldi cede di fronte alla grande stima in cui fu sempre tenuto dalle popolazioni del Sud. Sin dallo sbarco in Sicilia, gli isolani lo accolsero dappertutto con grandi manifestazioni di affetto: lo storico / romanziere / giornalista parmense Franco Mistrali (1833-1880) lo chiamò “miracolo delle stirpe“ (88); il comune di Partinico, aggiunge Mistrali, deliberò di onorarlo con un monumento che lui non accettò, suggerendo di dedicare le risorse alla compera di armi per la rivoluzione (152); perfino il siciliano Giuseppe La Farina, uno dei suoi più spietati detrattori, lo disse “amatissimo dagli isolani“ (Pellicciari 42). Denis MacSmith scrive che il Generale entrò a Napoli in carrozza, e al San Carlo fu accolto con una “great ovation“ e con forti applausi al grido di Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi (Garibaldi 104-5). A condividere tanta ammirazione fu Victor Hugo che nel suo “Discorso per Garibaldi“, pronunciato a Jersey il 13 giugno 1860, lo definì “un uomo della libertà, un uomo dell‘umanità“.
   L‘entusiasmo e l‘affetto dei siciliani per il generale nizzardo non si spensero con la rivoluzione. Nel 1882, quando già vecchio e prossimo alla morte accettò l‘invito di partecipare alle celebrazioni del VI centenario dei Vespri Siciliani, venne accolto con grande giubilo prima a Napoli e poi a Palermo. Con la sua morte, avvenuta pochi mesi dopo il viaggio in Sicilia, non morì “il sogno garibaldino di giustizia e libertà“, come sostengono alcuni (Carvello 49). Se poi si visse “l‘inganno della ‘terra ai contadini‘“, che si esternò nei tumulti di Bronte e di tanti altri comuni in tutto il Mezzogiorno, la delusione fu solo nell‘immediatezza delle promesse del decreto del 2 giugno 1860. Ma in quelle promesse non si deve vedere "l‘inganno", bensì le buone intenzioni di un uomo che, sebbene grande leader di uomini, non apprezzava, come giustamente gli rimproveravano i suoi detrattori, le difficoltà politiche, amministrative e finanziarie che comportava l‘attuazione di un tale decreto.15 Sottovalutava, infine, il tenace egoismo della classe dirigente che da secoli resisteva ad ogni forma di spartizione delle terre demaniali. Lo capirono i proletari siciliani che verso la fine dell‘Ottocento lo elevarono a simbolo della loro lotta contro i baroni e la ricca borghesia. Organizzatisi in Fasci dei Lavoratori nel 1892-3, gli operai chiedevano contratti agrari dignitosi (i patti di Corleone), e migliori condizioni di lavoro nelle zolfare. In tutta la Sicilia, elevarono Garibaldi a campione della loro causa, tappezzando le sezioni dei Fasci con il suo ritratto e con manifesti di stampo garibaldino. Nelle loro cerimonie, sfilate, e manifestazioni non mancavano di sventolare gonfaloni, bandiere, coccarde, tutti in rosso, il distintivo colore dei Mille.
   Perfino il Fascismo che, come scrive Piero Bevilacqua, scatenò una lotta violenta contro leghe contadine e Camere del lavoro, non riuscì ad abbattere il mito garibaldino che si era venuto creando nella seconda metà dell‘Ottocento (124).16 Dopo il ventennio fascista e con l‘avvento della Repubblica, il Partito Comunista Italiano adottò l‘immagine di Garibaldi come simbolo della lotta dei lavoratori, sbandierandone il ritratto accanto al distintivo simbolo della falce e martello. Personalmente, ricordo le campagne elettorali dei primi anni cinquanta, quando i comunisti costellavano i muri del paese con manifesti ricoperti dall‘immagine del generale nizzardo. Ricordo anche quando, poco prima della riforma agraria decretata dalla legge Sila del 1950, i contadini si recavano a piedi, a cavallo e sui carretti all‘occupazione, puramente simbolica, delle terre, ostentando camicie e fazzoletti rossi e sventolando bandiere rosse con l‘effigie del Generale. Ancor oggi, il mito di Garibaldi vive in tutta la sua grandezza nella vita degli italiani che lo onorano con convegni, mostre, musei, associazioni e società operaie. Basta pensare al bicentenario della sua nascita (2007) celebrato in tutta Italia e all‘estero. Per l‘occasione, La Società Operaia di Mutuo Soccorso “Giuseppe Garibaldi“ di Ispica (Ragusa), che nel 1865 conferì al Generale la carica di Presidente onorario e perpetuo, scelse di onorarlo con manifestazioni locali e con la pubblicazione dell‘opuscolo Ispica nell‘Epopea Garibaldina.
   Viene da chiedersi come mai Garibaldi più di ogni altro “padre della patria“, come Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, continui a ispirare passioni e discorsi in Italia e all‘estero. Tanti personaggi della mitologia risorgimentale sono stati impressi nella coscienza storica nazionale attraverso l‘istruzione pubblica, statue, nomi di piazze, strade, scuole, musei, associazioni, società ecc. Insomma, non c‘è una città italiana dove non capiti di vedere una statua o passare per una via che non ricordi il nome di un protagonista del Risorgimento. A tutta prima potrebbe sembrare strano che sia proprio Garibaldi a suscitare tanto interesse, soprattutto se si tiene presente che parecchi studiosi hanno ridotto a dimensioni realistiche l‘uomo e le sue leggendarie gesta militari. Si è parlato del suo rapporto non del tutto decoroso con varie donne/mogli, di scandali finanziari, battaglie perse per incompetenza e battaglie vinte per vigliaccherie e tradimenti nelle schiere nemiche. Ciò nonostante, l‘epopea persiste. Se il perdurare del mito garibaldino non si può attribuire alle sue qualità personali è perché la vera ragione della sua grandezza non sta nel fatto storico, ma nell‘ideale di libertà e di giustizia sociale di cui il momento lo fece eroe. Nella storia visse da uomo e da leader di uomini; nella cultura e nell‘ethos nazionale assurse a simbolo di lotta per la dignità umana. Ed è in questo contesto che bisogna accogliere il giudizio di Victor Hugo e le parole di Cesare Bruno che, in un discorso commemorativo pronunciato a Ispica nel 1910, lo disse simbolo della “tendenza infrenabile dell‘anima umana a insorgere contro l‘iniquità […] la prepotenza e l‘ingiustizia“ (42).
