Il ruolo politico svolto dalle Società Operaie di Mutuo Soccorso nella storia
dell’Italia unita è stato sovente dimenticato quando non del tutto ignorato. La
storiografia ha esplorato la storia delle Società di Mutuo Soccorso come forza
sociale che coagula il nucleo originario del movimento operaio italiano, come
soggetto propulsivo che contribuisce a formare e organizzare il sindacalismo
nella penisola, come istituzione che dal basso colma l’immenso vuoto di una
legislazione sociale nella vecchia Italia liberale[1];
oppure si è soffermata a ricostruire la vita interna dei sodalizi descrivendone
i caratteri, le iniziative e le ragioni sociali nel contesto della più ampia
vita collettiva di una città o regione d’Italia[2].
Le Società Operaie, tuttavia, non rappresentano un fatto esclusivamente
sociale; così come il mutualismo e il cooperativismo da esse sviluppati non si
riducono solamente a forme economiche capaci di coesistere con le istituzioni
del sistema capitalistico. Le Società Operaie furono anche un fatto politico,
nei primi decenni di vita unitaria italiana; il mutualismo e il cooperativismo
si presentarono sulla scena politica del tempo come autentiche idee-forza alternative
al capitalismo e al nascente collettivismo. Recuperare questo particolare tipo
di esperienza politica vissuta dalle Società Operaie, potrebbe essere utile
oggi di fronte al capitalismo che mostra
finalmente il suo vero volto di sistema fondato sull’ingiustizia sociale
mascherata di “sviluppismo” esasperato, competizione selvaggia e senza regole,
meritocrazia dell’avere piuttosto che dell’essere; e di fronte al fallimento
storico del collettivismo che non è riuscito ad affermarsi senza fare ricorso alla
barbarie totalitaria. Archiviata l’utopia comunista della società senza classi
e senza Stato; consolidatosi e affermatosi, sul piano politico e su quello
economico, il liberalismo che ormai come <<uno stesso manto ideologico,
ampio e avvolgente, unifica tutti i partiti, vecchi, rinnovati e nuovi>>[3];
la storia politica delle Società Operaie di Mutuo Soccorso potrebbe ispirare la
ricerca di spazi nuovi nel campo del pensiero e dell’azione di tutti coloro che
non intendono rassegnarsi a subire la corrente del tempo dominante.
La lotta politica nell’Italia
unita
Nel
1860 la nascita della nazione era stata generata da una collaborazione senza
precedenti tra i democratici e i liberali italiani che <<portarono la
massima parte dell’Italia nelle loro mani, ovvero in quelle di Vittorio
Emanuele II>>[4];
il soggetto attivo di questa straordinaria collaborazione politica era stato il
movimento garibaldino. Il garibaldinismo, però, <<mediando il contrasto
fra iniziativa moderata e iniziativa democratica, guerra regia e guerra di
popolo, servirà al movimento liberale per sconfiggere quello democratico che è
insieme a lui in corsa per il potere>>[5].
Nel 1861 la proclamazione del Regno d’Italia sarà solennemente sancita da un
Parlamento dominato da una maggioranza liberale, eletto con il sistema
elettorale censitario imposto dai liberali, al cospetto di un governo
presieduto da Cavour e composto esclusivamente da liberali. La collaborazione
del 1860, dunque, si era trasformata in ostilità totale nel 1861 e Garibaldi e
i democratici furono confinati nel campo degli sconfitti;
<<l’emarginazione dei democratici attuata da Cavour (…) disgustava e
alienava dalle istituzioni la parte più attiva del popolo e della piccola
borghesia, soprattutto nel Mezzogiorno>>[6].
Le conseguenze furono disastrose e destinate a incidere profondamente nella
Storia d’Italia scavando un solco che non sarà più colmato. I liberali, scrive
Carocci, <<nei confronti delle classi popolari, soprattutto dei contadini
e di quelli meridionali in particolare, non esitarono a negare la tutela dei
diritti civili che, sulla carta, lo Stato liberale di diritto garantiva a tutti
ma che nella pratica garantì solo alla borghesia>>[7].
