La scrittura “è
memoria fatta di tempo”, sosteneva Antonio Tabucchi. Dalla fusione di questi
tre elementi nasce la creatività poetica. Nel verso la densità opaca
della memoria si scioglie nella vivezza del ricordo che man mano si disvela nell’amore
per la propria terra, filo conduttore, quasi invisibile eppure costantemente
presente in un universo lirico disegnato con pennello d’autore.
Queste le linee
essenziali del viaggio “onirico-poetico” di Salvo Micciché (consulente
informatico, fotoreporter e direttore editoriale del quotidiano on line
Ondaiblea) dove il verso si trasforma in immagini e queste traggono linfa
vitale dal suono del verso e, talora, dal suo incalzante ritmo.
Un itinerario che
- attraverso anche la rielaborazione di antiche nenie, filastrocche e rime popolari
– si presenta come un intreccio di intime dimensioni il cui nodo principale è
la loro profondità e le verità che contengono in quanto riecheggianti una
saggezza di antico sapore.
Il titolo, “Argu lu cani (Cunti, stori e puisia in
lingua siciliana)”, Edizioni Biancavela – StreetLib (2016, pp. 100, anche
in eBook nelle librerie on line), mutuato da una lirica contenuta nella
silloge, riporta in mente il cane di Odisseo (Ulisse, per i latini) Argo, che è
stato per tantissimi anni anche il fidato amico a quattro zampe dell’autore. I
versi omerici, volutamente riportati, fanno quasi da preambolo all’iter poetico
dell’autore.
Del resto il nome
Odisseo presenta
anche assonanze interessanti con il concetto di cammino: hodós, in greco, significa
“via / strada”. E il metodo (méthodos, ovvero “lungo la via”) utilizzato dall’autore
è proprio quello di ripercorrere, tramite l’affettuoso colloquio con il proprio
cane (“para ca parra”, sembra che
parli), un itinerario ricco di “stori di
stori”, ormai cadute nell’oblio, ma terreno di preziosa ricerca volta a ri-scoprire
l’appartenenza ad un territorio.
Pensieri,
immagini, verso e narrazione si toccano, si abbracciano, si intrecciano, assumendo
un ritmo fortemente corroborato dalla forma espressiva dialettale. Il termine “cuntu” fa capolino di continuo come una
sorta di mantra. Un viaggio emozionale, emozionante, alla riscoperta di un
tempo passato eppur risolutamente presente negli spazi sorprendenti e
sconfinati della memoria.
Nel verso non
sempre c’è la rima; se c’è a volte è baciata, a volte alternata: come un
percorso sinusoidale che ripercorre gli alti e bassi del quotidiano vivere. Le
espressioni dialettali, costellate di inflessioni sciclitane, ragusane e catanesi
(e forse un pizzico, appena accennato, di modicane), si alternano in tutte le
poesie, la dicono lunga sui territori toccati dall’autore e le relative forme gergali
metabolizzate nel tempo.
Il suo animo
poetico è fortemente legato al territorio e al senso religioso (di qui il Gioia
di Scicli, “u Signuri c’abballa”; “abballa” anche “San Giorgi” mentre “u
Battista” gira a “Rrausa” con la “cira nne strati”). Il fascino dei
luoghi della sua Trinacria, amabilmente definita “Isula” e deliziosamente immaginata come “pitrudda cu tri punti” (piccola pietra a tre punte), è rimasto
immutato, in essi permane una sottile malia che trasporta l’animo in un tempo
senza tempo dove l’unica realtà che conti è l’amore perché la “Sicilia
jè terra d’amuri, terra do Signuri. Terra ca sinna la strata rô Livanti ô
Punenti” (la “Sicilia
è terra d’amore, terra del Signore. Terra che segna la strada dal Levante al
Ponente”).
Un testo, dunque,
di gradevolissima (e nutriente) lettura. Il piacere immaginifico-sensoriale trasmesso dalla lettura dei versi – piccoli
fiori poetici dai mille volti - affiancati dalle traduzioni - è un continuo
crescendo: da “Ti cuntu ‘n-cuntu” alla
“Prijera ppi turnari a casa”, da “’U cuntu scurdatu” a “Pàvala a pìvala” (una sorta di
scioglilingua), giusto per citarne alcuni, graziosamente presentati in una
sorta di tavolozza ricca di colori dalle sfumature diverse.
Al
lettore il piacere di “scovare” nell’accattivante silloge di Micciché le intime
dimensioni di cui sopra, da mettere magari a confronto con i propri criteri,
con le proprie sensibilità, che, consciamente o meno, entrano in gioco quando
si esplorano con acutezza aspetti introspettivi del quotidiano le cui radici si
rintracciano in una tradizione che si perde nelle pieghe del tempo.
Giuseppe Nativo
Nessun commento:
Posta un commento