   Un altro aspetto fondamentale della cultura meridionale che merita una giusta rivalutazione è il livello dell‘istruzione pubblica prima e dopo l‘Unificazione. Alcuni revisionisti meridionali, lamentando lo stato deplorevole delle scuole del Sud, rimpiangono l‘alto livello culturale sotto i Borbone. Con tono velato di nostalgia, Ciano scrive che sotto i Borbone l‘insegnamento nelle scuole pubbliche “permise a tutti di imparare l‘arte del leggere e dello scrivere, consentendo ai figli di contadini l‘accesso agli uffici pubblici, la carriera nell‘esercito e soprattutto la presa di coscienza delle libertà individuali e dell‘indipendenza di cui godeva il Regno delle Due Sicilie […]. Dopo il 1810, in tutti i comuni s‘istituirono scuole primarie gratuite a spese dei comuni; molte ne furono istituite nei capoluoghi di provincia“ (84). È certo che a Napoli e a Palermo c‘erano accademie e università dove si formavano le nuove generazioni di avvocati, impiegati statali e ufficiali militari. È da dubitare, però, che queste opportunità si presentassero a molti “figli di contadini“, i quali spesso non avevano nemmeno la possibilità di frequentare le scuole elementari. Se la dura vita dei campi lasciava loro poco tempo libero per lo studio, e la stanchezza ne assopiva la voglia, la carenza di strade rendeva praticamente impossibile raggiungere le rare e sparse scuole rurali. Da aggiungere che queste cosiddette scuole consistevano solo di una stanzetta fornita di un piccolo tavolo, a cui rimediava il maestro, e delle sedie che gli studenti portavano quelle poche volte che riuscivano ad andare a lezione. Rosario Romeo fa notare che nel 1861, dei 358 comuni siciliani solo 268 avevano scuole elementari. In tutto, si contavano circa 21.000 alunni, ossia lo 0,86% della popolazione, con un rapporto inferiore a quello di ogni altra regione italiana (201).
   Se si considera che i Borbone non avevano imposto nessun obbligo scolastico e che avevano in effetti abbandonato l‘istruzione pubblica alla noncuranza delle amministrazioni comunali si capisce come nel 1864 gli analfabeti meridionali fossero 835 su mille per i maschi e 938 per le femmine. Per la rilevanza di questi dati, basta ricordare che nel 1881 in Lombardia circa 37 abitanti su cento erano analfabeti contro 80 per ogni cento abitanti nel Meridione. Non dovrebbe, dunque, sorprendere se nei paesi e nelle campagne del Sud il livello culturale fosse deplorevolmente basso. Ad accentuare il mediocre livello d‘istruzione contribuiva l‘atteggiamento di alcuni galantuomini che non vedevano di buon occhio l‘istruzione pubblica e non si curavano, quindi, di mandare i propri figli a scuola. La loro diffidenza nasceva in parte dalla paura che i figli sviluppassero un senso di cameratismo con i giovani cafoni, e in parte dal sospetto che la scuola ispirasse idee sovversive e potenzialmente destabilizzanti nei giovani, soprattutto nelle umili menti dei contadini.17 Non fu puro caso, quindi, che una volta, quando io frequentavo il ginnasio, due signori mi chiesero che ne facevo di quei libri che portavo sotto il braccio. Quando risposi che li leggevo, uno di loro in tono rassegnatamente allarmante si volse all‘altro e lamentò: “Dove sta andando a finire questo mondo, perfino i figli di contadini pretendono di istruirsi“. Il loro timore non era del tutto infondato, poiché i giovani studenti della mia generazione cominciarono a contestare quel mondo di usi, abusi e soprusi che da secoli angariava la vita dei nostri padri. Nondimeno, perfino dopo un intero secolo dalla caduta dei Borbone, si era ancora lungi da un sistema d‘istruzione pubblica che “avrebbe consentito“ ai diseredati una vera e propria scalata sociale.
   La celebrazione chiaramente nostalgica dell‘era borbonica e il risentimento verso un Nord percettibilmente arrogante hanno portato alcuni meridionalisti a insistere che il Sud non aderì volontariamente al nascente Regno d‘Italia, ma fu conquistato e colonizzato da un‘invasione armata. I termini “colonia“ e “conquista“ e le loro varie forme lessicali costellano le pagine di scrittori meridionalisti come quelle di Carlo Alianello che nel 1972 pubblicò La conquista del Sud. Già nel 1892, Luigi Capuana lamentava la tendenza del nuovo governo di trattare i siciliani come “gente conquistata, tenuta in poco conto, quasi da sfruttare soltanto“ (La Sicilia 45). Pochi anni dopo, Napoleone Colajanni dava voce a una simile protesta, denunciando l‘indole predatoria del Nord e accusando i settentrionali di vedere nel Sud “una terra coloniale da sfruttare e imporvi funzionari“ (La Sicilia dai Borbone 66). Recentemente, Pino Aprile ha reiterato che il Sud, dopo essere stato depredato delle sue ricchezze, fu “declassato a colonia“ (95). Per quanto riguarda il Plebiscito che decretò l‘annessione del Sud, molti ne hanno messo in dubbio la validità, accusando adulterazioni, raggiri e intimidazioni. Gigi Di Fiore non è l‘unico ad affermare che i voti per i vari plebisciti locali furono traviati da innumerevoli imbrogli, inclusi casi di votanti illegittimi e di urne sorvegliate da garibaldini e camorristi.18 Tomasi di Lampedusa drammatizza con maestria semplice e incisiva il traviamento del Plebiscito quando fa giurare a Don Ciccio Tumeo di aver votato contro l‘annessione. Al principe Don Fabrizio che durante una delle loro solite battute di caccia gli chiede di spiegare come mai il risultato finale della votazione non abbia registrato nemmeno un “no“, il povero Don Ciccio non sa dire altro che ripetere “Io, Eccellenza, avevo votato ‘no.‘ ‘No‘, cento volte ‘no‘“ ( 136).
   Per quante irregolarità e manipolazioni ci possano essere state, “esse non oscurano la vastità del consenso“, scrive Andrea Camilleri (48). In altri termini, la votazione non può essere definita una farsa, come vogliono alcuni19, perché centinaia di migliaia di voti positivi non avrebbero inciso sull‘esito finale, anzi vi avrebbero conferito più legittimità. A dirla con Don Fabrizio, “il voto negativo di Don Ciccio, cinquanta voti simili a Donnafugata, centomila ‘no‘ in tutto il regno, non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo“ (Il gattopardo 137). Considerando che la votazione è stata di 1.302.064 “sì“ contro 10.309 “no“ nelle province napoletane, e di 432,053 “sì“ contro 709 “no“ in Sicilia, non è difficile vedere la logica di Don Fabrizio né si può mettere in dubbio l‘asserzione di Mac Smith, secondo cui, “most Sicilians wanted annexation“ (Cavour 11). Il sentimento pro-unitario può essere ravvisato anche nella leggerezza con cui militari e politici borbonici abbandonarono Francesco II per passare al nemico. Il generale Ignazio Cataldo, responsabile della Piazza di Napoli, ed altri alti ufficiali dell‘esercito si consegnarono ai garibaldini senza sparare un colpo. Ufficiali della marina, come il capitano di vascello Giovanni Vacca e il capitano Amilcare Anguissola, non esitarono a schierarsi con Garibaldi. La defezione dell‘Anguissola fu particolarmente dannosa perché consegnò al nemico la pirocorvetta Veloce con tutti i marinai a bordo, i quali scelsero di entrare al servizio dei piemontesi.20 Nel settembre del 1860, l‘intera flotta borbonica si rifiutò di seguire il re a Gaeta, deludendo profondamente e scoraggiando il giovane monarca che partì, dice Gigi Di Fiore, con la “morte nel cuore“ (45).