Si
delineava così, nell’incerto e difficile cammino iniziale dell’Italia unita,
l’aspro sentiero di una lotta politica caratterizzata dalla volontà di potenza
dei democratici di riprendere l’iniziativa politica e dall’ostinata resistenza
conservatrice dei liberali per non perdere il potere acquisito.
Lo
slancio vitale dei democratici, seduti all’estrema sinistra del Parlamento di
Torino, è ben rappresentato in un efficace brano dello storico Renato Composto
che così scrive: <<Battuti dalla spregiudicata ed abile politica
cavouriana - quando avevano pensato di essere ormai avviati a cogliere i frutti
del loro sostanziale apporto all’unità nazionale - ed inchiodati a Teano;
vincolati dalla ristrettissima base elettorale che, com’è noto, non toccava
nemmeno il 2 % della popolazione, sì da non poter nutrire fondate speranze di
provocare uno spostamento di forze nella rappresentanza nazionale e pur
desiderosi di ottenerlo, i democratici cercarono, pertanto, dopo la morte di
Cavour e mentre i suoi immediati successori stentavano a mantenere sicura
l’eredità, di acquistare nuovo vigore, procurandosi quella base che nell’estate del 1860 non avevano voluto o saputo cogliere
nel moto contadino siciliano, e di dar vita ad un movimento organico per la
diffusione e l’attuazione delle proprie istanze, sino ad improntarne la vita
del Paese>>[8].
In questa trama, tessuta dai democratici per riprendere l’iniziativa politica
nel Paese, s’inserisce l’azione politica svolta dalle Società Operaie di Mutuo
Soccorso.
La breccia di Firenze
Il
27 settembre 1861 si aprì in Firenze il IX congresso delle Società Operaie
italiane, il primo dopo l’unità. E’ qui che inizia l’assalto alla politica di
questi organismi ormai attivi e operanti in tutto il territorio nazionale; ed è
in quest’ambiente che si combatte la prima, dura battaglia tra liberali e
democratici. Nate nel 1848 in Piemonte per sopperire all’assenza di servizi e
assistenza ai lavoratori, le Società Operaie diverranno dopo il congresso del
1861 l’embrione del movimento sindacale italiano e il laboratorio dei gruppi
politici che si schiereranno dalla parte del lavoro e dei lavoratori in Italia.
I sodalizi coesisteranno con le nascenti camere del lavoro e con le nuove
organizzazioni sindacali costituendo quella filiera sociale che ben presto
tirerà fuori dalla solitudine i lavoratori italiani; ispireranno la politica
sociale di quelle forze democratiche, repubblicane, anarchiche, socialiste che
costituiranno l’alternativa allo Stato liberale. Saranno la base dei sindacati
e dei partiti dei lavoratori italiani. Questo duplice ruolo è magistralmente
rappresentato in Sicilia dall’esperienza dei Fasci Siciliani dei Lavoratori,
che saranno organismi sindacali e politici al tempo stesso e il cui statuto
sarà forgiato sul materiale statutario e sulla partecipazione attiva delle
Società Operaie dell’Isola.
Il
IX congresso delle Società Operaie segna la svolta storica dei sodalizi:
diretti fino allora dai liberali, essi passeranno sotto il controllo dei
democratici. Concitato, dibattuto, agguerrito; seguito con apprensione dai
democratici, con timore dai liberali, con interesse dalla stampa europea, quel
congresso annunciava l’ingresso del mondo del lavoro italiano nell’agone
politico; e si concludeva con una scissione interna emblematica della natura
intransigente dello scontro frontale sulla questione sociale che si sarebbe ben
presto combattuto in Parlamento e nelle piazze, nelle campagne e nelle
fabbriche. Presieduto da Giuseppe Mazzini e dominato dalla vis oratoria e polemica del Guerazzi e del Montanelli, il congresso
di Firenze contribuì ad adunare attorno al movimento democratico un’ampia parte
di quel proletariato delle fabbriche e delle campagne che machiavellianamente
era stato sfruttato dai liberali per i plebisciti del 1859 e del 1860 e poi
espulso dalle prime elezioni nazionali per il primo Parlamento dell’Italia
unita mentre inutilmente Cattaneo, Garibaldi e ancora Mazzini proponevano
l’elezione di un’Assemblea Costituente da eleggersi con il suffragio universale[9].
