E’ un libro composito quello del poeta, narratore e
critico letterario ibleo Giovanni Occhipinti. Nel titolo la sintesi dell’opera:
“Epigraffi, tre scherzi e una pasquinata, con una monodìa per Giovanni” (pp.
156), da qualche settimana in libreria e pubblicato dalla siciliana Casa
Editrice Kimerik, con prefazione di Mauro Macario figlio illustre del famoso
attore e comico italiano.
Una parte preponderante è dedicata agli “epigraffi” o meglio
epigrammi o epitaffi intesi a ridicolizzare il potere, talora in maniera
caricaturale, evocando un’aura particolare che trapela, emana ed emerge
dirompente dal foglio che rappresenta la lavagna su cui è graffito il pensiero.
Di qui epigraffi ma più ancora graffi o graffiti come “quelli che i poeti di
strada – annota il prefatore - incidono con le unghie dell’indignazione e della
rabbia sui muri scrostati delle periferie urbane accanto ai pittori di strada
che dipingono i murales per imprimere eventi sociali del dissenso nella
coscienza collettiva”. Occhipinti non risparmia nessuno, nemmeno le “coronate
teste di rape della politica dell’oro”. Tutti cadono sulla sua “parola
patibolare” attraverso delicate ma pressanti strofe ritmiche, beffeggiatrici,
non di rado molto corte, che richiamano alla mente gli haikai (genere poetico
della letteratura giapponese i cui echi talora si trovano nella poesia italiana
postdannunziana), miranti a una essenzialità epigrammatica e caratterizzate da
una punta di arguzia ironica e mordace.
Assistiamo, dunque,
ad una sorta di duello tra Occhipinti e la controparte avversaria? “Si tratta di una sfida – spiega
Macario – che inizia con uno schiaffo guantato e finisce con un colpo di
fioretto che al massimo fa cadere i pantaloni al contendente ridicolizzandolo
davanti al popolo divertito”.
Gli “epigraffi” tengono conto non solo dell’indignazione
individuale dell’autore ma rappresentano anche l’eco di una voce che conta
poco, talora inascoltata: la voce di tanta gente. “Certo – confessa il
prefatore – lasciandomi trasportare dalle mie radici teatrali di famiglia, non
posso sottrarmi alla tentazione di figurarmi un Occhipinti in puro stile
petroliniano, che come quel grande maestro d’ironia e di sarcasmo, entra nel
palco dell’immaginario collettivo, con tanto di frac, cilindro, e garofano
all’occhiello, per mettere in berlina l’arroganza e la stupidità del potere
vigente”. Di qui i versi incalzanti dei “tre scherzi” (“Ballatetta celeste in
versi ibridi”, “Egloghetta jocosa”, “Stornellata campagnola”) che culminano con
la “Pasquinata” dedicata, “tra lagnanze ed esultanze / nell’intrico di suoni e
di assonanze”, a “Berluscrenzi o Renzusconi” in questa “Italietta di cartone”.
Con questo libro ci si trova a convivere con le due anime
di Occhipinti, quella conosciuta di “poeta lirico dai timbri dolenti e
sublimali”, e l’altra, forse più nascosta e irridente, di “Pasquino” in vena di
deridere l’attuale classe politica sopraffatta da “un dozzinale perbenismo / da
cortile”.
Sfogliando il libro e superati i tre quarti, il lettore
ha la possibilità di incontrare l’altro Occhipinti, ovvero quello che emerge in
“Monodìa per Giovanni”. L’autore, dopo aver indossato i panni di Pasquino e
deposta la maschera, “sente l’urgenza confessionale di affidare il suo congedo”
al canto per voce sola, come nell’antica tragedia greca, e cantando a se stesso
“ripercorre la filiera della sua vita” intrecciandola su di “un pentagramma
evocativo e invocativo”.
Il poeta si
trasforma in compositore? “Emerge – precisa Macario - una concertistica fusione di note basse e note
acute in un intonato requiem esistenziale che rianima i suoni interori
trascritti verso dopo verso. Malgrado il ripetuto ‘io io io’ di Occhipinti,
questi versi smembrano l’individualità per diventare gli interrogativi e gli
aneliti di ogni uomo, impotente a cambiare il proprio destino”.
Dalla “Monodìa” affiora una componente dalla forte
connotazione autobiografico-memoriale in cui il “giogo-gioco della vita, / i
passi quotidiani delle ore, / il lento scivolare degli istanti” si alternano
“nell’orto dei ricordi”.
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