Brigantaggio

   È il caso tener presente che il risultato del referendum, nonostante la traboccante predominanza dei “sì“, non rappresentava la scelta della maggioranza della popolazione, poiché su nove milioni di meridionali solo circa due milioni vi presero parte, presso a poco il 19% dell‘intera popolazione. Nondimeno, non si può mettere in dubbio che l‘annessione del Sud alla nuova Italia fu espressamente voluta da una stragrande maggioranza dei votanti. A questa evidenza aritmetica, alcuni studiosi di parte oppongono il fenomeno del brigantaggio come prova della forte resistenza meridionale all‘annessione. Per loro, il brigantaggio fu espressione di fedeltà verso i Borbone e di vigore patriottico contro l‘invasione piemontese. Antonio Ciano, ad esempio, considera il fenomeno del brigantaggio un “movimento di massa“ contro i piemontesi e definisce i briganti partigiani (I Savoia, 43, 109). Questa voglia di voler fare dei briganti tutto un fascio cede di fronte alla varietà delle cause che li aveva indotti alla latitanza. C‘erano criminali, renitenti di leva, vecchi soldati borbonici, diseredati allettati dalla buona paga e, soprattutto, i ribelli contro le ingiustizie sociali tra cui le tasse sul macinato, sulle bestie e sulle pompe funebri.21 Insomma, i briganti non erano tutti della stessa pasta: tra i criminali e i patrioti, c‘erano anche gli avventurieri stranieri, in buona parte blasonati belgi, tedeschi, francesi, spagnoli, e inglesi.
   Con ciò non si vuol negare che molti meridionali fossero contrari all‘annessione e che migliaia di reduci dell‘estinto esercito borbonico e di uomini economicamente disastrati dal crollo del Regno decisero di aggregarsi a bande di briganti che guerreggiavano contro i piemontesi. Ma si è lungi dal definire “movimento di massa“ un brigantaggio che non solo era spesso strumentalizzato dai regnanti, ma era anche responsabile di fatti brutali e sanguinosi contro interi villaggi. Già nel passato, i Borbone, per riconquistare il regno, si erano serviti di quello stesso brigantaggio che avevano combattuto, perseguitato. Nel 1799, il cardinale Fabrizio Ruffo, vicario generale del regno, si servì del famigerato Fra‘ Diavolo e la sua banda di lazzaroni per riconquistare Napoli che i francesi avevano trasformato in Repubblica Partenopea. Nel 1806, ancora una volta al servizio di Ferdinando IV, che come nel 1799 aveva riparato a Palermo, Fra‘ Diavolo tentò invano di riconquistare Napoli dove si era installato Giuseppe Bonaparte. Per il suo servizio, il bandito fu onorevolmente ricompensato con il titolo di Duca di Cassano. Tra il 1861 e il 1863, comitati filo-borbonici a Napoli, a Roma e Marsiglia, erano impegnati a reclutare uomini e a procurare denaro per irrobustire il brigantaggio che continuava a guerreggiare i piemontesi sulle montagne e nei villaggi del meridione (Di Fiore 251).22 Nell‘ottobre del ‘61 il generale spagnolo José Borjes, incaricato di fomentare disagi alle spalle del nemico facendo uso dei briganti, si incontrò con il bandito Carmine Crocco. Lo stesso Crocco, nella sua biografia Come divenni brigante, ricorda che i borbonici lo acclamavano “fiero generale del buon Francesco II“ (cap. II).
   Più instrumentum regni che “movimento di massa“, il brigantaggio era spesso il terrore di quella stessa massa di cui si diceva portavoce. La violenza distruttiva e spesso sanguinosa dei briganti nei confronti di poveri contadini e di interi villaggi era altrettanto brutale quanto quella dei soldati che davano loro la caccia. La crudeltà dei piemontesi sarà per sempre narrata dalle stragi di Pontelandolfo e Casalduni, dove si contarono centinaia di morti tra fucilati, impiccati e “abbrustoliti“ dentro le proprie case date alle fiamme. Con lo stato d‘assedio autorizzato dalla legge Pica (1863), i militari piemontesi, protesta Antonio Gramsci, misero “a ferro e a foco l‘Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, e seppellendo vivi i contadini poveri“ (in Aprile 67). Non si può e non si potrà mai sminuire o giustificare tanta ferocia come, d‘altronde, non si deve tacere la crudeltà di cui i briganti si fecero protagonisti. Lo stesso Carmine Crocco, scrivendo dal carcere di Portoferraio dove morirà nel 1905 all‘età di 75 anni, parla della brutalità e dei massacri con cui le sue bande terrorizzavano paesi e campagne del Sud: “le nostre bande erano il terrore e la disperazione delle Puglie della Basilicata e della Campania“ (cap. VI). Nelle contrade dove operavano varie bande, inclusa quella di questo famigerato ergastolano, la paura era tale che i contadini spesso abbandonavano campagne e bestiame per racchiudersi nella presunta sicurezza del villaggio. “Terrorizzate dalle carneficine della mia banda,“ racconta Crocco, “le campagne erano spopolate, le strade deserte, vuote le masserie“ (cap. IV). Non meno brutale era la banda di Chiavone o quella di Pietro Monaco e di tanti banditi siciliani tra cui Varsalona, Failla Mulone, e il ricercatissimo Salamone.23 La leggenda romantica del brigante protettore dei deboli, come ad esempio era stato Antonio Catinella, dava luogo “all‘industria del delitto“ (Romano 272).
   Tale comportamento contesta ai briganti gli edificanti appellativi di partigiani e di patrioti, anche se a volte il popolino vedeva nel fuorilegge un Robin Hood, il paladino che sfida le forze oppressive dell‘ordine. È appunto in questo scontro titanico e fatale che il brigante spesso si erge ad eroe agli occhi degli oppressi, che ne mitizzano la baldanza e vivono in lui il sogno di avventura e di libertà. Leopoldo Franchetti nota che, in Sicilia, nelle persone di tutte le classi si sentiva “spesso trapelare nella conversazione una certa compiacenza per il tipo brigantesco, una tendenza a farne un tipo da leggenda“ (Condizioni politiche §23. p. 42).24 Ma un conto è il vagar nel sogno, altro è la realtà delle cose, poiché se da un canto la massa mitizza i briganti, dall‘altro vive nel terrore della loro prepotenza. La sua collaborazione con i banditi non è espressione di rispetto, ma paura delle inevitabili ritorsioni e della violenza anche contro le donne. Così la pensava Luigi Capuana che polemizzava aspramente con i “professori di cattedra,“ come Franchetti e Sonnino, perché confondevano la paura dei contadini per convivenza con i banditi, trasformando così “le vittime del brigantaggio in complici dei propri persecutori e carnefici“. Accusando questi “socialisti della cattedra“ di “fervida immaginazione scientifica- socialista“, Capuana spiegava che se il contadino e il proprietario  terriero piegavano la testa davanti alla ferocia dei fuorilegge, proteggendoli dalle autorità e provvedendo alloggio e ristoro, non era perché li ammiravano, ma perché non erano per niente disposti a “farsi ammazzare“ (La Sicilia 60-61).
   La carriera di molti briganti fu tutt‘altro che partigiana o patriottica. A dirla con Giordano Guerri, “molti briganti sarebbero stati comunque delinquenti, con o senza l‘invasione piemontese, e approfittarono dell‘invasione per nascondere un‘attività criminosa dietro gli ideali“ (174). Lo scopo principale delle attività dei briganti era quello di sopravvivere, difendendosi da chi dava loro la caccia e saccheggiando campagne e villaggi per potersi sostenere alla macchia e, in alcuni casi, per farsi un piccolo gruzzolo.25 A parte i sussidi che alcune bande ricevevano da esponenti filo-borbonici “per sollevare le popolazioni“, profittavano da estorsioni, sequestri di persona e del bottino che razziavano nei frequenti assalti ai paesi. Un‘impresa brigantesca molto diffusa e altamente lucrativa era l‘abigeato, ossia il furto di bestiame, soprattutto di mandrie di buoi. Lo stesso Crocco, con riferimento alla scorreria di Trivigno, un paese della Basilicata, racconta:

sconfitto il presidio piemontese che lo difendeva, i miei compagni anelanti di sangue e più ancora di bottino, appena penetrati in paese cominciarono a scassinare porte per rubare tutto ciò che a loro capitava di meglio nelle case. Chi resisteva, chi rifiutava di consegnare il denaro o i gioielli, era scannato senza pietà [...] Il paese fu messo a ferro e fuoco [...] M‘imbatto sulla pubblica via in una donna barbaramente trucidata e vedo all‘intorno innalzarsi un denso fumo, sono i miserabili casolari di quei coloni posti a fuoco dopo il saccheggio. Il saccheggio e l‘incendio durano tutta la notte; i morti sono parecchi, qualcuno è trovato carbonizzato tra le fumanti macerie“ (cap. V).
       