Piuttosto
che ripercorrere le vicende congressuali, con lo svolgimento dei lavori e il
fuoco di fila delle relazioni e delle mozioni contrapposte[10],
si ritiene opportuno evidenziare i termini del conflitto. Nel congresso si
fronteggiarono due tendenze ben definite: da una parte i democratici ben decisi
a dare battaglia per portare il movimento delle Società Operaie sul terreno
della lotta politica; dall’altra i liberali, forti della tradizione che si era
affermata in Piemonte prima dell’unità nazionale, ostinati invece a tenere le
Società Operaie fuori dall’arena politica. Questa contrapposizione produsse una
serie di altre fratture: vinta la prima battaglia, con l’approvazione di una
mozione del Montanelli nella quale era dichiarato che le Società Operaie - pur
non essendo associazioni politiche - potevano intervenire nel dibattito
politico nazionale tutte le volte che lo ritenessero necessario, i democratici
incalzarono i liberali sui temi della richiesta del suffragio universale e
della costituzione di un’organizzazione operaia unitaria nazionale. Anche qui,
i democratici riuscirono a far deliberare che <<L’Assemblea delle Società
Operaie conoscendo non potersi ottenere il sollecito e completo riscatto delle
plebi senza sviluppare ed estendere l’associazione mediante l’unificazione
delle Società e procurare il suffragio universale e l’istruzione fatta
obbligatoria e secolarizzata, delibera di eleggere una commissione incaricata
di avvisare ai modi più convenienti per ottenere l’una e l’altra>>[11].
Nel
1861, dunque, un congresso di Società Operaie stabiliva per la prima volta che
i sodalizi, che non erano e non sarebbero mai stati partiti politici, potevano
e dovevano tuttavia partecipare attivamente alla vita politica dello Stato. Da
quel momento, le richieste sociali avanzate dai lavoratori nei sodalizi
cominciarono a passare attraverso la breccia politica aperta dai democratici a
Firenze; la questione sociale diventò così questione anche politica. Gli esiti
di quest’atto rivoluzionario si videro nello stesso momento in cui il congresso
cominciò a trattare i temi di carattere sociale: condizioni di vita dei lavoratori,
salari, orario di lavoro, disoccupazione, abitazioni, scioperi, arbitrato nelle
controversie del lavoro. Si trattava di temi che nei precedenti congressi erano
stati sempre elusi quando non respinti pregiudizialmente; ma adesso, in una
lunga mozione, il congresso affrontò la questione sociale e politica del
conflitto tra capitale e lavoro. Osserva in proposito Gastone Manacorda:
<< per la prima volta, un congresso operaio faceva proprie due
rivendicazioni fondamentali degli operai: aumento dei salari e riduzione delle
ore di lavoro, insieme congiunte. Per la prima volta, un congresso si schierava
dalla parte degli operai e non considerava queste questioni soltanto come
materia degna di studio, ma affermava la urgente necessità di affrontarle nella
pratica. (…) E se l’aperta lotta di classe era ripudiata, tuttavia la richiesta
abrogazione del divieto di coalizione, passato dalla legge Le Chapellier nei
codici penali dell’800 e che rappresentava una caratteristica limitazione della
libertà degli operai nello Stato borghese, distingueva nettamente, anche su
questo punto, la posizione dei democratici da quella dei liberali>>[12].