   Anche se alcuni banditi s‘ispirarono a sentimenti patriottici, il loro ruolo antiunitario va visto non già come espressione di patriottismo, ma nel contesto della loro natura ribelle, del loro rifiuto di sottomettersi a leggi da loro considerate ingiuste e angarianti. Intanto, va ricordato che il fenomeno del brigantaggio precede di secoli il Risorgimento e che tende a fiorire nelle società dove l‘individuo, avvilito da un sistema che gli impedisce di far valer i propri diritti, sceglie di farsi giustizia da sé e di vivere fuori della “ingiusta“ legge. Da bandito, cerca sempre di aggregarsi ad elementi sovversivi o criminali, come ad esempio la mafia o alcuni galantuomini, che, come lui, disprezzano o cercano di raggirare l‘ordine costituito. Se è vero che, come dice il barone Lucio Tasca Bordonaro, i moti in Sicilia hanno sempre “avuto il convinto appoggio del brigantaggio“ (Camilleri 69), la ragione è che il fuorilegge tende ad appoggiarsi a qualsiasi tentativo armato o ideologico che si prefigge di ostacolare o addirittura destituire quel sistema socio-politico che, avendolo costretto alla latitanza, gli dà poi la caccia senza tregua. In questo sodalizio, il bandito spera in una specie di redenzione o riconoscimento che non esclude il condono di reati commessi e la speranza di poter vivere in un mondo più equo e più giusto. Ma il suo non è che un sogno, poiché presto o tardi finisce nelle morse fatali di un ordine che non gli consente di reintegrarsi nella società e continua a perseguitarlo. Fra‘ Diavolo ottenne il condono di tanti omicidi e il titolo di duca, ma alla fine fu catturato, processato e impiccato. Non meno innaturale fu la fine di Gaetano Mammone, il brigante che Ferdinando IV aveva chiamato “il vero sostegno del Trono“. Il sanguinario Mammone fu agguantato e giustiziato nel 1802. Carmine Cocco, dopo essersi adoperato invano per ottenere il condono, trascorse in carcere il resto della sua vita. In tempi più recenti, il bandito Salvatore Giuliano non esitò ad associarsi al Movimento Indipendentista Siciliano che nel 1945 gli conferì il grado di colonnello nell‘esercito separatista. Ma a nulla gli valsero gli onori, perché proprio coloro che l‘avevano onorato decisero di farlo assassinare. Il misfatto non sfuggì ai siciliani che, come sentiamo dal cantastorie Cicciu Busacca, videro il giovane bandito vittima dei suoi adulatori:

Ora nun semu cchiù cu l‘occhi chiusi,
Sapemu Giulianu zocco fu;
Nni ficiru di iddu tutti l‘usi
Ca ci sirvia e ora un servi cchiù.

(Or non siamo più con gli occhi chiusi
Sappiamo chi fu Giuliano;
Di lui [i politici e la mafia] ne fecero ogni uso
Chè [fu loro] utile e adesso non serve più).

   Alla fin fine, il brigante è una vittima fatale della sua natura ribelle, per cui è un‘esagerazione voler mitizzare i briganti del Risorgimento e scambiare per atti di patriottismo il loro banditismo. Con esagerazioni e affermazioni un po‘ troppo istintive, di cui qui si viene discorrendo, si corre il rischio di creare miti e leggende più falsi di quelli che si vogliono abbattere. Il dibattito con il Nord, specialmente contro il razzismo della Lega Nord, va meglio affrontato se il Sud vi partecipa con una sua identità legittimata dal coraggio morale di farsi carico delle proprie responsabilità. I Meridionali devono scavare onestamente nel loro passato e ritrovare la propria identità per poi sventolarla contro quella umiliante che il Nord narra da oltre un secolo. Il compito di portare avanti il dibattito cade soprattutto sulle spalle dell‘intellettuale, che invece di “fuggire e perdersi nel classico e nel passato“, come lamentava Corrado Alvaro nel 1958 (in Teti 73), deve impegnarsi ad articolare un discorso rigoroso e ben informato. A questo proposto, bisogna desistere dal continuare a dare la colpa al Nord per i problemi che continuano ad assillare il Meridione. Bisogna prendere le dovute distanze da certe posizioni poco sostenibili come, ad esempio, quella di Pino Aprile secondo cui “il tessuto civile del Sud è stato lacerato da una guerra d‘invasione e occupazione“ (264). A questo punto, viene da chiedere a quale tessuto civile si riferisca lo studioso. Quello logorato dalla mafia, quello asfissiato dall‘analfabetismo, o quello strozzato da secoli di usanze feudali?
   Se persistono ancor oggi istituzioni corrotte, logiche perverse e condizioni disagiate, dovute in parte alla mancanza di senso civico, la colpa non è nei piemontesi del Risorgimento “né nelle nostre stelle, ma,“ come dice Cassio al suo amico shakespeariano Bruto, “in noi che siamo schiavi“ (“The fault, dear Brutus, is not in our stars, / But in ourselves, that we are underlings“, Julius Caesar 1.2.140-41). Le radici del male del Sud vanno cercate, appunto, in quell‘ourselves, ovvero nella secolare cultura di vassallaggio che anche dopo l‘abolizione ufficiale della feudalità del 1806 nel napoletano e nel 1812 in Sicilia, continuò a contrassegnare la vita del Sud.26 Del vecchio sistema feudale solo l‘impalcatura giuridica era stata spazzata via perché, in realtà, osserva Bevilacqua, “permanevano le vecchie culture e mentalità“ (67). In una società agrario-feudale, come quella del Meridione, era nell‘interesse dei baroni e della ricca borghesia terriera scoraggiare ogni forma di vita sociale tra i contadini. Si temeva il grido collettivo e potenzialmente violento con cui i nuovi servi della gleba avrebbero potuto dar sfogo alla propria miseria. A scoraggiarli era la stessa vita dei campi con le sue lunghe giornate lavorative dall‘alba al tramonto. Inoltre, i luoghi dove idealmente avrebbero potuto ritrovarsi (chiesette, scuole, ambulatori sanitari), erano sparsi e lontani dalle campagne dove vivevano. Non solo, molti di questi punti di riferimento erano difficilmente accessibili per la carenza di strade e di ponti.
   A tante difficoltà si aggiungeva il ruolo intimidatorio delle Compagnie d‘armi e delle guardie campestri, che Pirandello descrive con sottile ironia attraverso il personaggio del sergente Placido Sciaralla ne I vecchi e i giovani. Il maestro di scuola Sciaralla, quasi un personaggio dell‘opera dei pupi, comanda una soldataglia di venticinque uomini in divisa borbonica al servizio di don Ippolito Laurentano, principe di Colimbètra. Il povero Sciaralla è atterrito dall‘idea che la sicurezza del feudo e del principe riposa “su lui e sul valore e la devozione dei suoi uomini“. Ma costretto a guadagnarsi il pane in “qualche porca maniera“, è pronto a subire con placida rassegnazione le ingiurie e le beffe di coloro che lo deridono, chiamandolo ‘buffo fantasma‘ […] burattino scappato dalla storia […] don Chisciottino“ e degradandolo a caporale o a semplice campiere (22-31). Simili compagnie, da tempo istituite per mantenere la sicurezza dei villaggi e delle campagne, erano, in realtà, bande infiltrate da delinquenti e pregiudicati, al servizio di signorotti, mafia e galantuomini intenti a tenere a bada i contadini. Anche se col passar del tempo gruppi armati come questi furono aboliti e sostituiti da organi di polizia nazionale, i padroni non rinunciarono mai ai vecchi metodi di intimidazione. Chi non ricorda la strage del 1947 a Portella della Ginestra, dove Giuliano e la sua banda spararono sulla folla che si era recata in campagna per la festa del primo maggio? Nonostante niente di concreto si fosse mai trovato per provare la complicità di esponenti politici e proprietari terrieri, è sulle labbra di tutti che il giovane bandito fu strumentalizzato da “galantuomini“ mafiosi per intimidire i Comunisti che allora agitavano le masse per rivendicare la distribuzione delle terre. Poco, quindi, era cambiato dai tempi dei Fasci Siciliani quando la mafia aveva seminato morte e terrore tra coloro che reclamavano la quotizzazione delle terre e migliori contratti di lavoro.

Mafia

   Naturalmente la mafia poteva far valere la sua influenza solo su casi locali e isolati, ma per domare rivolte di gruppi di cittadini o di intere comunità era necessario il braccio di ferro dello Stato. Così fu nell‘agosto del 1860, quando il governo garibaldino inviò Nino Bixio a sopprimere le insurrezioni sorte in varie località siciliane. Nota tra tutte fu la strage di Bronte, celebrata nel cinema e nella letteratura. Nel ristabilire l‘ordine pubblico, lo Stato si ergeva a garante dei diritti, usi ed abusi cui era avvezza la classe dirigente, cioè i “galantuomini“ o cappeddri, come erano detti allora per metonimia. Non è dunque da escludere che Bixio fosse stato mandato soprattutto per salvaguardare gli interessi dei ricchi proprietari. Nel 1894 ancora una volta il governo inviò l‘esercito in Sicilia per stroncare i Fasci che agitavano violentemente contro le deplorevoli condizioni di vita e di lavoro. Anche in questo caso è lecito supporre che Crispi avesse prestato orecchio alle richieste dei possidenti, specialmente gabellotti che si sentivano minacciati nei loro vecchi diritti e privilegi. Alla soppressione sanguinosa del governo contribuì la mafia con minacce e assassinii. Noto alla storia e al cinema è il massacro di Caltavuturo (1893), come è anche documentato l‘assassinio di mandato mafioso del leader dei Fasci di Corleone Bernardino Verro.27 Negli anni ‘50, il ruolo intimidatorio della mafia si aggiunse al tentativo della polizia di Scelba di controllare i contadini e i braccianti che si recavano ad ‘occupare le terre‘. Mentre i carabinieri affrontavano con durezza i manifestanti, i mafiosi intimidivano e ammazzavano i protagonisti più audaci.28
   Il connubio mafia-polizia ha le sue radici nell‘istituzione della pubblica sicurezza affidata a compagnie d‘armi ramificate in guardie urbane, guardie cittadine, guardie campestri, il cui compito era quello di garantire la sicurezza nei paesi e nelle campagne.29 Nate dopo la costituzione del 1812, queste organizzazioni spesso servivano, scrive Salvatore Romano, da “forza ausiliare della polizia regia“ (277). In effetti, si trattava di organismi infiltrati da elementi criminali al servizio di galantuomini e/o della classe dirigente. In questo ruolo “pseudo poliziesco“ non mancavano di intimidire la popolazione con minacce di sangue e di arricchirsi rapinando e ricattando padroni e coloni. Non sorprende che proprio in questo periodo si diffonda l‘abigeato a danno di gabellotti e di mandriani grossi e minuti. Nel 1875, l‘onorevole calabrese Diego Tajani nella sua requisitoria contro il Governo italiano illustrò ampiamente, denunciando ministri e prefetti, giudici e questori, il rapporto collaborativo e criminoso tra queste organizzazioni e lo Stato. L‘onorevole chiudeva il suo lungo discorso dichiarando che in Sicilia la mafia non si poteva combattere perché era de facto “strumento di governo locale.“30 Alla conclusione del Tajani ha dato voce di recente lo storico inglese John Dickie nel suo Cosa nostra, uno dei più completi studi sulla mafia, dove osserva che il 1876 è il momento in cui la mafia divenne “integral to Italy‘s sytem of government“ (67). È dunque nella storia del rapporto collaborativo tra il governo e queste organizzazioni criminose / parastatali che bisogna trovare le radici della collusione mafia-Stato che perdura ancor oggi.

Analfabetismo

   Lunga è la lista dei problemi del Sud, ma la radice di tutti i mali è senza dubbio l‘analfabetismo, il più grande ostacolo allo sviluppo di un tessuto civico e ad una riduzione del divario socio/economico che tuttora informa la vita dei meridionali. Già nell‘anno dell‘Unità il nuovo Regno contava il 78% di analfabeti con valori massimi del 90% nel Sud contro il 60% in Lombardia e il 57% in Piemonte. Con l‘estensione della legge Casati (1859) a tutto il Regno e con la legge Coppino del 1877, lo Stato dichiarava obbligatoria e gratuita l‘istruzione elementare, addossando ai comuni l‘onere di istituire e mantenere le scuole. L‘iniziativa, lenta di tempo e dai risultati modesti, rimase quasi lettera morta nelle località povere e sperdute dove mancavano sia le risorse che l‘interesse delle autorità locali.31 I signori avevano da sempre scoraggiato la diffusione dell‘educazione pubblica, preferendo signoreggiare un popolino incolto e ignaro dei propri diritti e del proprio potenziale umano. Ma se da un canto l‘ignoranza permetteva ai signori di condizionare e manipolare i ceti popolari, dall‘altro rendeva questi ultimi facilmente suggestionabili a idee ed influenze provenienti dal di fuori, come si avverò con l‘arrivo di Garibaldi nel 1860. Con proclami e promesse – poi risultati vuoti – , il generale dalla camicia rossa risvegliò nella povera gente il diritto ad una vita libera e più umana, riaffermando il diritto del viddranu di possedere e coltivare il proprio pezzo di terra. Anche se di questo diritto se ne parlava sin dai tempi del Caracciolo (1780-1786), le promesse garibaldine infiammarono tanto le passioni del proletariato che furono la scintilla delle sanguinose rivolte di quell‘agosto in tutto il Sud.32
   Sprigionando istinti e rancori selvaggi che da tempo serpeggiavano nel seno dei diseredati, le rivolte mettevano a fuoco l‘effetto pernicioso dell‘ignoranza che si manifestava nelle bestialità della violenza con cui i rivoltosi si illudevano di rivendicare i propri diritti. Esasperati, disperati, inferociti, i contadini si scagliavano contro la ricca borghesia che, ai loro occhi, continuava ad arricchirsi con privilegi, abusi e usurpazioni. L‘ignoranza ha un impatto particolarmente devastante quando l‘individuo, nel tentativo di reclamare un più umano tenore di vita, viene a trovarsi di fronte alla realtà della sua ignoranza che gli impedisce di realizzarsi come uomo libero, capace di gestire la propria vita. Nella novella “Libertà”, basata sulla rivolta di Bronte nell‘agosto del 1860, Giovanni Verga drammatizza brillantemente il paradosso degli incolti che si rendono conto di non essere capaci di vivere senza la guida o il governo degli oppressori contro cui si ribellano. Il racconto è spesso citato come evidenza delle misure repressive del nuovo Stato verso gli insorti di Bronte che, illusi dalle promesse garibaldine, reclamavano il diritto alle terre demaniali. In realtà si trattò di un‘insurrezione cruenta e selvaggia che il duro intervento di Nino Bixio spense col sangue di cittadini speditamente messi al muro e fucilati.33 Ma c‘è di più nella novella: c‘è l‘amara scoperta del contadino il cui analfabetismo non gli consente di diventare libero proprio quando crede di aver debellato i suoi oppressori. All‘indomani del massacro, i contadini di Bronte rimpiangono la fuga dei preti impauriti, perché “senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani“. Senza quegli odiati cappeddri “non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana“. Se non c‘era più il “perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa“ (Novelle rusticane 493). Ecco dunque, la tragica ironia dell‘analfabetismo: l‘analfabeta, a causa della sua ignoranza, non può fare a meno di chi lo schiavizza.
   Si trattava di una schiavitù disumanizzante che negava ai proletari ogni diritto a un più civile e umano sistema di vita. Anche se con la legge del 1824 tutti i servizi angarici imposti ai servi della gleba erano stati soppressi, in realtà molti rimasero in uso per molto tempo. Se la storia registra e dettaglia gli abusi e soprusi dei privilegiati attraverso gli anni, la letteratura ce li mette davanti agli occhi e ce li fa rivivere nell‘immaginazione, rappresentando la tirannia dei padroni e la sofferenza dei bisognosi. Lo fa bene Luigi Capuana nel Marchese di Roccaverdina, dove il marchese Antonio Schiraldi, per continuare a godersi la sua amante-serva, costringe il suo massaro a sposarla, imponendogli di non consumare mai il matrimonio. Tre anni dopo, il marchese, accecato di gelosia, assassina il mezzadro e lascia cadere la colpa su un povero indigente che, ingiustamente condannato, muore in prigione. In quegli stessi anni, Pirandello creava il personaggio di Flaminio Salvo, il cinico e ricco padrone di zolfare de I vecchi e i giovani. Per dispetto degli scioperanti, il Salvo lascia allagare le miniere e ne ordina la chiusura, abbandonando i poveri minatori in preda alla fame e alla disperazione. Per il suo ingegnere Aurelio Costa, gli scioperanti sono dei bruti che solo “con la verga si riducono a ragione“ (336). Più vicino a noi, abbiamo l‘esempio dell‘odioso Filippo Mezzatesta, il signorotto che Corrado Alvaro ci fa detestare in Gente in Aspromonte. Quando il povero mezzadro viene ad informarlo della perdita dei loro buoi caduti in un burrone, l‘ingordo Malatesta non solo lo aggredisce fisicamente e verbalmente, ma gli nega con fiere minacce il diritto al denaro che gli spettava.