La
vittoria democratica a Firenze era stata completa: l’unificazione delle Società
Operaie, il principio della partecipazione politica, la richiesta del suffragio
universale, l’istruzione laica e obbligatoria, l’adozione del mazziniano I doveri dell’uomo come testo per
l’educazione del lavoratore, l’aumento salariale, la riduzione dell’orario di
lavoro, l’elezione di Garibaldi a presidente dell’Assemblea congressuale,
l’omaggio pubblico a Mazzini e infine, per attrarre i settori più avanzati
della Sinistra costituzionale, il saluto al “Re Galantuomo”; tra democratici e
liberali si era aperto <<un abisso che non si sarebbe più colmato>>[13].
Si trattava di una vittoria significativa, avvalorata dalla decisione dei
liberali di abbandonare il congresso per celebrare un controcongresso ad Asti
che avrebbe condannato i deliberati di Firenze; e mentre tutta la stampa
italiana liberale e reazionaria, dalla cavouriana L’Opinione alla clericale Armonia,
polemizzava con forza contro il congresso di Firenze, dalla Francia di
Napoleone III l’ambasciatore Costantino Nigra (già collaboratore attivo del
Cavour) si affrettava a far sapere che a Parigi avrebbero visto di buon occhio
lo scioglimento delle Società Operaie italiane. Nigra, naturalmente, non
mancava di far notare il proprio personale sostegno al suggerimento dato dal
governo francese[14].
Il contributo delle Società Operaie
I
deliberati del IX congresso delle Società Operaie diventarono le parole
d’ordine dell’azione politica e sociale dei sodalizi in tutt’Italia e
contribuirono ad allargare la base del movimento democratico italiano. Il
suffragio universale, l’istruzione obbligatoria, l’aumento salariale, la
riduzione dell’orario di lavoro diventarono parte integrante della Società
Emancipatrice Italiana fondata nella primavera del 1862 da garibaldini e
mazziniani. La Società Emancipatrice, nucleo attorno al quale si coagulerà il
movimento democratico, ebbe il sostegno dei sodalizi italiani e specialmente in
Sicilia il movimento delle Società Operaie sosterrà Garibaldi venuto nell’Isola
per tentare una nuova impresa che potesse restituire ai democratici
quell’iniziativa politica fermatasi a Teano. L’impresa fu stavolta fermata in
Aspromonte con le fucilate dell’esercito regolare sui volontari democratici. Ma
quelle fucilate non poterono disperdere il movimento che ormai si era
costituito e che agiterà la storia politica e sociale dell’Italia
post-unitaria. Gli esiti del congresso di Firenze legarono idealmente la lotta
politica del movimento operaio italiano iniziata con Mazzini e Garibaldi,
proseguita con Bakunin e poi con il partito socialista. Come ha ben evidenziato
Renato Composto, i principi politici delle Società Operaie contribuiranno ad
animare <<quei fermenti che, nonostante i suoi limiti programmatici, lo
stesso movimento democratico diffuse nella società italiana, e soprattutto nei
ceti popolari, preparando e sollecitando la maturazione di una più larga e più
approfondita coscienza socialista>>[15].