Inerzia imprenditoriale e corruzione politica

   Derubando le masse popolari della propria dignità umana e di ogni opportunità di emanciparsi economicamente e socialmente, la classe ricca consegnava alla storia una società povera di morale civile e di valori intellettuali, il cui senso di comunità non si estendeva oltre il nucleo familiare. Ma nel loro compiacimento di grandeggiare su un popolo notevolmente arretrato, i signori stessi si condannavano ad una perpetua stasi economica e ad una fiacca vita morale e politica. Invece di bonificare le proprie terre e di investire in colture di nuovi prodotti agricoli e svecchiare i mezzi di produzione agrario-industriale, i baroni sprecavano le loro ricchezze e s‘indebitavano costruendo imponenti palazzi e andando a fare shopping a Londra o a Parigi. La piccola borghesia, i nuovi arrivati e i professionisti, anch‘essi diffidenti e sdegnosi d‘ogni avventura aziendale, pensavano solo ad arricchirsi e ad imparentarsi con l‘aristocrazia per acquistare titoli nobiliari. Insomma, il ceto dominante si tramandava alla posterità priva di quell‘iniziativa e di quelle ambizioni imprenditoriali che ancor oggi informano l‘ethos dell‘imprenditoria del Sud. La nostra letteratura è ricca di personaggi le cui attività e aspirazioni esemplificano questa forma di arrivismo sociale e d‘insufficienza imprenditoriale. Penso al duca di Leyra e a suo suocero Mastro-don Gesualdo, dell‘omonimo romanzo, a Flaminio Salvo, al matrimonio della baronessa Palmi con il duca Raimondo Uzeda de‘ I Viceré che sposa la baronessa Palmi per affari, e a Don Calogero Sedàra del Gattopardo.
   Se squallidi valori sociali caratterizzavano l‘ethos della borghesia, la corruzione politica o la mancanza di una coscienza civica minava seriamente le istituzioni sociali. Composta quasi esclusivamente di nobili, borghesi e professionisti, la classe politica pensava a fare i propri interessi, poco curandosi del bene comune, come d‘altronde succede ancor oggi. Già nel 1863, la giunta d‘inchiesta sul brigantaggio, affidata ad Antonio Mosca, attribuiva buona parte della responsabilità dei disordini del Sud a deputati meridionali, accusandoli, spiega Giordano Guerri, “di aver usurpato le terre demaniali destinate ai contadini“ (212). Uno dei casi più eclatanti della corruzione politica di fine Ottocento fu senza dubbio lo scandalo della Banca Romana che coinvolse molti parlamentari e diversi presidenti del Consiglio, tra cui Crispi e Giolitti e persino Re Umberto I. Il processo si concluse nel 1894 con assoluzione degli imputati, naturalmente. Nello stesso periodo il tribunale di Milano apriva il processo contro gli assassini del commendatore Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo, ex direttore del Banco di Sicilia, senatore del Regno di Italia. Il caso portò a processo l‘onorevole palermitano Raffaele Palizzolo, ritenuto il mandante dell‘assassinio. Nel 1901, sette anni dopo l‘omicidio, Don Raffaele fu condannato dal tribunale di Bologna a trent‘anni di carcere, nonostante abilmente rappresentato dall‘ex ministro Giovanni Codronchi. Ma nel 1904 “l‘onorevole padrino“ venne assolto dalla Corte d‘Assise di Firenze per insufficienza di prove e ritornò a Palermo tra manifestazioni di giubilo. Commentando le rivelazioni emerse durante il processo di Milano, Napoleone Colajanni scrive che il processo “rivelò uno sfacelo politico e morale da fare spavento“ (La Sicilia 6).34
   I nostri scrittori rappresentarono questa deplorevole realtà nei loro romanzi, dando vita a personaggi politici inetti e/o corrotti. Tra i più negligenti ricordiamo il duca Gaspare Uzeda de I Vicerè, il vecchio parlamentare catanese che nonostante fosse loquace come una “pica vecchia“, dice il narratore, “non aveva aperto bocca, in Parlamento, neppure per dire o no“ (p. 131). Pirandello, muovendosi tra storia e finzione, personifica la corruzione dei tempi nel personaggio di Corrado Solmi, il parlamentare agrigentino direttamente coinvolto nello scandalo della Banca Romana. Ma è Caterina Auriti, la sorella del principe di Colimbétra, a fornire un abbozzo dell‘abbrutimento politico e morale dei tempi allorché consiglia il figlio Roberto a non presentarsi alle elezioni nazionali perché, dice cinicamente la vecchia nobildonna, non ne ha i titoli, ovvero non è abbastanza corrotto: “Tu non hai rubato, figlio, non hai prestato man forte a tutte le ingiustizie e le turpitudini che qua si perpetrano protette dai prefetti e dai deputati, non hai favorito la prepotenza delle consorterie locali che appestano l‘aria delle nostre città come la malaria le nostre campagne! E allora perché? che titoli hai per essere eletto? chi ti sostiene? chi ti vuole?“ (I vecchi e i giovani 91- 92). Più vicino ai nostri tempi, Leonardo Sciascia ci ha lasciato una lunga serie di personaggi politici corrotti, tra cui il deputato Abello di A ciascuno il suo, il ministro Mancuso e l‘onorevole Livigni de Il giorno della civetta.
   Da queste riflessioni risulta evidente che non mancano esempi per concludere che tanto dalla storia quanto dalla letteratura emerge un mondo marcio che per secoli ha soffocato lo sviluppo di ogni senso civico, morale, economico e politico del Sud. Ma non basta prendere coscienza dei mali del proprio passato, bisogna anche farsene carico e impegnarsi a lavorare per un futuro di orgoglio e prosperità. A un certo momento nella storia, dice lo shakespeariano Cassio, “spetta agli uomini / farsi padroni dei loro destini“ (“Men at some time are masters of their fates“, 1.2.139). Io non ho la ricetta per raggiungere un tale traguardo, posso solo suggerire un primo passo: infondere nei giovani, sin dalle scuole elementari, un forte senso di comunità che vada oltre il cerchio ristretto della famiglia che purtroppo, come percepisce bene il capitano Bellodi di Sciascia, continua ad essere “l‘unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano […] lo Stato del siciliano“ (Il giorno della civetta 110).35 Una ferma fede nell‘importanza del bene comune permetterebbe ai giovani di riconoscersi non solo nel personale MIO ma nel collettivo NOSTRO. Ispirandosi ad un saldo principio civico si potrà affrontare l‘arretratezza e la collusione politico-mafiosa, il cancro che continua ad affliggere la vita e le istituzioni del Sud. Io intravedo un futuro quando i meridionali, forti di una cultura civica, saranno in grado di eleggere una classe politica che s‘impegni non a dare il posto, ma a creare posti di lavoro; quando il lavoro non sarà un favore concesso dal politico o dal mafioso, ma un diritto; quando il meridionale non sarà più costretto a lasciare i suoi e la sua terra in cerca di un futuro migliore. Il mio desiderio si ispira alla speranza di Napoleone Colajanni che oltre un secolo fa si augurava che “governi previdenti e perseveranti in concorso con cittadini illuminati ed energici, potrebbero ricondurre all‘antico splendore“ (Per la razza maledetta 38).
   Benché ancora lontani dall'“antico splendore“, non c‘è dubbio che si è sulla dritta via. Il percorso continuerà lento e faticoso, perché una cultura fondata su secoli di vassallaggio ha bisogno di tempo e generazioni per trovare le giuste coordinate e cambiare rotta. Intanto, l‘analfabetismo è quasi scomparso e i cittadini, consapevoli più che mai dei loro diritti e dei loro doveri, hanno l‘opportunità di esercitarli secondo una sana coscienza civica. Oggi, anche il ceto popolare ha la possibilità di accedere a qualsiasi professione e impiego pubblico, privilegio una volta riservato ai galantuomini. Il Sud si mostra progressivamente più disposto ad abbracciare una cultura imprenditoriale, soprattutto nel settore agricolo, turistico e tecnologico. Le aride campagne traversate da Franchetti e Sonnino si fanno sempre più verdi e feconde di prodotti agricoli che si vendono in negozi e mercati di tutto il mondo. Si continua ad investire in infrastrutture balneari e agro-turistiche, sempre più frequentate da turisti italiani e stranieri. Sul campo scientifico-tecnologico, la Sicilia in particolare ha fatto passi giganteschi soprattutto con il Parco Scientifico e Tecnologico della Sicilia (PST) con sede principale a Catania, la Silicon Valley d‘Italia. L‘industria criminale, infine, è più che mai vulnerabile alle forze dell‘ordine che, sulle tracce delle sue operazioni finanziarie, cercano e scoprono come e dove ricicla e investe i suoi sporchi guadagni. Fu il giudice Giovanni Falcone a intuire che per combattere la mafia bisognava attaccarla dal lato fiscale, come d‘altronde avevano capito gli agenti del Tesoro americano che inchiodarono Al Capone. Con l‘uso di nuove tecnologie e di stretti rapporti con organi polizieschi-giudiziari-bancari stranieri, la Guardia di Finanza riesce con più facilità ad incriminare i malavitosi, a confiscarne i beni e a denunciarli alla giustizia. Oggi, come mai nella storia d‘Italia, anche gli untouchables di ieri vanno a finire in manette e in carcere. Non solo nel Sud, ma in tutto il territorio italiano, si processano governatori e senatori, preti e prelati, finanzieri e imprenditori, medici e docenti universitari, giudici, procuratori e poliziotti. Nuove tecnologie mediatiche, soprattutto i social networks, permettono di denunciare anonimamente reati in fieri e di chiamare i cittadini a raduno nelle piazze, nelle strade e alle urne per protestare contro ingiustizie, corruzione e altri mali sociali. Organizzazioni antimafia gridano pubblicamente sul web e sulle piazze quello che una volta si diceva a bassa voce, in casa e tra amici.36 È da romantici pensare che un giorno si riuscirà ad eliminare completamente la criminalità, tarma malefica nel tessuto civico di ogni società di tutti i tempi. Ma è realistico augurarsi che col tempo si riuscirà a indebolirla e ad emarginarla da non poter più intralciare seriamente la vita del Paese. Oggi più che mai si può essere ottimisti sul fatto che il Sud si sta avviando verso il traguardo di “splendore“ auspicato da Colajanni.

SALVATORE DI MARIA
University of Tennessee



NOTE

1 Qui e in quanto segue, con i termini Mezzogiorno e Sud si intende il Meridione continentale e la Sicilia.
2 Nei due volumi dal titolo La Sicilia nel 1876, i due studiosi mettevano l‘accento sul bisogno di liberare il popolo isolano da uno stato di semi-schiavitù. La Sicilia soffriva d‘ingiustizie, miseria, analfabetismo, tradizioni feudali ancora in uso, mancanza di senso comunitario, e di zone letteralmente inaccessibili per mancanza di strade. Cose insomma, concludono i due osservatori, che potevano essere rettificate da un governo interessato alla vera unificazione d‘Italia o, come aveva detto Massimo d‘Azeglio, a “fare italiano“.
3 In Latini e anglo-sassoni, 386-409, Colajanni difende il successo dell‘emigrato in generale e, prendendo l‘esempio degli italiani in Argentina, scrive: “Chi vuole vedere come gli italiani dal nulla si siano innalzati nella Repubblica Argentina legga: Un principe mercante. Studi sulle forme della colonizzazione italiana nell‘America latina di Luigi Einaudi. Ivi non vi troverà soltanto la storia del Dall‘Acqua: ma attorno alla sua ne troverà molte altre d‘italiani che seppero crearsi una brillante situazione economica“ (403).
4 Dopo aver citato la definizione del “disgusto“ di Hauser, Pino Aprile conclude: “Parassiti, vermi, topi…, così parlano i razzisti nostrani, così parlavano di noi meridionali i loro bisavoli che vennero a unire l‘Italia“ (254).
5 Pubblicato nel 1996, il libro è stato ristampato nel 2011 con una entusiasta prefazione di Pino Aprile.
6 Vedi anche Aprile 174.
7 Non si hanno dati precisi sul numero delle vittime; Ciano pensa che “i morti superarono sicuramente il migliaio“ (173).
8 Per altri dati relativi alle razzie dei piemontesi e alla disparità di investimenti tra Nord e Sud, Vedi Aprile 114 -125.
9 Ne I contadini in Sicilia, §128, 339, Sonnino riferisce: “E quel che trovammo nel 1860, dura tuttora. La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l‘intelligenza e l‘energia della sua popolazione, e l‘immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, Italiani delle altre provincie, impediamo che tutto ciò avvenga. Abbiamo legalizzato l‘oppressione esistente; ed assicuriamo l‘impunità all‘oppressore“.
10 Oggi quasi tutti avvertono la necessità di capire meglio il passato perché, come osserva Carlo Alianello, “i torti di oggi sono la conseguenza precisa di quelli di ieri“ (81). Su questa falsariga, Angela Pellicciari insiste sulla revisione del passato per capire «cosa sia successo allora, e capire meglio cosa succede adesso“ ( 7).
11 Rosario Romeo scrive che dopo la rivoluzione del ‘48 ci fu un‘ondata di emigrazione politica dal Sud verso Torino, Genova, Firenze, Marsiglia, Londra, Malta. Lo studioso nota che in questo periodo “si trasferì all‘estero il meglio della coscienza politica e dell‘energia morale del paese“ (346)
12 Il parlamentare inglese scriveva al suo governo: “The general belief is that the prisoners for political offences in the Kingdom of the Two Sicilies are between fifteen, or twenty, and thirty thousand. The Government witholds all means of accurate information, and accordingly there can be no certainty on the point. I have, however, found that this belief is shared by persons the most intelligent, considerate, and well-informed […] I have heard these numbers for example at Reggio, and at Salerno; and from an effort to estimate them in reference to population, I do believe that twenty thousand is no unreasonable estimate“ (Letter I, p. 7).
13 Aprile, 113, nota che Garibaldi con la sua impresa “prosciuga la ricchezza delle Due Sicilie e la trasferisce al Nord e nelle tasche dei liberatori (il segretario del generale passa da nullatenente a un patrimonio personale più che doppio rispetto alla cassa dell‘intero granducato di Toscana)“. Gigi Di Fiore reitera lo stesso aspetto depredante facendo osservare che Garibaldi si “impossessò di 184.608 ducati che rappresentavano l‘eredità lasciata da Ferdinando II ai suoi dieci figli“. In, più, continua Di Fiore, i garibaldini misero le mani su circa 72.000 ducati di Francesco II (98).
14 Su questa stessa falsariga, Tommaso Pedìo attribuisce la causa dei tumulti al fallimento di ottenere la divisione delle terre demaniali impedita dai secolari abusi e soprusi dei padroni: “i soprusi, le angherie, e violenze caratterizzano una reazione spietata che non conosce limiti“ (135).
15 Basta ricordare le critiche mossegli da La Farina, da Boggio, e dallo stesso Vittorio Emanuele. In una sua lettera a Cavour, il Re lamentava che “ce personnage [Garibaldi] n‘est pas si docile et si honnête homme de ce que on le fait et de ce que vous le croyez vous-même“, e finisce per accusarlo di aver “plongé ce malheureux pays dans un état épouvantable“ (Le lettere 1. 651-54).
16 Per una drammatizzazione della violenza da parte di squadre fasciste contro i comunisti, vedi Canale Mussolini di Antonio Pennacchi.