Vale
la pena di soffermarsi brevemente su quei limiti che la storiografia
tradizionale ha indicato nel ripudio del principio marxiano della lotta di classe
e nell’iniziale ripudio dello sciopero come metodo di lotta. A Firenze, i
democratici avevano individuato nel suffragio universale lo strumento
necessario per integrare le masse nella vita dello Stato e affermare la
democrazia politica; e nel confronto diretto tra rappresentanti dei datori di
lavoro e rappresentanti dei lavoratori lo strumento idoneo a costruire la
democrazia economica nel Paese. Insieme al mutualismo e al cooperativismo, si
trattava di soluzioni efficaci per estirpare dallo Stato e dalla società
italiani il cancro capitalista dell’ingiustizia sociale e della tirannia del
denaro evitando spargimenti di sangue. Tuttavia, quando ci si rese conto che la
controparte si rifiutava di accettare il confronto dialettico, non mancò ai
lavoratori il coraggio di scegliere forme conflittuali di lotta; emblematico è
il caso del movimento dei Fasci Siciliani dei Lavoratori che non esitarono a
far valere le loro ragioni con la lotta, con il sangue, con la galera, sfidando
la repressione; ed è noto che i Fasci provenivano direttamente dalle Società
Operaie siciliane. La verità è che la lotta di classe non può essere
considerata come l’avvenimento grandioso che si svolge in un determinato
momento circoscritto nel tempo e nello spazio. La lotta di classe è un evento
che si svolge quotidianamente, ora con la violenza e ora con le armi della non
violenza; e i protagonisti della lotta non sono due classi distinte e distanti
ma due forze contrapposte: il capitale e il lavoro. Nel 1948, con la
Costituzione repubblicana, la lotta di classe portò alla Repubblica fondata sul
lavoro (e non sul capitale), alla sovranità popolare (e non nazionale), alla
partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, al riconoscimento
del mutualismo, del cooperativismo e del risparmio, al Cnel incaricato di
dirimere le controversie economiche e politiche tra capitale e lavoro, al
suffragio universale maschile e femminile. Il lungo cammino politico del
movimento operaio italiano, cominciato a Firenze nel 1861 con le Società Operaie,
era così consacrato a Roma nel 1948 da quell’Assemblea Costituente negata nel
1860. Battersi oggi per l’applicazione radicale della lettera Costituzionale
significa non disperdere il patrimonio di lotte e conquiste costituito dai
nostri padri in quelle Società Operaie ancora oggi aperte in ogni angolo del
Paese. Forse è arrivato il momento di ricominciare tutto da capo, seguendo
l’eterno ritorno della storia.
Michelangelo Ingrassia
[1] Si veda, per esempio, lo studio di G.
Manacorda, Il Movimento operaio italiano,
Editori Riuniti, Roma 1971; o anche S. Musso, Il sindacalismo italiano, Fenice 2000, Milano 1995
[2] Emblematica, in tal senso, l’opera di D.
Palazzo, Le società operaie di mutuo
soccorso studio di un campione: Francavilla Fontana, Lacaita editore,
Manduria 1974
[3] P. Ignazi, I partiti italiani, Il Mulino, Bologna 1997, p. 141
[4] E. Nolte, Storia dell’Europa 1848-1918, Marinotti edizioni, Milano 2003, p.
60
[5] M. S. Messana Virga, La formazione del movimento garibaldino,
in G. Tricoli (a cura di), Studi in
memoria di Gaetano Falzone, Ila Palma, Palermo-Sao Paulo 1993, pp. 289-320
[6] G. Carocci, Storia dell’Italia moderna, Newton Compton, Roma 1995, p. 13
[7] Ivi,
p. 16
[8] R. Composto, I democratici dall’unità ad Aspromonte, Le Monnier, Firenze 1967,
pp. IX-X
[9] Nell’ottobre del 1860, riuniti a Napoli,
Garibaldi Mazzini e Cattaneo avevano inviato una lettera a Vittorio Emanuele II
con la quale chiedevano al sovrano di scegliere tra Cavour e Garibaldi; il re
rispose rinnovando la fiducia a Cavour; così naufragò il progetto democratico
di spostare la monarchia italiana a sinistra poco prima che fosse proclamata la
nascita della nazione unita; in proposito si veda M. Ingrassia, Carlo Cattaneo e la Sicilia, in C.
Paterna (a cura di), La Sicilia
nell’unità d’Italia, Bonanno Editore, Catania 2011
[10] La cronaca del congresso è efficacemente
ricostruita in G. Manacorda, op. cit.,
pp. 77-88
[11] Cfr. R. Composto, op. cit., p. 38
[12] G. Manacorda, op. cit., pp. 83-84
[13] Ivi,
p. 84
[14] Voci di simpatia e approvazione vennero
invece da alcuni ambienti dell’opinione pubblica inglese; sul dibattito
nazionale e internazionale sollevato dalle vicende congressuali di Firenze si
veda R. Composto, op. cit., pp. 43-47
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