17 L‘Arcivescovo Cataldo Naro racconta che nel 1894 i galantuomini di San Cataldo chiesero alla prefettura di Caltanissetta il permesso di licenziare il veneziano Augusto Ghelli, direttore della scuola elementare del paese, citando le sue idee per loro un po‘ troppo avanzate. Nella loro petizione auspicavano perfino l‘abolizione della legge sull‘istruzione obbligatoria del 1877 perché dalla scuola, si legge, “nasce nella plebe la presunzione del sapere, la voglia d‘ingerirsi delle cose pubbliche che mal si comprendono; da ciò si ha il facile mezzo d‘imprimere nelle loro rozze menti le più sovversive dottrine, il malcontento, la sfiducia contro tutto e tutti […] mal soffrono le amministrazioni comunali le tanto esorbitanti spese delle pubblica istruzione“ (Metodi e figure 167). Su questo atteggiamento della classe ‘dotta‘, vedi “Il carattere del Mezzogiorno d‘Italia“ di Pasquale Rossi ne La razza maledetta 154-55, di Vito Teti.
18 Tra le tante accuse, spiccano la mancanza di legittimazione di alcuni votanti, intimidazioni e arresti. Sulle irregolarità del Plebiscito, vedi anche Pedìo 82.
19 Vedi, Ciano 53. Nel 2012, il Movimento Neoborbonico chiedeva la revisione del voto del Plebiscito alla Corte di Giustizia in Lussemburgo e alla Corte di Giustizia dell‘Aja/
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20 Alianello, 91, si sofferma sulla diserzione della borghesia, dei militari, dei politici, della burocrazia, della magistratura e di altre istituzioni borboniche.
21 Bruno Guerri scrive: “Fra i briganti è difficile distinguere i criminali puri, che furono coinvolti in una vicenda storica più grande di loro (e spesso ne approfittarono per compiere razzie miscelate con amore per “‘o Re“ e ‘o Papa“) da quelli che davvero combatterono una guerra di liberazione“ (124).
22 Per ulteriori dettagli sulla strumentalizzazione del brigantaggio, vedi Romano 279-82.
23 Del terrore e della violenza sparse dal brigantaggio siciliano ne parla Salvatore Vaiana 126 et passim.
24 Del Franchetti, vedi anche “I Briganti“ in Condizioni politiche §61, 144-50.
25 Vaiana nota che a Salamone le autorità trovarono in tasca la considerevole somma di trecento monete d‘oro. L‘intraprendente bandito considerava il tesoro “frutto preziosissimo […] delle sue fatiche“ (132).
26 Nel 1806 Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, con una sola legge abolì la feudalità del Regno. Nell‘isola, il sistema feudale fu abolito nel 1812 con la proclamazione della Costituzione Siciliana. Ciò nonostante, osserva Rosario Romeo, “nella conduzione delle terre dei latifondi i vecchi e oppressivi sistemi permanevano inalterati“ (199).
27 Il massacro, avvenuto il 20 gennaio 1893, ha ispirato il film Il giorno di San Sebastiano di Pasquale Scimeca. In quel giorno festivo di sangue, un plotone di bersaglieri, su istigazione di campieri mafiosi, spara su una folla di contadini che reclamano la spartizione delle terre pubbliche. Quindici contadini ci rimettono la vita.
28 Tra i più noti sindacalisti vittime dalla mafia, ricordiamo Girolamo Li Causi, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Francesco Nigro, Marziano Girelli. Per un elenco più completo di politici e sindacalisti uccisi dalla mafia tra il 1945 e il 1966, vedi Francesco Renda 270-271.
29 Sulla natura e ruolo delle guardie campestri o guardie di feudo, vedi Franchetti §71.
30 Colajanni (La Sicilia 42-52) offre un commento dettagliato del lungo discorso del Tajani pronunciato alla Camera l‘11-12 giugno 1875.
31 Giulia De Candia, interpretando il censimento post-unitario del 1871, riferisce che il 68,8% della popolazione italiana di età superiore ai sei anni era analfabeta. Le percentuali di analfabeti, continua la studiosa, erano “pari a 45,3% nel nord-ovest, 67,8% nel nord- est, 71,8% nel centro, 83,4% nel sud e 85,4% nelle isole“ (“Il calo dell‘analfabetismo“, 78), ma vedi tutta la relazione, specialmente Figura I.
32 Per l‘insurrezione dei contadini nella Basilicata, vedi Tommaso Pedìo 61 et passim.
33 L‘insurrezione causò incendi di case private e palazzi pubblici, saccheggi, rapine, e 21 vittime, inclusi 16 morti tra galantuomini e ufficiali della polizia e 5 proletari condannati alla fucilazione subito dopo un breve processo di fronte al tribunale militare.
34 Per una recente versione dei fatti intorno all‘assassinio di Notarbartolo, vedi “Il primo delitto ‘eccellente‘“, nel giornale La Sicilia, Palermo, p. 33. Domenica 1 febbraio, 2009.
35 Franchetti osservava che “i siciliani non si considerano come un unico corpo sociale sottoposto uniformemente a legge comune, uguale per tutti e inflessibile, ma come tanti gruppi di persone formati e mantenuti da legami personali. Il legame personale è il solo che intendano. …Nella società siciliana, tutte le relazioni si fondano sul concetto degl‘interessi individuali e dei doveri fra individuo e individuo, ad esclusione di qualunque interesse sociale e pubblico“ (§ 25, 44) .
36 Tra le associazioni antimafia più attive, ricordiamo Libera, Fondazione Antonio Caponnetto, Comitato Addiopizzo di Palermo, Addiopizzo di Catania, Movimento Ammazzateci tutti in Calabria, Movimento delle Agende Rosse.

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ITALICA Volume 93 Number 4 (2014)
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